“Io sono Medea” di Claudia Mazzilli: la storia riscritta dai vinti
Il romanzo Io sono Medea di Claudia Mazzilli (Nulla Die edizioni, 2021, pp. 151, euro 14) assorbe in sé, con originale permeabilità, fatti di cronaca a cui rischiamo di abituarci, scivolando in un assopimento indifferente: la morte dei migranti nel Mediterraneo.

Trasfigurato nella forma mitologica, cioè nei miti del Mare Nostrum solcato dagli Argonauti, da Odisseo, da Enea, questo racconto ci scuote dal dormiveglia per il solo fatto di parlare un altro linguaggio.
Ed è la sperimentazione sulla lingua (che prima è pacatamente espositiva, con sporadici picchi lirici, e poi deraglia nell’espressionismo cupo e visionario) a farci gradualmente comprendere che non esiste una forma più totale di sconfitta per l’umanità che la perdita anonima di tante vite: la cancellazione del nome degli uomini, sepolti dalle acque come da un coperchio tombale, costituisce una cancellazione di storie e di identità culturali e corrisponde alla rimozione di un problema.
Questa nuova Medea è una donna socialmente impegnata nel volontariato come ne incontriamo tante nella nostra quotidianità, ma è anche una maga, come tutte le Medee di autori antichi e moderni e, nel finale dell’opera, restituisce la vita con un semplice gesto vocativo: chiama il nome di chi è morto in mare.
Medea è, ancora una volta, la moglie di Giasone: ma non ha commesso nessun infanticidio, né nei confronti del fratello Absirto né nei confronti dei figli avuti da Giasone. È arrivata a Iolco con l’Argonauta, si è poi trasferita ad Atene e poi a Corinto, ma quando Giasone con il suo millenario opportunismo ha colto l’occasione di contrarre nuove nozze con la figlia di Creonte (non re, ma imprenditore nel settore alberghiero), il rapporto tra Giasone e Medea è già naufragato a causa della misteriosa sterilità di Medea, o forse del suo eccesso di precauzioni al fine di non concepire un figlio da Giasone.
È ancora il tema dei figli contesi tra il sistema di valori materno e quello paterno, come per tutti gli autori e le autrici che hanno voluto raccontare Medea. Ma qui Medea sembra arrendevole, si mette da parte e acconsente subito alle nuove nozze di Giasone e Glauce.
Nei vent’anni successivi assiste ai fasti familiari e imprenditoriali di Giasone, che mette al mondo due figli e diventa un agente del commercio del cobalto su scala internazionale.
Per vent’anni Medea vive del modesto lavoro di maestra ed è collega di Centauro, nient’altri che Chirone, che anche nel mito è maestro di Giasone e Achille: due eroi della sapienza, Medea e Centauro, degradati a semplici impiegatucci della scuola statale.
La vita di Medea è questa: opacizzarsi, dare meno fastidio possibile (a Giasone, Glauce e Creonte, che le impongono di vivere nei loro hotel man mano che vengono dismessi, costringendola a continui traslochi da un albergo all’altro); non irritare la comunità che la guarda con diffidenza tiepida e ipocritamente affettuosa, in un paesino costiero della Grecia nord-orientale, a pochi chilometri da Salonicco.
I vincitori hanno preteso che l’identità dei vinti venisse negata, rimossa, spazzata via, sostituita con un’altra identità che è quella di una Medea che insegna ai figli dei Greci i valori dei Greci, dimentica dei propri, come se non fosse mai stata altrove, come se non fosse barbara.
La maestra Medea fa parte di un processo attivo e passivo di colonizzazione. Finché “Accadde un giorno, tre anni fa. O forse quattro, Creusa era ancora viva. Durante un pomeriggio in riva al mare, in uno di quei languori che erano un’attesa: l’attesa paziente di qualcosa che sarebbe affiorato dalla foschia di un orizzonte autunnale, dalle ombre della mia orgogliosa solitudine. Tu non sarai più la sola straniera qui, Medea. Vidi la prima barca, così uguale e così diversa da quella su cui arrivammo io e Giasone in Grecia: traboccava di braccia disperate e invocanti. (…) Li immaginai guardarmi dalle onde, una figurina sulla terraferma, ed io stessa mi vidi sulla barca insieme a loro, a scrutare sulla riva quella Panaghia fiera e tenace, la madonnina solitaria che ero e che sono: e che li aspettava. Non mi resi conto di quello che feci. Ero e sono la figlia di un’oceanina, la figlia di Idia” (p. 68).
Medea si scuote e ricorda quella che è stata prima e ancora è destinata ad essere. Crea un centro di accoglienza (con i pochi che l’hanno davvero accettata per quella che è: l’amica Iole; il congolese Souba; ma non Centauro, che si farà amputare le zampe equine e diventerà il direttore della scuola).

Sui migranti Medea sperimenta un nuovo modello educativo, rispettoso della cultura dei vinti. La riscrittura della loro esistenza da parte dei vincitori trova un simbolo potentissimo negli intermezzi narrativi in cui Medea stessa riporta alla memoria la vicenda della morte in mare di suo fratello Absirto (rimossa, depositata nella cicatrice più nascosta): la versione tradizionale per cui Medea aveva fatto a pezzi il corpo del fratello, nel romanzo di Claudia Mazzilli, è una mistificazione di Giasone, è la propaganda dell’Occidente: un’operazione sistematica di colpevolizzazione di Medea e di ogni straniero.
In realtà, durante la fuga dalla Colchide attraverso il Mar Nero e il Mediterraneo (trasfigurati in un unico mare dal nome potentemente simbolico: Mare dei Ponti), è stato Giasone a far morire Absirto: negandogli acqua dolce, ne ha causato la morte per disidratazione.
Claudia Mazzilli, docente di Lettere Classiche in un Liceo pugliese, decostruisce ogni piega del mito come narrazione maschile e assolve Medea (come già aveva fatto Christa Wolf per descrivere la difficile integrazione tra le due Germanie dopo la caduta del muro di Berlino in Medea – Voci, e/o edizioni): “Come grazie a me ti impadronisti del vello d’oro lo cantarono i Greci: come addormentai il drago insonne con un ramoscello di ginepro, con le mie nenie, e la persuasione che avevo negli occhi io, la sua guardiana. Per te mi arrampicai anche sulla quercia, fino al ramo dove era sospeso il vello. Io invece canto come spezzare la catena di complicità che mi lega ai tuoi misfatti” (p. 128).
Ma, allo stesso tempo, l’autrice si serve dell’energia incandescente e vitale della narrazione mitica per mettere sotto processo la Storia dell’Occidente. Dall’abisso del Mare dei Ponti, i personaggi muti, messi a tacere dalla retorica fortissima del vincitore, affiorano a parlare nell’ultimo capitolo, un esodo, in senso strettamente teatrale, all’interno di un testo stilisticamente e strutturalmente lineare eppure complesso, in cui l’epilogo inquieta ed è, come vuole il titolo, Un altro inizio.
Written by Luigia Clemente