“La verità delle donne” di Meg Wolitzer: solo noi possiamo decidere del nostro destino

Definisco i miei commenti ai libri che leggo reazioni e non recensioni, perché li reputo alla stregua di fenomeni che accadono mentre leggo, e non analisi di dati relativi ai medesimi. In altre parole, mi reputo un fisico sperimentale, attento a una verità effettuale ma fatalmente reciproca, e non astrattamente teorica.

La verità delle donne di Meg Wolitzer
La verità delle donne di Meg Wolitzer

L’esperimento coinvolge il libro (e l’autore) e me olisticamente, in una correlazione (entanglement) che avviene perché avviene, che muta entrambi, in ossequio, ovviamente, al primo principio della borges-dinamica, per cui ogni opera letteraria reagisce e muta la propria forma a ogni lettura (o rilettura). Se poi a quest’ultima succede una reazione scritta, il gioco è fatto.

Tutta questa tirata (speech pull) serve a chiarire il problema una volta per tutte ma non perché, fino a pagina 280, nonostante varie sottolineature, non ero riuscito ancora a decidermi a scrivere alcunché.

Ah, dimenticavo: la reazione è quasi sempre in itinere e, se non lo è stata ancora, dev’esserci stato un motivo che intendo scoprire. In riferimento alla pagina suddetta ho sottolineato la frase: “I seni sbucavano come parentesi ai lati della pettorina”. In effetti, questo capita ai seni muliebri, minuscoli o enormi che siano, che racchiudono un discorso nel discorso, il quale attira il lettore in misura maggiore del discorso che li contiene.

Si incontra una donna e lo speech, l’argomentazione, ti cattura. Il contrario non accade. Non si incontra un paio di seni che ti mettono in relazione con la sua proprietaria/titolare. Può anche succedere, ma deve passare tempo, quando l’effetto senologico è cessato. Questo lo so per esperienza personale, da svariati decenni, ma c’è voluto Meg Wolitzer perché me ne rendessi conto.

L’ultima lettura prima de La verità delle donne è stata l’inarrivabile raccolta di Racconti dell’Ohio di Anderson, che ha un profilo antagonista rispetto al presente romanzo. Sherwood parte da un objectum, che era un sub-jectum, nascosto, che a poco a poco emerge. Da lì nasce la storia, che è costruita mattone dopo mattone sopra quelle fondamenta. Meg Wolitzer si comporta in un modo simmetricamente opposto (la mia non è una certezza, ma una supposizione). Lei parte da un’idea e su di essa costruisce una storia, come fanno in genere gli architetti. Nella sua mente l’edificio è montato a grandi linee (anche questa è un’ipotesi). Viene poi chiamato un geometra donna a cui sono affidati dei calcoli da cui non si può prescindere se si vuole andare avanti. Dopo di cui, viene creata la rete in cui sono individuati i vari punti luce, corridoi, tinelli, cucine, salotti, camere da letto, camini, sgabuzzini, ripostigli, cantine, solai, box, eccetera. Poi s’interpella l’ingegnere che deve compiere una prima disamina del progetto e una verifica matematica della sostenibilità dello stesso. Poi si dà inizio finalmente alle danze, ai lavori. A un certo punto, sono contattate altre figure professionali quali decoratori, arredatori, pavimentisti, imbianchini and so on.

Alla fine l’edificio è completato.

A questo punto, Meg Wolitzer potrebbe intervenire e dire: Ma no! Non è affatto così, per me la scrittura è un fatto istintivo, a volte irrazionale e quando giungo all’ultima pagina del mio manoscritto del mio lavoro mi trovo Altrove rispetto a dove avevo pensato di trovarmi alla fine. Idealmente le rispondo: è possibile che io abbia preso una cantonata, ma lo è anche che tutta questa razionalità tu l’abbia sviluppata inconsapevolmente. Di fatto l’edificio regge. Ed è questo che importa. Ah, a proposito. L’opera architettonica intanto ha superato il terzo controllo antisismico, quello che, dicono, non è stato raggiunto dal celebre Ponte di Calatrava che reca all’autostrada di Reggio Emilia.

Meg Wolitzer dissemina il suo racconto di vari punti di fuga, dove converge puntualmente (e magicamente) il discorso, e dove è presente un elemento architettonico che contiene una sua particolare fonte di energia emotiva che ti trasporta da un’altra parte, anche molto distante. Non si tratta, per lo più, di grandi avvenimenti (che non mancano, come ad esempio il lutto atroce che colpisce una famiglia d’origine portoghese), ma di una specie di gangli nervosi che posseggono il suddetto potere cinetico.

Una dei personaggi della storia, l’autorevole Faith Frank (nomen omen?) ha questo potere, per cui un suo motto apparentemente improvvisato crea quel momento di brio che annulla le tensioni dei protagonisti.

Delle battute non di un personaggio, ma della narratrice, producono effetti dirompenti, di cui indico un esempio: “La sala esplose in un applauso di apprezzamento, fragoroso come se un oggetto fosse precipitato in una padella d’olio bollente da una grande altezza.” Questo fa sì che anche Greer, la timidissima protagonista (una delle quattro, la più rilevante) “iniziò subito ad applaudire ‘come una pazza’…”.

Oppure quando Cory, il suo tenero fidanzato,finalmente abitava il proprio corpo come se lo possedesse davvero invece di averlo preso a nolo in un posto poco raccomandabile.”

Ce ne sono un’infinità e a seguire indico i più significativi (apposta) in modo poco compiuto, segnando solo la parola principale e la pagina (“pirottino” 105; “padella” 122; “cadde” 134; “mobili” 155, “fango” 232

Non mancano le frasi che si possono definire celebri, dette per lo più da e con Faith, come la seguente, che non posso non condividere con entusiasmo: “… penso che le persone più capaci del mondo siano gli introversi che hanno imparato da soli a essere estroversi.”

Un’altra, che potrebbe far sanguinare i maschietti (per fortuna io cambio sesso a ogni pagina, come tira l’aria), a proposito delle “donne di successo”: “Credo che molte di loro sappiano come parlare agli uomini che hanno un deficit di attenzione.”

Altre battutine salaci: “Dio” 144; “neve” 145; “chiave” 145; “cercarci” 145; “ricattarci” 145: (questa pagina mi ha leggermente debilitato).

Non so se l’autrice si sia accorta che poco prima una donna criticava gli uomini per certi loro giudizi assoluti e distruttivi, e poi a una femminista scappa detto: “quello stronzo di scrittore”: la cosa fa piacere, però, perché mal comune mezzo gaudio.

Troie”: “Zee chiamava così le donne che odiano le donne”. Chissà se si possono chiamare magnaccia o gigolò i corrispettivi ometti?

Ci sono alcune boutades che riportano un certo retrogusto forse non acidulo, ma sicuramente piccante e un tantino fruttato. Il pene di Cory pende leggermente a sinistra (diversamente dal PD), per cui la fidanzatina: “Se fosse un oggetto comprato in un negozio” – le aveva detto una volta probabilmente lo porteresti indietro.” Si tratta di una confidenza che fa con una sua amica sexy, simpatica, lesbica, ma soprattutto in gamba. Questa confidenza indica che le due ragazze “erano intrecciate e indivisibili”, almeno per il momento.

Un altro aspetto da evidenziare: dopo aver letto un libro e mezzo di questa autrice, il lettore è consapevole che, per lei, vale il detto eraclitiano panta rei, tutto scorre, per cui quello che pare certo ora, può diventare improbabile domani.

Donna intuitiva è Faith, una superfemminista autorevole che dirige la baracca dove lavora Greer, in particolare quando dice: “Mi piace il modo in cui cerchi di capire le cose, Greer. Sei sincera e riflessiva, anche riguardo alle parti di te stessa di cui non vai fiera.”

Faith è spesso capace di dire una scemenza che però ha il pregio di sdrammatizzare. Del tipo: Qualcuno di voi odia la carne (stanno preparando un barbecue)?: “Se sì, ditelo ora e tacete per sempre.” Greer è vegetariano ma quel giorno si adegua un po’ obtorto collo alle scelte della compagnia.

Faith aveva vissuto da ragazza in una famiglia “all’antica”. Al fratello era permesso di andare in un collegio lontano da casa, anzi, egli era motivato a farlo. A lei ciò era assolutamente vietato: “Te lo proibiamo. Ti taglieremo i fondi. Parlo sul serio, Faith.” Al che Faith se ne andrà di casa e si manterrà da sola.

La vita, lei dice, è fatta di “una serie di momenti”, di “piccole prese di coscienza”, di incontri con “persone che ti influenzano e ti indirizzano magari impercettibilmente in una direzione diversa”: è diventata una di quelle persone, una che sa far mutare (e maturare) il prossimo. Il detto che vale tutto e nulla (perché la vita è a volte un misterioso inganno) è: “Sta a me decidere.”

Anche se per la massa, un uomo è “autorevole”, una donna al massimo è una “moglie rompiscatole” (o una mamma spaccamaroni, aggiungo monellescamente io).

Faith da giovane desiderava entrare (metaforicamente) nel corpo di un uomo di nome Emmett. Non solo a farsi entrare. A proposito, Faith, rispondimi (può farlo in tua vece Meg): è l’uomo ad averlo infilato, o è la donna ad averlo catturato?

Battuta imparata ad Amalfi: L’uomo è cacciatore, la donna è pescatrice.

Nel libro si parla di Sorellanza: comunione (con o senza liberazione) di donne. Questa parola indica che il mondo sarà sempre diviso in due (o più, stando alle ultime notizie) sessi, sezioni convergenti e, nel senso vero della parola, compenetrate. Uomo – donna – variazioni sul tema.

Mi domando se un giorno questa mutua concorrenza finirà. Cesserà mai il razzismo contro i neri? Dicono che in Brasile quel problema sia stato superato (anche grazie a Pelè, Garrincha, Ronaldo e Ronaldinho). Speróm! Let’s hope! Vamos torcer!

Entrai una volta in una discussione sul tema della Letteratura femminile. Uno scrittore e una scrittrice donna concordavano sul fatto che non aveva senso diversificare la scrittura in base al sesso. Questo, a dir loro, significava creava barriere ormai inutili, anzi, dannose. Ergo, non aveva senso un gruppo dedicato alla scrittura delle donne.

Mi chiedo se è giusto distinguere la letteratura Jivaro da quella Amish (ammesso che esistano), oppure francese e tedesca. Lo ha se il loro intento è mirato a un fine giusto, ad esempio favorire un gruppo umano che è stato fino a oggi discriminato. O fino a ieri o l’altro ieri. In tal caso può essere giusto differenziare in base alla nazionalità e al genere (letterario e sessuale). L’importante è non osteggiare né l’Uno né l’Altro, né gli Altri. Occorre sempre rispettare, che significa tenere gli occhi e tutti i cinque sensi aperti, imparando da ognuno.

Casomai non fosse chiaro (ma basta dare una scorsa al titolo), questo è un libro femminile e forse anche femminista (lo deciderò alla fine). Le protagoniste sono soprattutto quelle indicate: Faith, scrittrice e opinion leader; Greer, studentessa e intellettuale. Gee, compagna di studi e amica di Greer. Cory, fidanzato di Greer.

Faith, per un breve istante, trova l’uomo falso giusto, che le dice: “Faith, io non do comandi. Voglio che lo desideri anche tu.” Lo trova, lo prende e lo molla subito, quando scopre che è di un’altra donna: “Non faccio queste cose – disse Faith, più fredda. – Perlomeno non apposta. Non alle mie sorelle.” L’uomo non comprende.

Faith fa crescere le persone che valgono, come Greer. Ci sa fare parecchio. Quando Greer si accorge che sta cambiando la situazione e si mostra delusa, Faith la rincuora, dicendole: “Ci devo lavorare.” Quel demonio di Faith viene da tanti definita “una forza del bene”.

Definizione di Greer: “era genuina, fedele, intelligente, umile: proprio la persona giusta da assumere e far crescere.”

Meg Wolitzer
Meg Wolitzer

Un esempio dell’icasticità di Meg: “quelle vecchie ossa che erano state dappertutto e forse stavano iniziando a rallentare.” Grande definizione dell’ormai anziana ed entropizzata Faith. Il rumore con cui la massaggiatrice dà l’ultimo colpo a quelle ormai vetuste cosce “suonò quasi trionfale.

Devo riportare anche questa perché la ricorderò sempre, quando mi chinerò per terra (badando bene che non ci sia nessuno dietro di me): “Aveva in faccia l’ottimismo scintillante di una moneta trovata per caso.”

Un sintomo di senescenza di Faith: lei non aveva mai ecceduto in prudenza, ma sempre si era lanciata all’attacco contro i suoi maschilisti nemici, ma ora per lei la “ponderazione” era “la cosa più importante.”

Quello che faceva Zee tutto il giorno era guardare intensamente le persone. I suoi occhi erano stanchi di tutto quel guardare, osservare, comprendere, esaminare; tutto quell’aiutare, aiutare, aiutare.” Detto inter nos: durante la lettura di questo capitolo, mi sono un po’ innamorato di questa tipetta. Delle quattro protagoniste è forse quella che meno è stata descritta dall’autrice.

Ho ripetuto protagoniste (al femminile), perché si tratta di tre donne e di un uomo e la maggioranza muliebre è assoluta.

Cory ha questo nome strano che in un primo momento ho pensato a una ragazza, anzi, a una donna: una delle più grandi body builder di tutti i tempi, Corinna Everson, detta Cory. Il suo nome era originariamente Duarte, come il papà, anzi Duarte jr., all’americana. Il fratello di chiamava Alby, da latino albus, bianco, forse nel senso traslato di immacolato.

Mio suocero si chiamava Aniello ed era figlio di Aniello. Una volta a Pisciotta il giorno di Sant’Agnello mi trovai a tavola con quattro Aniello, con l’identico cognome, di cui solo due erano parenti fra loro (eravamo in otto commensali!).

Mio nonno era Cristoforo detto Stefano, figlio di Andrea, figlio di Cristoforo detto Stefano, figlio di Andrea, figlio di Cristoforo detto Stefano, figlio di Andrea et cetera. Io fui il primo Stefano tout court. Quindi, tutto il mondo è paese, ma quello che fatico a capire è perché questi adorabili yankee aggiungono la particella jr.: mica tutti sono figli George Bush! A volte crescono!

Da meditare è il fatto che Duarte sr. sia una brava persona, ma si comporta malissimo con la moglie, abbandonandola dopo che lei si è macchiata di un omicidio colposo, che ha rovinato per sempre la vita a lei e all’intera e umanissima famiglia.

Il buon (nel vero senso della parola) Cory rinuncia alla sua indipendenza e va a vivere con la mamma, ormai derelitta, affranta per la tragedia da lei causata del tutto senza colpa.

Una donna arriva a dire un’atroce verità:Cory ha rinunciato ai suoi progetti quando la sua famiglia si è sfasciata. Cory è tornato a stare con sua madre e si occupa di lei. Oh, e fa lui le pulizie in casa, e anche nelle case dove lavorava la madre. Non so, ma a me sembra che sia un vero femminista, no?

Interessante considerazione è che Cory non dicesse che viveva con sua madre, “frase che avrebbe potuto suonare un po’ di Norman Bates.Si limitava a dire:Abito dai miei.”

Una donna gli ricorda: “Tu da piccolo eri proprio una femminuccia del cazzo.” Lui, cocco di mamma perfettino, le risponde mirabilmente: “Infatti. E adesso sono io che le stiro i vestiti. Do ut des.”

Un commento su una frase di Cory: “I capelli delle femmine dovevano pesare meno di quelli dei maschi.” – querido irmão, non t’è mai venuto in mente che forse, semplicemente, quelle strane creature se li lavano di più, e meglio? Aggiungi poi che lei era tanto morbida, questa sì che te lo concedo. I grassi animali delle femmine sono fantastici. I nostri fanno schifo. E meriti un applauso quando pensi: “Le ragazze non erano deboli. A volte avevano una sorta di morbidezza, ma non sempre. Qualunque cosa avessero, era un complemento di ciò che aveva lui.” San Cory Duarte jr., in altre parole.

La storia, in sintesi un po’ spoiled è: Cory abbandona a tempo indeterminato Greer. Greer abbandona a tempo indeterminato Faith. Greer abbandona a tempo indeterminato. Zee si sente tradita e abbandona a tempo indeterminato Greer.

Alla fine alcune di loro si ritrovano, altre no. Questa è la vita. Che è strana: “a volte sei dentro la tua vita ma in altri momenti la guardi come uno spettatore. È come un andare avanti e indietro, avanti e indietro.”

Alcune considerazioni finali. Ringrazio l’autrice di aver battezzato la figlia di due protagonisti con il nome della nonna di lui: Emilia, come la mia piccola, antica, moderna, matildica e civilissima città.

Ti chiedo ufficialmente di cambiare titolo al romanzo: Voci più forti, che è del libro che ha consacrato la fama di Greer, e che mi pare più consono e bello.

Risposta al quesito iniziale: Perché, fino a pagina 280, non sono stato capace di scrivere un rigo? Perché facevo come quella particella sparata contro una barriera superdensa (tipo la scrittura di Meg Wolitzer) e ogni volta, sdeng!, venivo abbattuto. Poi, a un certo punto… beh… eccomi qui arrivato in fondo, sano e salvo!

Risposta al quesito successivo: sì, è un romanzo compiutamente femminista.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Meg Wolitzer, La verità delle donne, Garzanti, 2019

 

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