La libera circolazione attraverso il tempo: da Hugh Everett III a Mr. Nobody
Anna ogni tanto mi confessa che non vede l’ora di veder l’effetto del tornare indietro.
Le capita da quando abbiamo visto insieme il film “Mr. Nobody” di Van Dormael. Non sempre, quando si comincia a scrivere qualcosa, si sa se si andrà fino in fondo, beh, al massimo me ne torno indietro anch’io.
Nel film si vede il protagonista vivere varie esistenze, a seconda di come butta un momento (oppure un altro), iniziale o intermedio o avanzato. Mr. Nemo Nobody conosce pertanto varie ragazze, le frequenta, si innamora, le sposa, s’incazza, perché loro sono tremende, e dolcissime, e lo fanno gioire, sognare, morire ed egli vive, pertanto, tanti matrimoni, uno solo dei quali si può definire (quasi) felice.
Anna dice che, quest’ultimo, contratto con l’omonima Anna, è quello reale, mentre le altre sono soltanto fantasie, perché è l’unico in cui egli raggiunge l’età anziana.
Nel momento in cui egli muore, l’ultima parola è quel meraviglioso palindromo, AN-NA, e poi il mondo finisce e Mr. Nemo Nobody, ormai consunto dagli anni, segue la medesima anti-sorte, torna giovane, infante e nulla più.
Il fumo torna nella sigaretta e il sasso viene rigettato dal mare.
Quando Hugh Everett III (anch’egli fu uno dei tanti possibili Hugh Everett) ideò la teoria dei multiversi, non pensava a questo. Forse. Quando Bryce Sellgman DeWitt la perfezionò, aveva in mente altro. Forse.
Una particella vaga nel mondo e dove la ricerchi, a volte, forse, la trovi, ma se non la cerchi non si sa dove sia. Né se sia.
Bohr affermava che una particella esiste solo quando la si trova. Diversamente, non è che null’altro che un’incertissima probabilità. Che però si può prevedere, forse. La attesterai, forse, quando giungerà a destinazione, sullo schermo che hai preparato per accoglierla. Ma non qui, non là, ma qui o là. Oppure ancora oltre là, forse, dove non avresti mai creduto. Non bisogna credere in nulla, con le particelle. Non sono Dio. Forse. Puoi soltanto lavorare sulle possibilità. Lei invece può scegliere (o chissà chi può davvero scegliere per lei) dove andare, non tu, caro scienziato. Forse.
Quando e se scatterà l’ora del big crunch, quando il cosmo smetterà di espandersi e di aumentare l’entropia, iniziando inevitabilmente (forse) a contrarsi, e tutto si comprimerà (forse) in quella singolarità gravitazionale, da cui ebbe (forse) origine il big bang, come avverrà il percorso all’indietro?
Poiché, finora (forse) ogni singola particella è partita e ogni volta è arrivata dove ha voluto (forse) lei, cosa sarebbe successo se lei fosse andata da qualche altra parte? Il mondo sarebbe stato diverso. Sarebbe stato quell’altro. E se invece…? Sarebbe stato quell’altro ancora! Così nascono (forse) tutti gli universi immaginabili.
Provo a figurarti la scena di un universo, uno dei tanti del multiverso, che retrocede all’infinito. Ogni particella tornerebbe indietro. Ogni volta (forse) cambierebbe traiettoria, perché se uno nasce mal incavato, mica smette d’esserlo ad una certa età, anche se inverte la rotta. E così si creerebbero infiniti altri anti-multiverso. Sarebbe stupendo, ma solo per chi li potesse conoscere ognuno. In un giro relativistico, ognuno vedrebbe la sua verità, il suo bene amato multiverso e così sia. Ma è un peccato, un vero e infinito peccato che, a quanto si dice in quell’altro giro, quello quantistico, dato che ogni osservazione muta la cosa osservata, beh, forse, non si finirebbe più di creare nuovi mondi, tutti egualmente, forse, probabili!
Ripetiamo la sequela di follie umane. Einstein disse che Dio non giocava a dadi col cosmo. Bohr gli rispose che Dio faceva quel che Gli pareva. Poi venne Bell che disse che Dio giocava a dadi col cosmo, ma barava come Gli pareva meglio, grazie ad una più che mistica, e insondabile, variabile nascosta. Se emetti una miriade di particelle contro una barriera quasi insuperabile (e tutti gli oggetti del cosmo, anzi, tutti gli eventi, anche quelli che formano le barriere insuperabili, sono soggetti a questo avverbio: quasi), ognuna sarà respinta, a parte quella che, eroicamente, ce la farà a passare, fischiettando, forse, dopo una serie (quasi) incredibile di slalom. Una su un miliardo di miliardi di miliardi forse ce la fa.
Penso ora a Momò, il ragazzino protagonista de “La vita davanti a sé” di Romain Gary, a cui capita di entrare in una sala di doppiaggio e di veder scorrere all’inverso le immagini del nastro. I cavalli tornano all’indietro al galoppo, le pallottole escono dai corpi e rientrano nei mitra, l’acqua si rialza dal tappeto e torna nel bicchiere, il sangue si irrora nuovamente all’interno dei corpi e via di questo anti-passo! Le cose, che avevano fatto il loro dovere in un senso, bicchieri infranti, sigarette bruciate, cadaveri che si raffreddano, svolgono ora i loro anti-doveri, gli zombie si rialzano più belli che pria, le bionde paglie tornano nel pacchetto Nazionali-Esportazione, i bicchieri riuniscono i loro mille pezzi sbriciolati, e via di seguito, da una parte e poi, se si vuole, ancora dall’altra, all’infinito, come, forse, capiterebbe al cosmo, alla fine del big crunch. Forse, però.
Io ho sempre amato le parole, specie quando non avevo il coraggio di pronunciarle. Einstein cominciò a farfugliare qualcosa intorno ai sette anni, io, più precoce, pronunciai per la prima volta “mamma” a tre anni. Papà era preoccupato per me. Poi, scaldato un po’ l’ambiente, non smisi più. Ma ancora le amo, ‘ste paroline, di un amore impossibile e non sempre ricambiato. Leggendo “Orlando Furioso”, sono affascinato dall’immensa perizia del mio concittadino Ludovico, così abile a tessere ottave di endecasillabi, sfruttando e a volte barando sull’esatta grafia delle stesse.
Quando, nel decimo canto, cita i luoghi britannici, Lincastro, Varvecia, Glocestra, Chiarenza, Eborace, Nortfozia, Cancia, Pembroza, Sufolcia, Esenia, Norbelandia, Arindelia, Barclei, Marchia, Ritmonda, Dorsezia, Antona, Devonia, Vigorina, Erbia, Osonia, Battonia (nomen omen?), Sormosedia, Bocchingamia (interessante!), Sarisberia, Burgenia, Croisberia, Ottonlei, Trasfordia, Albania, Boccania, Forbesse, Erelia, Childera e Desmonda, Invece che Desmond, Kildare, Forbes, Buchan, Albany, Strafford, Athol, Shrewbury, Abergavenny, Salisbury, Buckingham, Somerset, Bath, Oxford, Derby, Winchester, Devonshire, Hanton, Dorset, Richmond, March, Berkely, Arundel, Northumberland, Essex, Suffolk, Pembroke, Kent, York, Carence, Glouchester, Warwick e Lancaster e non voglio ricordare qui i più radi ma non meno fantasiosi nomi di città della fiabesca India e del remotissimo Catai!
Ogni tanto amo pensare a come ingarbugliato è il poema ariostesco, a come ogni storia s’interseca con le altre, e cessa, e riprende ad esistere quando meno te l’aspetti, il tutto descritto e cantato in quell’italiano avito, certo e, al contempo, improbabile. E immagino come sarebbe il medesimo capolavoro, se fosse letto all’in contrario!
Assomiglierebbe (forse) a quello che era il linguaggio originario, a quanto qualcuno dice, il confuso tentativo di imitare il cinguettio degli uccelli, amalgamato per sempre al fine segreto di renderci, ognora e sempre, più folli, immortali e (forse) infelici.
Written by Stefano Pioli