Meditazioni Metafisiche #17: l’Io ed il Sé, le due nature dell’uomo
Hawking sostiene che qualunque teoria fisica è sempre da considerarsi valida fino a quando essa è in accordo con le previsioni. Egli, infatti, considera la simulazione di uno stato fisico come una predizione di un fenomeno, e fino a quando lo stesso si manifesterà come la predizione stessa, allora la si potrà considerare una legge fisica.

Nel considerare questa regola è come se prevedessimo un tempo che ancora non si è verificato, ma sempre nella consapevolezza che quello che ipotizziamo è puramente probabilistico. Non v’è dubbio che siamo liberi osservatori, ma quasi sempre ci troviamo a dover adattare le nostre conclusioni e al senso comune e alle risposte che ci fornisce la natura, ma tenendo bene a mente che ogni cosa è sempre provvisoria.
Noi viviamo nella continua condizione di non aver certezza. Il futuro è una ipotesi, il passato è un ricordo e come tale falsificabile dall’incertezza di non avere la giusta memoria, il presente è un attimo fugace che passa senza che ne abbiamo piena coscienza.
Dal punto di vista speculativo e scientifico, la filosofia è come la matematica, sono ipotesi che devono attendere la verifica della realtà, e la realtà cambia a secondo della nuova esperienza che possiamo fare.
Ha ragione Socrate: “Una cosa so: di non sapere”. Accade che credere di aver scoperto tutto (scientismo) e credere di essere totalmente ignari delle cose (scetticismo assoluto) sono due estremi della stessa medaglia: e sono totalmente falsi. Maltz, sostenitore della psicocibernetica, sostiene che inferiorità assoluta e superiorità assoluta sono due lati della stessa medaglia e la soluzione di ciò consiste nel capire che è la medaglia stessa ad essere falsa.
È falsa perché ci poniamo male il problema. Non si tratta di credere di aver scoperto le leggi assolute del cosmo né di proclamarsi ignoranti in materia, ma di abbandonare quella stessa logica razionale che facciamo sussistere in positivo o in negativo. La logica razionale ci serve solo per mangiare e non sbattere in automobile.
I misteri del cosmo non possono essere capiti dalla logica razionale che crede di descrivere solo il velo illusorio di Maya, ma dalla logica intuitiva. Non è un fatto di mente ma di cuore. Tutti noi sappiamo tutto: ma non razionalmente bensì intuitivamente. È quella volontà del corpo atomico che guida il nostro destino, come dicono gli esoteristi. Quell’inconscio collettivo che si configura come il Sé e che ci accompagna lungo l’evoluzione, come dice Jung. È quella “natura innata” (fiṭrah) di cui parla la tradizione islamica, che conosce intuitivamente ciò che è bene e ciò che è male.
A questo punto abbiamo due nature. Una materiale e una spirituale. Quella materiale si basa sull’Io, sulla materia, che è il mondo illusorio. Quella spirituale si basa sul Sé, sulla vera realtà.
Pertanto abbiamo tanti scopi materiali e un solo fine spirituale. Quando lo stoico Antipatro di Tarso (fr. 57 von Arnim) dà la definizione di scopo (telos), sta parlando del primo livello: “Fare quello che è nelle nostre potenzialità con costante e incrollabile volontà per conseguire ciò che è preferibile secondo natura”, pan to kath’auton poiein diēnekōs kai aparabatōs pros to tunchanein tōn proēgoumenōn kata fusin. Ma oltre a perseguire volontariamente e coscientemente ciò a cui siamo portati, esiste il fine, che noi agiamo mediante una volontà inconsapevole.
Tra i tanti scopi di una persona ci sono il lavoro, la famiglia, gli amici, lo sport. Ma il fine ultimo a cui tendono tutte le cose è la nostra gioia o realizzazione. Tutti gli scopi servono a farci apprendere delle lezioni per conseguire la realizzazione.
La Provvidenza di Dio “provvede” al fine ultimo. La tradizione ebraica dice che Dio dà a tutti la parnassah, cioè il sostentamento quotidiano, che serve all’uomo per compiere liberamente la volontà di Dio su questa terra. Il lavoro e la fatica sono riservati a coloro che devono essere puniti per espiare i peccati.
Proprio per questo lo stoico Crisippo di Soli (fr. 584 von Arnim) dice che “gli uomini cari agli dei non possono che essere felici”, oude eteroi men esontai theophileis, eteroi de eudaimones. È insomma la promessa di ogni religione abramitica, ma non solo.
Corano 16, 97: “Daremo una vita eccellente a chiunque, maschio e femmina, sia credente e compia il bene”, man ‘amila ṣāliḥan min dhakarin aw unthā wahuwa mu’minun falanuḥ’yiyannahu hayatan tayyibatan.
Giobbe e Qoelet sono due libri biblici nei quali compare la sofferenza: nel primo abbiamo una sofferenza esteriore, nel secondo una sofferenza interiore. Ma in entrambi la sofferenza viene sanata da Dio. In Giobbe la salvezza è esteriore e interiore, in Qoelet è solo interiore.
Qoelet 5, 19 si può tradurre anche: “Dio si rivela nella gioia del cuore”. Isaia 51, 11: “Ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con esultanza; gioia perenne sarà sul loro capo, giubilo e felicità li seguiranno, svaniranno afflizioni e lamenti”. Atti degli Apostoli 7, 9-10 ricorda la vicenda di Giuseppe: “Dio era con lui e lo trasse fuori da tutte le sue tribolazioni, exeilato auton ek pasōn tōn thlipseōn autou, e gli diede grazia e sapienza”.

Anche il mondo pagano arriva a una conclusione del genere. Basti pensare alle parole dello stoico Crisippo di Soli (fr. 586 von Arnim): “… nessuno degli eventi esterni può ostacolare la felicità… e il saggio è felice, anche se arde nel toro di Falaride”. Il saggio è colui che è amato dagli dei. Infatti, per Crisippo (fr. 606 von Arnim) “i saggi sono divini perché, per così dire, hanno in sé un dio”, theious te einai echein gar en eautois oionei theon. Sempre per Crisippo (fr. 608 von Arnim) “i saggi sono devoti agli dei”, theosebeis tous spoudaious.
Ma solo il cristianesimo ribalta la questione e fa della croce non qualcosa che la divinità elimina per benevolenza o amore bensì il luogo stesso della manifestazione di Dio. Pertanto il cristiano è benedetto quando sperimenta la croce.
2Corinzi 12. 10: “Quando sono debole, è allora che sono forte”, otan gar asthenō, tote dunatos eimi. Nel Nuovo Testamento Dio si manifesta nell’uomo. Vangelo di Luca 1, 35 riferisce che Cristo si incarna in Maria perché “la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra”, dunamis upsistou episkiasei soi. Si tratta di un ammiccamento a Esodo 40: “Allora la nube coprì la tenda del convegno e la gloria del Signore riempì la Dimora. Mosè non poté entrare nella tenda del convegno, perché la nube sostava su di essa e la gloria del Signore riempiva la Dimora”. Ma mentre nei tempi passati Dio si fa presente come nube in un luogo fisico, adesso si fa presente come nube in una persona. E il mistero di Maria, visitata da Dio, si accompagna al mistero della croce, come reale presenza di Dio in lei e come prefigurazione della croce redentrice di Cristo: “A te poi una spada trafiggerà l’anima” (Luca 2, 35).
Per questo, secondo il cattolicesimo, l’Eucaristia è fonte e apice di tutta la vita cristiana: nella Messa si rinnova realmente il sacrificio di Cristo sulla croce dal quale promana la nostra salvezza. Edith Stein[1] inizia a convertirsi al cattolicesimo quando inizia a capire il valore divino della croce nella vita delle persone. Poi comprende che ogni evento della nostra vita è voluto e disposto da Dio: anche la sofferenza ha un enorme valore. Alla stessa Fonte eucaristica si nutrono i cattolici, ed è questa Fonte che li rinnova nella fratellanza e li rende membra vive del Corpo Mistico di Cristo, quel Christus Totus di cui parla Agostino.
Ma accettare la croce, quella di Cristo come strumento di salvezza e quella quotidiana, richiede la morte della superbia del nostro io. Lettera ai Romani 3, 25: Dio ha posto Cristo come “strumento di espiazione”. Nell’originale greco abbiamo ilastērion, usato dalla traduzione greca della Bibbia ebraica per rendere l’ebraico kapporet, quella lastra d’oro retta dai cherubini nel sancta sanctorum del Tempio di Gerusalemme, sulla quale si immaginava che Dio si assidesse e che il sacerdote, nella celebrazione del sacrificio del peccato, aspergeva con il sangue di una vittima prelevato mediante un ramoscello di issopo. L’allusione di Paolo è chiara: non c’è più bisogno dei sacrifici dell’Antica Alleanza, adesso basta il sacrificio di Cristo sulla croce. E il cristiano, come dicono i Padri della Chiesa, deve essere alter Christus, “un altro Cristo”. Ma accettare nella nostra vita un valore spirituale così elevato significa rinunciare a tutto quanto di terreno alberghi nel nostro io.
Bisogna abbandonare gli scopi terreni e aderire al fine divino, a quel sigillo che Dio ha posto nei nostri cuori e del quale non siamo sempre consapevoli. William Law[2], la voce più autorevole del Settecento inglese, riconosce che la differenza tra un uomo buono e un uomo cattivo è che il primo aderisce allo Spirito di Dio che vive in lui, mentre il secondo vi oppone resistenza, e solo per questo è cattivo.
Tommaso d’Aquino (Somma Teologica III, 79): “Tutti gli effetti che il cibo e la bevanda materiali producono nella vita del corpo, cioè sostentamento, sviluppo, riparazione e gusto, li produce anche questo sacramento nella vita spirituale”, et ideo omnem effectum quem cibus et potus materialis facit quantum ad vitam corporalem, quod scilicet sustentat, auget, reparat et delectat, hoc totum facit hoc sacramentum quantum ad vitam spiritualem. Ma l’Eucaristia ha valore solo se celebrata in presenza, secondo il principio liturgico della prossimità fisica: è l’incontro reale di Cristo con la nostra persona nella sua interezza.
Per la concezione religiosa dell’antico Egitto, il popolo non può soffrire perché la divinità suprema (Ra) e gli altri dei si prendono cura di tutti gli uomini. Anche se ci fosse un solo dio, come potrebbe essere con l’innovazione religiosa di Amenofi IV[3], questo dio sarebbe il padre benevolo di tutta l’umanità: il disco solare è raffigurato con piccole mani che servono la terra. Ma è opinabile questo monoteismo egiziano, anche per una questione filologica: in egiziano antico w’ non significa solo “uno solo”, ma anche “unico” (nel suo genere, cioè il più importante tra molti), del resto come l’ebraico ‘echad. Invece quando nel Corano (sura 112) si dirà che Dio è “unico”, in arabo ahadun, si intende ormai l’unicità assoluta. È talmente assoluta che questo primo verso fa rima con il quarto e ultimo che ripete la parola ahadun, ma con un senso diverso, quello di “nessuno” (riferito agli uomini e ad ogni altra creatura), cioè nessuno è uguale a Dio. In ogni modo nell’antico Egitto la sfera del divino offre una azione preventiva contro le minacce che possono affliggere gli uomini. Dio interviene prima che le cose negative accadano garantendo un benessere e una prosperità continui al popolo.

Gli dei guidano le persone a sviluppare appieno le proprie potenzialità per realizzare il fine ultimo. Dio è amore (1Giovanni 4: o theos agapē estin) e Dionigi l’Areopagita definisce Cristo “essenzialmente buono e superiore alla bontà stessa” (ontōs agathou kai uperagathou). Dio vuole questo: come dice anche Heindel[4], se l’uomo, che è una particella di Dio, si realizza, si realizza Dio stesso. E la teologia di Agostino è molto semplice e intuitiva. In pratica si può sintetizzare così: Se Dio è amore e se vuoi vedere Dio, devi amare.
Seguendo la legge dell’amore del prossimo (Giovanni 13, 34: “… che vi amiate gli uni gli altri”, ina agapate allēlous), si pratica il bene, che è a nostro vantaggio. È uno scopo terreno che ci apre però al fine ultimo di realizzare la nostra vera natura nell’amore assoluto di Dio. Per questo il Corano (41, 46) rivela che “chi fa il bene lo fa a proprio vantaggio, chi fa il male lo fa a proprio danno. Il tuo Signore non è ingiusto con i suoi servi”, man ‘amila ṣāliḥan falinafsihi waman asāa fa’alayhā. Wamā rabbuka biẓallāmin lil’ ‘abīdi.
L’amore parziale e gli scopi parziali che raggiungiamo qui sono tutte scintille che ci devono far aspirare alla vera Luce. Agostino (Discorso 378): “Noi dunque abbiamo la caparra: essa ci deve far aspirare ad attingere alla sorgente stessa da cui essa è venuta”, arrham ergo habemus: ipsum fontem, unde arrha est, sitiamus. Questo tempo è una preparazione per le Nozze con Dio. “Dio è re di tutta la terra” (Salmo 46, 8: melek kāl-ha‘arez ‘Elohim), quindi il senso di tutto ciò che esiste poggia in Lui.
La letteratura accadica presenta l’espressione šarru rabu, “gran re”. Per la tradizione indiana la sillaba OM condensa tutto ciò che esiste e quindi si identifica con il Brahman Supremo, vale a dire Dio Assoluto. Nella cerimonia della sandhyā-upāsanā (la meditazione del mattino, di mezzogiorno e della sera), la sillaba sacra è ripetuta assieme ai nomi dei tre mondi: Bhū, Bhuvas, Swar.
Nella Bibbia ebraica Dio è detto in tre modi: ‘El, ‘Elohim e YHWH. La traduzione greca rende i primi due termini ebraici con il greco theos, “dio”, e l’ultimo con il greco kurios, “signore”. Nel Nuovo Testamento kurios viene attribuito a Cristo, perciò la tradizione cristiana inferisce che Cristo è Dio. Nel Corano si dice esplicitamente che il Dio dei musulmani non è quello dei cristiani (sura 109: “Io non adoro quello che voi adorate”, lā a’budu mā ta’budūna), cioè il Corano non riconosce la divinità di Cristo. Nell’Antico Testamento ‘El e ‘Elohim hanno l’attributo di “padre”. Questo vuol dire che Dio è il Padre della terra e degli uomini. Un modo figurato semitico per dire che tutto appartiene a Dio.
Dio ha creato l’uomo per la propria Gloria. Isaia 43, 7: “… quelli che portano il mio nome e che per la mia Gloria ho creato e plasmato e anche formato”, kōl hanniqrā bismi welikbowdi berātiw yesartiw ‘ap-‘asitiw. Il fine ultimo dell’uomo è staccarsi da tutto ciò che è terreno e adorare solo la Gloria di Dio. Ogni amore terreno è imperfetto e deve essere abbandonato per una forma compiuta, quello di Dio. Come dice Ignazio di Loyola, dobbiamo farci indifferenti verso tutte le cose create. È in qualche modo la “liberazione” (mokṣa) dell’induismo: ci si libera dall’Ordine delle Cose (dharma), dall’Interesse (artha) e dal Desiderio (kāma).
Scoto Eriugena (Divisione della natura V, 952 A) ha delle parole sublimi: “Se la divina bontà rimanesse da sola in sé stessa in quiete e lontana da ogni attività, forse non costituirebbe occasione alcuna per essere lodata. Ma ormai, diffondendosi in tutte le realtà visibili e invisibili ed esistendo interamente in tutte le realtà, convertendo la creatura razionale e intellettiva alla conoscenza di sé stessa, offrendo alla creatura razionale e intellettiva le belle e innumerevoli forme di tutta la realtà come materia per la lode di sé stessa, creò tutta la realtà in modo che non ci sia nessuna creatura che non lodi il bene sommo o per sé stessa o in sé stessa o per mezzo di altro”, aut per se ipsum et in se ipsa aut per aliud.
Tommaso d’Aquino (Somma contro i Gentili I, 78): “La volontà di Dio si esercita sulle cose in quanto esse partecipano più o meno della bontà di Dio, la quale muove Dio a volere. Ma dalla bontà di Dio derivano non solo la bontà e l’essere delle cose nella loro universalità, bensì anche la bontà e l’essere di ciascuna di esse. Perciò la volontà di Dio si estende ai singoli beni”, voluntas Dei ad alia comparatur inquantum bonitatem participant ex ordine ad bonitatem divinam, quae est ratio volendi Deo. Sed non solum universitas bonorum, sed et singulum eorum a bonitate divina bonitatem sortitur, sicut et esse. Voluntas igitur Dei ad singula bonorum se extendit.
Nell’ebraico biblico la Gloria è kabod, che ha il senso letterale di “peso” e quello figurato di “importanza”, e quindi “rispettato”, “onorato”, esattamente come l’equivalente aramaico jeqar. Il rispetto glorioso da attribuirsi a Dio deriva dalla sua immensa compiutezza (peso = valore intrinseco): bontà divina assoluta. La radice ebraica sta alla base di kabed, “fegato”, che, assieme al cuore (leb), è considerato l’organo più importante. In questo senso l’espressione accadica “gioia del cuore e divertimento del fegato”, hud libbi, nummur kabatti, è particolarmente degna di nota e significativa.

Nel greco biblico la Gloria di Dio è detta doxa. È un vocabolo significativo, che deriva dal verbo greco dokein, che ha due significati: “sembrare, avere l’apparenza, apparire” e “manifestarsi”. Nel greco classico c’è il primo significato. Eschilo (Septem 592): “Egli infatti non vuole sembrare ottimo ma esserlo”, ou gar dokein aristos all’einai thelei. Quindi quando Parmenide parla di Doxa, si riferisce al velo illusorio che circonda la vera realtà, a ciò che sembra del reale senza che abbia vera consistenza. Più tardi, nel greco dell’Antico Testamento e del Nuovo Testamento, la doxa, collegandosi al secondo significato del verbo dokein, indica qualcosa che si manifesta realmente di una realtà. Pertanto, in questo senso, la doxa di Dio è ciò che si manifesta della sua realtà ineffabile. La realtà di Dio è talmente carica di positività che l’uomo non può che dare a Lui lode, cioè glorificarlo. Doxa in questa seconda accezione compare spesso nel Vangelo di Giovanni, che usa un lessico altamente specifico e tecnico, uno studio pubblicato a Gottinga nel 1991 ha isolato ben 153 termini specifici. Quando Giovanni parla di Doxa di Cristo, si riferisce alla sua Ora, cioè alla sua morte in croce. “Quando verrò innalzato da terra, attirerò tutti a me”, ean upsōthō ek tēs gēs, pantas elkusō pros emauton (in Giovanni 12, 32; poco prima, in Giovanni 12, 23: “È venuta l’Ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato”, ina doxasthēi). L’essenza di Cristo, che si manifesta veritieramente nella sua Doxa, è l’amore spinto fino a dare la vita per il mondo nel sacrificio cruento della croce.
Chi si ferma agli scopi non conosce la vera realtà, cioè si ferma all’illusione. Gli uomini sono nati nella dimensione terrena illusoria dimenticandosi della loro vera origine, la loro vera realtà. Per questo devono ricongiungersi ad essa morendo. Come dice il filosofo greco Alcmeone (fr. 2 DK), gli uomini muoiono “perché non possono ricongiungere il principio con la fine”, oti ou dunantai tēn archēn tōi telei prosapsai.
Dio ha dato all’uomo una natura terrena mortale e una natura spirituale immortale, che poi è quella vera. Nel Corpus Hermeticum (Frammenti diversi, 15) si dice che “Dio sintetizzò entrambe le nature, l’immortale e la mortale, in una sola, quella dell’uomo, in quanto creò quest’ultimo in parte immortale e in parte mortale e, portando l’uomo a metà tra la natura divina e immortale e quella mortale mutevole, lo stabilì in quel punto, perché, vedendo tutte le realtà, potesse ammirarle tutte”, ina panta men orōn panta thaumazēi.
La realtà vera è invisibile, invece quella che appare è illusoria e falsa. Pertanto il vero sapere deve attingere al mondo invisibile e lo deve fare per intuizione. Il falso sapere invece parla razionalmente del visibile. In greco c’erano già alcune parole per “invisibile”: aphanes, adēlon, aoraton. Ma Platone ne inventa una nuova: aides. Questo perché il grande filosofo la collega a Ade (l’oltretomba, celato ai sensi dei viventi) e al verbo eidenai, “conoscere”.
C’è un verso dell’Edipo Re di Sofocle (530) che recita così: “Non so: infatti non ho occhi per vedere ciò che fanno i sovrani”. Nell’originale greco “non so” (ouk oid’) e “non ho occhi per vedere” (ouch orō) sono rispettivamente all’inizio e alla fine del verso, quindi in posizione di rilievo, per enfatizzare l’impossibilità di vedere ciò che fanno i sovrani. Se interpretiamo simbolicamente il verso, possiamo dire: non è possibile vedere, né riferire con la logica discorsiva su ciò che accade nella realtà vera: “i sovrani”, nell’originale greco oi kratountes, “coloro che hanno potere”, la vera realtà che è veramente efficace.
La realtà illusoria dei sensi serba per l’uomo tanti scopi diversi. L’Anonimo medioplatonico commentatore del Teeteto riporta questa tesi: “Come le cose appaiono a ciascuno, tali esse anche sono per lui”. Quindi ci sono tante cose apparenti quanti sono i soggetti che percepiscono, o quasi. Ma deve esserci un Fondamento alla base di questo continuo divenire, altrimenti le cose non sussisterebbero. Questo Fondamento è la realtà vera, che serba un solo fine identico per tutti.
L’io ci fa identificare con pensieri o sentimenti che non appartengono veramente a noi stessi. Il successo, il potere, il denaro. Sono scopi che appartengono al mondo della materia, cioè al fenomeno e non alla realtà vera. Il nostro io ci fa perdere noi stessi quando ci porta ad accettare in noi falsi valori materiali fino alla perdita della retta voce della coscienza.
Una sfumatura della identificazione è la considerazione interna, quando ci identifichiamo falsamente con ciò che crediamo realmente essere noi stessi: voler avere sempre ragione, non sopportare i torti, ma anche compiacere sempre gli altri.

Tutto legato a quell’insieme di false credenze che la società ci impone da quando siamo nati. Scoprire chi siamo realmente, qual è il vero nostro fine, oltre gli scopi materiali e sociali, significa scoprire quella scintilla divina che ci abita e che coincide con la vera realtà.
Detto filosoficamente, la realtà illusoria è l’accidente, quella vera è la sostanza o essenza o ente o essere. Giordano Bruno (De Causa, Principio et Uno) osserva che: ogni cambiamento è “un’alterazione, rimanendo la sostanza sempre medesima; perché non è che Una, Uno Ente divino. Perciò tutto quello che fa diversità di genere, di specie, differenza, proprietà di, tutto che consiste nella generazione, corruzione, alterazione e cangiamento, non è ente, non è essere, ma condizione e circostanza di Ente et Essere“.
La vera realtà è invece immutabile e eterna.
Tutto è Dio, in conformità a quel principio dell’Unità sottostante a tutte le cose.
Il testo fondamentale della Cabala, lo Zohar, scritto in un aramaico inventato ma pregno dei temi più importanti, venerato al pari della Torah e del Talmud, dice che Dio ha creato solo sé stesso, cioè solo la Luce.
Tutto il resto è quindi una illusione. La salvezza dell’uomo avviene solo come riconoscimento della Luce che lo abita.
La Bibbia ebraica conosce l’espressione per cui Dio fa splendere il suo volto (Numeri 6, 25): è interessante che nella letteratura di Qumran anche l’orante ha il volto splendente grazie all’intervento di Dio (1QH 11, 4).
In un altro testo di Qumran (1QSb 4, 27) si dice dei sacerdoti: “… ed egli ti costituì quale santuario nel suo popolo e come lampada … per illuminare il mondo in conoscenza e far splendere il volto di molti”. Cristo dirà di sé stesso di essere “la luce del mondo” (Giovanni 8, 12: to phōs tou kosmou) e che i cristiani sono “la luce del mondo” (Matteo 5, 14: to phōs tou kosmou), paragonandoli a “una lampada”, in greco luchnon.
Essendo Luce, anche se non lo sappiamo, siamo tutti eterni, anche le cose e gli animali. Il riconoscerlo significa proiettarne la consapevolezza entro il nostro essere più intimo.
Per il Nuovo Testamento noi, se stiamo in Cristo, partecipiamo di Lui e della sua vita eterna. Secondo una interpretazione, se Cristo è la mitologizzazione della vicenda dell’anima umana nella materia, stare in Cristo equivale a dire: prendere consapevolezza della nostra natura divina.
Nelle cosmogonie indiane Prajapati crea usando il verbo sanscrito sṛj, “emettere”, al medio. Egli crea emettendo la realtà dal proprio corpo. Un’altra cosmogonia dice che i mondi erano uniti agli dei e questi per stare più comodi li allontanarono da sé pronunciando la parola sanscrita vītaye, “per la separazione”.
Giamblico (De Anima) scrive che Plotino e Porfirio riconducono a un’unica struttura (syntaxis) e a un’unica forma (idea) le specie e le parti della vita; Numenio le pone in conflitto; Attico, Plutarco e i loro seguaci dalla loro contesa fanno derivare l’armonia.
Nel mondo cananeo, una cultura vicina a quella ebraica, Baal Hadad è il Signore della tempesta, che facendo piovere feconda la terra. Vi è quindi un rapporto stretto tra il dio e la terra e gli uomini che da lui nascono.
Il Salmo 29, forse il più antico, si rifà probabilmente a Baal Hadad usando il sostantivo ebraico qōl: esso ha il doppio significato di “voce” ma anche di “tuono”.

Nella letteratura sanscrita vi è una espressione particolare: “sciogliere l’ombelico”. L’ombelico allude all’atto della procreazione umana, in quanto luogo dove si posa lo sperma. Lo “sciogliere” richiama lo “sciogliere le nuvole” nel senso di far piovere. Il verbo sanscrito è vi si-, dove si- è il grado ridotto di sā-, “legare”, mentre il preverbo vi esprime la negazione dell’azione. Le nuvole alludono alla presenza degli dei.
Quindi nella espressione “sciogliere l’ombelico” possiamo avere una metafora della discendenza umana come atto divino: gli uomini sono in definitiva figli degli dei.
Written by Marco Calzoli
Note
[1] Edith Stein (in religione Teresa Benedetta della Croce; Breslavia, 12 ottobre 1891 – Auschwitz, 9 agosto 1942) è stata una monaca cristiana, filosofa e mistica tedesca dell’Ordine delle Carmelitane Scalze, vittima della Shoah. Di origine ebraica, si convertì al cattolicesimo dopo un periodo di ateismo che durava dall’adolescenza. Venne arrestata nei Paesi Bassi dai nazisti e rinchiusa nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau dove, insieme alla sorella Rosa, terziaria carmelitana scalza, nel 1942 venne trucidata. Nel 1998 papa Giovanni Paolo II la proclamò santa e l’anno successivo la dichiarò patrona d’Europa. Fonte biografia Wikipedia.
[3] Dopo 5 anni, 8 mesi e 13 giorni di regno, il faraone arrivò nel sito della nuova città di Akhetaton (l’attuale Amarna). Un mese prima, Amenofi IV aveva ufficialmente mutato il proprio nome in Akhenaton. Fonte biografia Wikipedia.
[4] Carl Louis von Grasshoff, conosciuto come Max Heindel (Aarhus, 23 luglio 1865 – Oceanside, 6 gennaio 1919), è stato un esoterista e astrologo danese naturalizzato statunitense, fondatore della Rosicrucian Fellowship (Associazione Rosacrociana), avente sede tutt’oggi a Mount Ecclesia, nella città di Oceanside in California (A.R.C.O.). Fonte biografia Wikipedia.
Info
Rubrica Meditazioni Metafisiche
Mi soffermo sulla prima parte, quella scientifica. Hawking, che ammirava i neopositivisti, era un grande ottimista ontologico: credeva nell’estrema probabilità di una teoria del tutto. Il suo filosofo preferito era però Wittgenstein perché, a suo dire, limitava al filosofo l’esame delle parole. Come a dire: la realtà lasciatela a noi scienziati. Penrose enumera invece i z misteri, dove non sono possibili previsioni scientifiche, ma solo fantasie. Ad esempio, si ignora quel che accade, sempre che accada, al di sotto dello spazio di Planck e cosa faccia ‘decidere’ la particella dove sbarcare alla fine del suo mistico viaggio. Quando Rutherford scoprì lo ‘scattering’ e intuì le orbite atomiche, ci fu chi predisse che entro pochi decenni nulla sarebbe stato ignoto all’uomo.
Si tratta di fedi religiose sbugiardato dalla storia della scienza.
Il resto dell’articolo è interessante. Lo sarebbe di più un’opera più complessa e universale. Dato che dimostri tanta cultura, potresti rendere la lettura della storia della verità più avvolgente e affascinante di quanto sia questo tuo pur stimolante pezzo….
Grazie, Stefano. Anche tu dimostri tanta cultura. Penserò al tuo consiglio.
Ognuno ha la sua… ed è come ogni risorsa, va distribuita con intelligenza e senso dell’economia. Grazie a te