“Vera” di Elizabeth von Arnim: la passione raccontata da una sorta di ménage à trois
Cosa può unire due persone? Un sentimento, una passione in comune, un legame di sangue. Ma anche il dolore condiviso per un lutto grave e recente.
È questo ciò che accade a Lucy ed Everard, protagonisti di Vera (Fazi Editore, 2019, pp. 303, trad. di Sabina Terziani), romanzo a tinte noir di Elizabeth von Arnim.
È una soleggiata mattina dell’estate 1920 quando la giovanissima Lucy Entwhistle perde il caro padre – con cui è in vacanza in Cornovaglia – in modo inaspettato. Sconfortata, Lucy scende in giardino in attesa che la salma venga composta. Immobile e apatica, assorta nei suoi pensieri, ella non si accorge dell’arrivo di uno sconosciuto.
L’uomo la apostrofa e si presenta come Everard Wemyss, anche lui rifugiatosi in Cornovaglia per riprendersi dalla morte della moglie Vera, avvenuta una settimana prima in circostanze nebulose.
La donna è infatti precipitata dalla finestra del suo salottino. Incidente? Suicidio? Per chiarire la dinamica dell’evento è stata aperta un’inchiesta e la notizia occupa la prima pagina di tutti i giornali.
È anche per fuggire dal clamore mediatico che Wemyss ha scelto la Cornovaglia per trascorrere alcuni giorni in solitudine. Lucy si apre a questo sconosciuto gentile e affranto e gli rivela che ha perso il padre solo poche ore prima.
Everard si mostra affabile e premuroso, organizza le esequie e non lascia sola Lucy nemmeno per un attimo, è una presenza discreta e rassicurante. Non occorre molto tempo perché Lucy ed Everard si innamorino nonostante la differenza d’età – lei ha ventidue anni, lui quarantaquattro.
Due mesi dopo la coppia annuncia il fidanzamento alla zia della ragazza. Wemyss non può aspettare oltre per sposare la sua amata, organizza in fretta le nozze e nel marzo successivo Lucy diventa sua moglie. La vita coniugale sarà per la giovane Entwhistle molto diversa da come l’aveva immaginata.
E quella casa, The willows, che era stata teatro della disgrazia, ma che ora è la sua dimora, si trasforma in una prigione dorata in cui Lucy si sente oppressa e in cui tutto parla di Vera. Riuscirà la nuova signora Wemyss a superare le difficoltà iniziali grazie alla forza dell’amore per il marito?
Due donne molto diverse, Lucy e Vera; la prima giovane e inesperta, la seconda quarantenne dai tratti spigolosi e capace di tenere testa al coniuge. E, tra le due figure femminili, Everard.
L’uomo indossa una maschera, quella del gentiluomo affettuoso e sorridente; ma dietro quella maschera gentile si cela un volto deformato da un ghigno inquietante. E poco a poco, Lucy si troverà faccia a faccia con questo aspetto angoscioso del marito.
Inizia per lei una sorta di descensio ad inferos, anche se nella sua ingenuità di donna innamorata cerca sempre di giustificare i comportamenti sgradevoli dell’uomo, perfino addossandosi la colpa dei suoi scoppi di collera.
“Sì, era miserabile, pensava la notte quando non riusciva a prendere sonno e rifletteva su come si era comportata quel giorno. L’amore l’aveva resa così. L’amore ci rende miserabili ogni volta che temiamo di ferire l’amato.”
Wemyss ha un carattere dominatore e dominante; sulla servitù come sulla moglie deve avere il controllo assoluto. Rivela tratti narcisistici – l’unico punto di vista, sostiene lui, è quello giusto e quello giusto è sempre il suo – e una personalità bipolare, capace di passare in pochi istanti da accessi d’ira a gesti di grande tenerezza e intimità giocosa.
Chiama Lucy “la mia bambina” e in effetti la giovane è proprio questo: poco più che adolescente, ella è un pulcino impaurito e solo che finisce tra le fauci del serpente. Proprio come una serpe, subdolo, Everard si insinua tra le pieghe della vita della moglie prendendone in mano le redini. Forte della sua personalità e dall’alto dei suoi quarantaquattro anni, egli la forgia e plasma a suo piacimento, così come si cerca di educare i bambini inculcando princìpi nelle loro tenere menti.
Così Lucy si ritrova prigioniera di un matrimonio claustrofobico in una casa che le incute timore.
“Lo temeva, e aveva paura di se stessa in relazione a lui. […] Adesso sapeva, per l’esperienza acquisita quel giorno, che non sarebbe mai riuscita a sopportare le scenate, di nessun tipo. […] Aveva paura di lui.”
Tuttavia, per amore di Wemyss, cerca di compiacerlo, di assecondare e addirittura anticipare ogni suo desiderio o, per meglio dire, ordine. Sì, perché come un tiranno egli impone la sua ferrea volontà su chi lo circonda. E a Lucy non resta che un modo per sopportare il carattere dispotico del marito: cerca consiglio in Vera, la donna che prima di lei aveva condiviso la vita con Everard e lo fa scrutando il ritratto della defunta che campeggia nella sala da pranzo, frequentando quel salottino dalla cui finestra la poveretta è precipitata, perfino leggendo i suoi libri; insomma, cercando di entrare in Vera, in ciò che è stata e in ciò che ha provato.
È curioso che un romanzo la cui protagonista è Lucy Entwhistle si intitoli Vera; eppure questa scelta della von Arnim è perfettamente motivata e logica in quanto Vera è una presenza tutt’altro che secondaria nella vicenda. È viva, più viva che mai tra le pieghe del matrimonio di Lucy ed Everard, è un’entità che incombe in una sorta di ménage à trois in cui viene spesso nominata e ricordata.
Written by Tiziana Topa
Info
Elizabeth von Arnim, pseudonimo di Mary Annette Beauchamp (Kiribilli Point, 31 agosto 1866 – Charleston, 9 febbraio 1941); altro pseudonimo talora utilizzato: Alice Cholmondeley, è stata una romanziera britannica nata in Australia. Fonte biografia: Wikipedia.