“Breve storia del mio silenzio” di Giuseppe Lupo: la lettura è l’antidoto alla paura della morte
I libri si nutrono di parole.

Parole che descrivono situazioni, parole che raccontano vicende, parole che sostanziano un intreccio, parole che danno vita a personaggi e voce ai sentimenti.
Poi ci sono libri in cui non la dimensione umana ma quella eterea delle parole è la protagonista indiscussa, singolari libri che parlano di parole e libri in un infinito gioco di rimandi metaletterari.
Questo è il caso di Breve storia del mio silenzio (Marsilio Editore, 2019, pp. 203), profondo romanzo autobiografico di Giuseppe Lupo selezionato tra i dodici candidati al Premio Strega.
Quando Giuseppe ha quattro anni nasce la sorellina. Per il trauma il bambino perde la voce; inizia così un peregrinare da un medico all’altro, ognuno dei quali emette una diversa diagnosi e prescrive una diversa terapia.
Tra scienza e rimedi casalinghi, il piccolo ricomincia a parlare ma ogni tanto fa capolino la paura di non essere guarito. La mamma, maestra, gli insegna le lettere dell’alfabeto proprio per evitare una ricaduta.
Casa Lupo è frequentata da intellettuali e il bimbo, affascinato, ascolta e tace, suscitando la curiosità di tutti. Giuseppe e i genitori si recano a Milano; la mamma spera negli effetti benefici del clima sul figlio, il padre è orgoglioso di mostrargli una delle culle dell’Illuminismo.
Giuseppe comincia le elementari e frequenta lo studio paterno dove sfoglia libri e apprende parole. Quando Lupo ha sedici anni la famiglia si trasferisce in una nuova casa costruita su misura.
Il ragazzo sogna di lasciare la Basilicata per raggiungere Milano. Il 23 novembre 1980 il violento terremoto dell’Irpinia pone fine “alla preistoria della fanciullezza” del protagonista.
Nell’ottobre 1981 il ragazzo intraprende gli studi universitari a Milano, conclusi i quali egli si lancia in una nuova, ambiziosa avventura: accarezza il sogno di diventare scrittore. L’inizio del cammino è irto di difficoltà e costellato di spostamenti che lo conducono a Venezia.
La parola latina infans indica il bambino che ancora non sa parlare. Quindi il termine ‘infanzia’ reca già in sé la radice di ‘parola’. E l’infanzia di Lupo è intessuta di parole. Parole insegnategli dai genitori che si dilettano a sperimentare un gioco pedagogico americano che permette di memorizzare i nomi di oggetti scritti su un cartoncino.
Poi, a quattro anni, l’infans Giuseppe – che sta articolando le prime frasi – viene travolto da un evento che lo traumatizza e lo precipita nell’afasia. È una forma di protesta, un grido di aiuto. Il piccolo è scivolato nel labirinto di un silenzio che lo inghiotte.
“Quel giorno […] le parole si fanno nemiche e io inizio a provare il loro male, che è una specie di voragine di cui non si vede il fondo. La storia del mio silenzio incomincia così.”
In casa sua Giuseppe assiste a un viavai di intellettuali, quelli del Circolo La Torre, animato dal padre, il cui esponente di punta è il poeta Sinisgalli, quasi un nume agli occhi del bambino.
E poi la frequentazione con rappresentanti di case editrici prestigiose, la familiarità con i fratelli Ottaviano, titolari di una tipografia; tutto concorre a colorare di parole l’infanzia di Lupo.
Nella sua tenera mente le poesie hanno il sapore della liquirizia e le idee la consistenza della cenere. Poi, in una notte di pioggia e tempesta, egli riacquista il dono della favella. Secondo la madre è proprio merito dell’acqua e del suo potere curativo se il figlio è di nuovo in grado di parlare. Essa ha una metrica che ha la facoltà di restituire al bambino il ritmo delle parole.
E d’altra parte un consistente segmento della vita di Lupo si svolge a contatto con l’acqua: quella dei Navigli e del Lambro a Milano, quella del mare a Venezia, tappe di una lunga peregrinazione letteraria che fa di Lupo un moderno Odisseo.
Se da piccolo Giuseppe è preda dell’afasia, un nuovo, minaccioso silenzio incombe su di lui quando, adulto, lotta per diventare scrittore. È difficile trovare una storia da raccontare, è difficile trovare parole, è difficile sfuggire al fantasma del fallimento, un fantasma cui Giuseppe dà il nome di Quasimodo. Ed ecco allora il ruolo salvifico dell’acqua.
“Ascolta la pioggia […] ti porterà dove tu desideri. […] Non sapevo dove mi avrebbero portato le dita sui tasti, ma l’acqua aveva svegliato le parole. Piano piano, canale dopo canale, sarebbero arrivate sul foglio.”

E davvero vi arrivano; le idee prendono forma e consistenza e la carta imprigiona le parole. Un fluire ininterrotto che allontana lo spettro di Quasimodo e ridà voce a Lupo. Perché per lui scrivere significa salvarsi e consegnarsi all’immortalità.
Il 23 novembre 1980 è il terminus post quem nella vita di Giuseppe. Quella notte segna l’incipit di una giovinezza più consapevole ma segna anche la sua conversione alla lettura: una scoperta, una folgorazione sulla via di Damasco. Il sisma gli insegna che essa non è un obbligo o una medicina ma salvezza.
La lettura è l’antidoto alla paura della morte, l’inno alla vita dei sopravvissuti. Da Memorie del sottosuolo a Cristo si è fermato a Eboli, in compagnia dei libri, accanto a loro e tra le loro pagine, Lupo trova la propria libertà.
Il baricentro dell’azione oscilla tra due poli, due aree geografiche ed etiche distinte: la Basilicata e Milano. La prima è la terra natia, la Madre terra che ha generato Giuseppe, gli ha dato carne, sangue e nutrimento. Essa rappresenta le radici, il legame con il passato, con le tradizioni e con la famiglia.
Milano è invece l’irruzione della modernità, la metropoli pulsante di vita, brulicante di luci, colori e suoni; essa è la sfavillante città dell’Illuminismo, la madre adottiva dell’autore che, respirandone l’aria, ne assimila l’essenza in ogni cellula fino a diventare un membro di quel corpo vivente e palpitante. In un’intervista a Rai Cultura Lupo afferma che “la Basilicata è il labirinto dell’Appennino, Milano è la geometria razionale della pianura”.
Nel processo maieutico della sua scrittura, Lupo si lascia condurre dall’acqua. E questo connubio con l’elemento liquido si riflette nella sua prosa che è fluida, fluente e scorrevole. La narrazione avanza e regredisce per poi proseguire ancora; la progressione temporale spesso si interrompe per lasciare spazio al ricordo e poi riprende il filo, quasi – ed ecco ancora far capolino il tema dell’acqua – la risacca del mare sul bagnasciuga della memoria.
L’autobiografismo di Lupo unisce nostalgia e sagacia, affetto e ironia. Il dialogo è pressoché inesistente in un’opera che si configura come un delicato e sentito monologo interiore.
E possiamo affermare con sicurezza che Giuseppe Lupo ha davvero sconfitto il fantasma di Quasimodo.
Written by Tiziana Topa