“L’ultimo Testamento” di Aniello Milo: continua a cercare quel che hai già trovato
Il primo romanzo di Aniello Milo m’induce a domandarmi quale libro possa dirsi perfetto. Non lo è uno che incendi l’animo del lettore, lo stravolga o che provochi in lui repulsione.
Per quanto mi riguarda, da sempre ho amato più gli scrittori imperfetti di quelli perfetti: Henry Miller, soprattutto, lo scrittore che mi è amico dal lontano 1976; Rimbaud, l’alchimista delle parole; Ginsberg, il poeta destabilizzante; e tantissimi altri che mi hanno aperto la mente, e in essa hanno inserito mondi irregolari e problematici, a cui in quell’attimo sfuggente, che dura da decenni, sto coltivando i miei sogni centrifughi.
Mi attendo che tu non ti offenda, per carità, caro Milo, se ti dico che il tuo libro è perfettamente compiuto. E, che esso sia il primo, mi pare un caso mirabile, oppure qualcosa d’ineffabile. Forse l’hai dato alle stampe perché lo sentivi finalmente terminato dentro di te. E in esso, purtroppo, non riesco a riscontrare nemmeno un’irregolarità. Esso mi sembra dettato da una grande necessità.
Il tuo stile è non solo scorrevole, come lo è anche nel secondo, che già lessi, ma mi pare che questo sia, ad ogni passo, come dire, opportuno.
Tu racconti la tua iniziazione alla massoneria, avvenuta quando eri poco più che trentenne. Non mi interessa certificare se tu e l’io narrante siate la stessa persona, né se gli eventi narrati siano basati e in che misura sulla tua biografia, oppure se questa sia solo servita da modello.
Quel tuo io è stato ordinato, come se fosse un sacramento, ma tu dici meglio, iniziato, a quell’arcana società.
Iniziare vuol dire predisporre un soggetto a una funzione, togliendogli quanto sarebbe di ostacolo ad essa, facendo sì che, senza assurde pastoie, si integri in un progetto nuovo.
Il fatto m’affascina, ma al contempo mi rende perplesso. Significa che, d’ora in poi, la parte più importante di un individuo, il suo essere un’anima che ragiona e decide, è stata forzata, e dentro di me si è intanto formato il dubbio: “forse le è stata esercitata una violenza”, pensiero che rigetto subito perché eccessivo, eppure quella parola, violenza, che deriva dal “vis” latino, “forza”, da cui viene anche “vir”, “uomo”, mi fa male.
Sento che se qualcuno mi prospettasse di entrare in una simile condizione, io rifiuterei. Troppa anarchica e sciolta è l’essenza mia, perché accetti di diventare affiliata ad alcunché. Io non mi sento figlio di nessun altro, se non dei miei genitori, per cui l’unica associazione in cui credo è la famiglia.
Queste sono le sensazioni che provo mentre leggo il tuo romanzo. Sento interesse, tanto, sì, ma anche parecchia diffidenza. Prescindo, in questo mio sentimento, perché vero pathos esso è, da qualsiasi eventuale ragione teleologica. Risulta chiaro che l’associazione che descrive ne ha una in particolare, lambendole tutte in generale.
Per chi volesse approfondire l’argomento, il libro offre un’ottima dissertazione sull’argomento, da cui cominciare un’eventuale ricerca sul tema. Non fosse per altro, esso merita di essere letto.
Non è importante, ma mi va di dire che il tuo stile fluido permette al lettore di incamerare tutte le notizie che fornisci in maniera delicata, come succede per certe pietanze campane che sorprendono, tanto per leggerezza quanto per sostanziosità.
È scontato affermarlo: la parte più bella è l’ultima, quella che riporta il testamento del Principe di Sansevero, e che precede il breve Epilogo.
Riporto solo alcune frasi:
“Cerca, continua a cercare anche quel che hai già trovato.”
Anche: non ti soffermare su quel che sei, ma non dimenticarlo, mentre diventi quell’Altro.
“Abituati a levar la tenda, per rimontarla altrove.”
La tua casa è Qui e Altrove.
Anche le altre meravigliose concioni che riporti accentano quel senso esistenziale: Quel che sei già, fa parte di quel che ti serve per andare oltre a te stesso.
“Nel sonno il piacere sta nell’abbandonarsi deliberatamente alla coscienza felice di accettarsi di essere più deboli, più leggeri nella mente e maggiormente pesanti nel corpo, in sostanza più vaghi dell’essere nostro.”
Il potere della mente può mutare la nostra percezione, ma anche acuirla e indurci ad accettarla, per tragica che sia.
“Sulla morte.
Non è detto che sia imminente, eppure sono giunto a quell’età in cui la vita è per ogni uomo una sconfitta accettata.”
Essa ci pare come un farmaco omeopatico che ci permetterà di meglio affrontare l’avvento della sua nera sorella.
“Un gesto devoto, come il bere l’acqua nel cavo delle mani o direttamente ove sorge, fa sì che penetri in noi il sale segreto della terra.”
Frase che non consente commenti, ma solo un silenzio rispettoso e pio.
“Ho amato l’estasi e la libertà e sono stato attento, molto attento, a tenere sotto controllo l’oscurità che è in me.”
La mia voglia e il mio bisogno di distruggermi a forza di troppi attimi felici, m’hanno consentito di vivere compiutamente.
“… mi sono sempre dedicato all’osservazione di me stesso per penetrare questo individuo, in compagnia del quale mi toccherà vivere fino all’ultimo istante.”
‘Je est un autre’ direbbe il consanguineo Rimbaud, il poeta più imperfetto di sempre!
In me convive il mio gemello, che mi permette di armonizzarmi col fratello in cui mi imbatto giornalmente, pur consapevole che anch’egli ne ha uno, di eterozigoti, che potrebbe all’improvviso impazzire e farmi odiare l’amore mio…
Ignoro, Aniello caro, se questo sia o no reale, o semplicemente immaginato e costruito su qualche tuo sogno, né se il Principe davvero sia davvero sepolto nella “centralissima via Salvator Rosa in Napoli”, come tu assicuri nella chiusa del libro.
Io questo so: che egli è vissuto dentro di me, e per sempre.
E solo questo, in definitiva, conta.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Aniello Milo, L’ultimo Testamento, Youcanprint, 2015
Un pensiero su ““L’ultimo Testamento” di Aniello Milo: continua a cercare quel che hai già trovato”