Intervista di Emma Fenu ad Elvira Morena, autrice del romanzo “Le solite notti”
“Se tu penserai e giudicherai/ Da buon borghese/ Li condannerai a cinquemila anni/
Più le spese/ Ma se capirai se li cercherai/ Fino in fondo/ Se non sono gigli son pur sempre figli/ Vittime di questo mondo.” – La città vecchia, Fabrizio De André
“Le solite notti” è un romanzo di Elvira Morena, edito da Marlin nel 2020, che racconta il percorso umano di Flora.
Orfana ed emigrata dal sud Italia, dopo un fallimento come commessa, la protagonista diventa una prostituta coinvolta nella vita di strada in cui dettano legge i malavitosi, in un degrado morale che lascia, tuttavia, spazio al sogno e alla riflessione priva di giudizio.
Oggi l’autrice è ospite di Oubliette Magazine per approfondire insieme i temi affrontati nel romanzo.
“Il mio nome è Flora, ma in pochi lo sanno. Anche il postino mi chiama Audrey. Nella camera mia, sopra al letto, ho sistemato lei. Audrey l’attrice. Ogni volta che entro in casa, mi sorride con gli occhi neri e profondi: due laghetti scuri. Occhi liquidi che trasmettono bellezza e serenità.” – “Le solite notti”
E.F.: La prostituzione è la riduzione di una donna a oggetto?
Elvira Morena: La prostituzione è la riduzione di una donna in “lucciola”, termine in uso frequente nel giornalismo di cronaca e di costume. Una persona non può divenire un oggetto, nonostante in molti ci provino a plasmare le donne come si fa con il das, la pasta sintetica! Allargherei lo spettro. Lo sfruttamento femminile apre ampi capitoli che arrivano da lontano e si lasciano leggere nel presente: dalla violenza fisica e psicologica alla discriminazione sociale. Le casistiche ultime confermano il disagio di genere.
L’Italia è penultima in Europa, seconda solo alla Grecia, nella partecipazione femminile al mercato del lavoro; il 31,5% delle donne italiane è stata vittima di violenza.
E.F.: Le prostitute sono donne perdute che hanno scelto di vendersi o vittime della società patriarcale?
Elvira Morena: Credo che ogni “lucciola” trascini il suo bagaglio carico di buone occasioni perdute, eventi cercati e altri non voluti, accaduti per casualità, karma o fatalità. Ogni singola storia andrebbe ascoltata, analizzata. Giudicare, lapidando è una pratica in uso e di facile esecuzione. È buona regola, invece, non liquidare nel fondo del water ciò che risulta scomodo alla fetta ricca dei perbenisti. La società patriarcale, ancora oggi, detta le sue regole: “Il sesso è una bestia nera chiamata Tabù.” Chiunque graviti intorno al sesso è perduto, le donne in vendita nel mercato del sesso lo sono più dei clienti. Nessuna chance? Anche Maria Maddalena e Maria di Betania furono identificate come prostitute, come peccatrici ma penitenti.
E.F.: Quando il sesso diventa merce? Si può comprare un corpo ma non un’anima: l’anima resta davvero libera di elevarsi al di sopra dello sfruttamento, della convivenza con le molestie, degli squilibri mentali dei clienti?
Elvira Morena: La società dei consumi marchia e prezza i prodotti da banco. Siamo inondati da ogni sorta di mercanzia e gli spot pubblicitari martellano, inviano messaggi subliminali che inducono verso un prodotto anziché l’altro. La società dei consumi ha sovvertito la filosofia di Erich Fromm: “Siamo gli oggetti che possediamo.” Sembra tutto a portata di mano, anche le lucciole lo sono. Eppure sfugge qualcosa. Cosa? L’anima, vera essenza della personalità. Jung scrisse in un saggio: “Si fa di tutto, anche le cose più strane, per sfuggire alla propria anima.” L’anima può far male, l’anima è libera astrazione. Come l’ombra, non la puoi ingabbiare. Nel mio romanzo, “Le solite notti”, la protagonista, Flora, si ricongiunge alla sua anima nell’atto finale della morte. Il finale non è tragico, piuttosto luminoso come la risurrezione.
E.F.: Ognuno ha due parti in sé: sogno e realtà, istinto e conformismo. Nel tuo romanzo Audrey non è solo una icona del poster. È la parte in ombra della protagonista, la bambina che fu e la donna che verrà?
Elvira Morena: I personaggi del mio romanzo fanno rumore nel silenzio notturno. Ed è già una dissociazione; in questo caso, linguistica. Siedono al tavolo della società tribalizzata, dove ognuno muove e gioca le sue pedine. Vince la partita a scacchi colui che gestisce il potere: il più forte, solo in apparenza, è vincente. In ognuno c’è la ricerca del sé, e Flora insegue se stessa nel poster di carta raffigurante Audrey Hepburn, l’attrice di Hollywood, La diva di “Colazione da Tiffany”. Fin qui, nulla che sia anomalo. Tutte le donne ammirano Audrey, proprio tutte vorrebbero essere lei. Ma Audrey, a un certo punto della storia condivisa con l’altra, manifesta la sua insofferenza. Quel sorrisetto sempre uguale non le piace, rigido e perfetto la rende una donna idiota. Buca la carta, rifiuta l’aurea del mito e prende a invidiare Flora, la poveraccia che batte la strada… Audrey l’attrice ritorna nelle vesti di Audrey Kathleen Ruston Hepburn, la ragazza britannica che visse sotto il regime nazista.
Questa piccola rivoluzione vuol essere un monito per le giovani donne che, condizionate dalla “civiltà dell’immagine”, si lasciano sedurre dal personaggio e tralasciano la persona.
Written by Emma Fenu