Vincitori e Finalisti del Contest di poesia e racconto breve “Al tuo cuore con la poesia”

Si è conclusa l’11 febbraio 2019 a mezzanotte la possibilità di partecipare al Contest Letterario di poesia e racconto breve Al tuo cuore con la poesia” promosso da noi di Oubliette Magazine e dall’autore Rosario Tomarchio.

Contest Al tuo cuore con la poesia

Una competizione a suon di parole e versi che ha visto più di 100 partecipanti per le sezioni A (poesia) e B (racconto breve).

La giuria del contest (Alessia Mocci, Rosario Tomarchio, Katia Debora Melis, Carolina Colombi, Beatrice Tauro, Rebecca Mais, Claudio Fadda) ha decretato i 14 finalisti.

Oggi, vi presentiamo i sei vincitori del contest che riceveranno a casa una copia della raccolta poetica Al tuo cuore con la poesia” di Rosario Tomarchio.

Tutte le opere partecipanti possono essere lette cliccando QUI.

 

FINALISTI

Sez. A ‒ Poesia

“Questo amore” di Stefano Peressini

“Crepuscolaria” di Gaetano Cuffari

“A mia madre” di Marina Pieranunzi de Marinis

“Il pianto dentro” di Rossana Emaldi

“Ora che sei uomo” di Maria Carmela Dettori

“Ho assunto la tua forma” di Italo Zingoni

“Quando ottobre verrà” di Claudia Ruscitti

 

Sez. B ‒ Racconto breve

“Ricordi Mobili” di Samanta Berruti

“Stagioni” di Silvana Sonno

“Pensieri paralleli” di Sergio Spena

“I love you” di Paola Santacroce

“Il lontano Mungibeddu” di Giovanna Li Volti Guzzardi

“Bruk” di Luisella Grondona

“Consummatum est” di Tiziana Topa

 

VINCITORI

SEZIONE A

“Questo amore” di Stefano Peressini

Ci porterà sulle spalle

questo amore

e non avremo la coscienza

del passare dei giorni,

come un sasso non s’accorge

di levigarsi lento

dentro lo scorrere leggero

d’un torrente.

 

Saprà trovarci istanti

per parole e canzoni,

per luci di tramonti

ad arrossarci il viso.

 

Il cielo che poi s’oscura

ci nutrirà di stelle antiche,

dell’equilibrio d’una luna piena

appesa sopra il nostro mondo nuovo.

 

Sarà più forte

questo amore che non s’accontenta,

nel rinnovarsi rosso del corallo

nel vivido colore

d’un’erba nata a primavera.

Nei bocci che si schiudono,

secchi fino a ieri,

gravidi per l’ape che già li sfiora.

 

Sarà nell’onda che si gonfia

e sbatte sullo scoglio

per rifarsi poi daccapo

alla carezza del maestrale.

 

Non avrà paura

questo amore

di camminare a piedi nudi

sul sentiero stretto della vita.

 

“A mia madre” di Marina Pieranunzi de Marinis

Scrivo il mio amore per te

di fronte agli alberi

di questo nostro viale.

 

Ormai, vivi nell’aria,

in quei frammenti di eterno

che danno vita alla vita.

 

Sei la mia primavera

fremente e inquieta.

 

Sei l’estate assolata e vitale

a cui non appartieni più.

 

Sei l’autunno screziato

che amavi tanto.

 

Sei il triste inverno

che crudelmente,

come un colpo di vento,

ti ha tolto a noi.

 

Sei il mio respiro.

 

Sei i miei pensieri.

 

Sei il mio sorriso.

 

Sei il mio rimorso

ed il mio pianto.

 

“Ora che sei uomo” di Maria Carmela Dettori

Ora che sei uomo, figlio mio,

e più non cerchi il mio sguardo

nel tumulto della folla,

ora che non sono più immortale

né infallibile e onnisciente,

né indispensabile al tuo tempo

e ai tuoi bisogni,

ora che più non mi pretendi

nel silenzio delle notti,

quando un contatto di pelle

ti bastava a svuotare il buio

di ogni tua paura

addolcendo il sonno e i sogni,

ora che l’amore è libero

da ogni sudditanza

e nello specchio tu vedi i graffi

di ogni mio limite e difetto,

e io non vedo più tutti i tuoi segreti,

non somigliarmi, figlio,

taglia le radici più profonde

dove purtroppo non arrivò il mio Io,

anche se mi hai perdonato

non somigliarmi dove io ho fallito,

ma non dimenticarlo,

fanne tesoro quanto mai prezioso

perché si avveri quel che dicesti un giorno:

-imparerò da te ciò ch’esser voglio,

madre, e lascerò le scorie indietro-

Ora che sei uomo,

e si è spenta l’eco di canzoni urlate,

resta la mia memoria

e la tua che cresce piano,

ma è pronta la mia mano

se avrai bisogno di rialzarti

cercando sicurezza in un abbraccio,

così certo e mai sopito,

dove l’amore in osmosi si rinnova,

battito di tenerezza senza fine,

polvere di silente nostalgia

che scioglie il suo peso e si ritrova

nei passi di una nuova via.

 

SEZIONE B

“Ricordi Mobili” di Samanta Berruti

“Buongiorno Attilio”, l’infermiera del turno di giorno lo salutò con un gesto della mano, prima di aggiungere: “Anna ha dormito proprio bene, sa? Come un angioletto”.

L’uomo, un pensionato settantaseienne di nome Attilio Bruni, annuì con un sorriso quieto, prima di rispondere al saluto con un gesto del capo e proseguire a passo sicuro. Conosceva quei corridoi a menadito, rifletté. Senza abbassare lo sguardo, ormai, avrebbe potuto persino indovinare il punto esatto in cui le piastrelle color crema si accavallavano un poco.

“Buongiorno Attilio”, la voce della signora delle pulizie lo fece voltare.

“Buongiorno Maria”, rispose quindi con un sorriso sincero, “Come sta oggi? Come stanno i suoi figli?”.

La donna replicò con mormorio sconsolato che voleva dire: “Lasciamo perdere”, poi scosse il capo, come a voler cacciare i cattivi pensieri, e sorrise.

“Mi saluti la signora, mi raccomando!”, aggiunse, quindi voltò l’angolo e sparì dalla vista dell’altro.

Attilio annuì distrattamente, prima di proseguire e fermarsi pochi metri più in là, davanti all’ennesima porta bianca. Senza attendere oltre bussò piano, per poi afferrare la maniglia e aprire.

“Si può?”, chiese, sorridendo alla vista che gli si parò di fronte.

Stesa sul letto di destra, le lenzuola aggrovigliate intorno alle gambe esili e l’espressione corrucciata, Anna Bruni dormiva ancora.

Si erano conosciuti in chiesa, come spesso accadeva ormai decine di anni prima. In quella stessa chiesa, pochi mesi dopo, si erano sposati in un tiepido pomeriggio di maggio. Era bella, quel giorno, la sua Anna, con il vestito bianco e quel sorriso vivace che le arrivava sino agli occhi, rendendoli caldi e luminosi. Era meravigliosa la sua “piccinina”, come la chiamava sempre, il giorno in cui gli disse: “A breve saremo in tre, Attilio”.

L’uomo si sedette di fianco al letto e si mise a sfogliare uno dei volantini con cui le infermiere avevano riempito il cassetto del comodino. Di fronte all’ennesima rappresentazione stilizzata del corpo umano, Attilio sospirò e lo rimise a posto.

Osservò per un attimo le mani della moglie, sottili e un po’ nodose. La pelle chiara faceva risaltare l’oro giallo della fede che portava all’anulare e che non si toglieva proprio mai, quasi la donna avesse paura di perderla.

Le avevano comprate da un orologiaio di San Marino, quelle fedi. Avevano preso la corriera del mattino, un sabato d’inverno, per poi perdersi tra le vie del borgo medievale. Si erano stretti l’uno all’altra, cercando di ripararsi almeno un poco dal vento gelido che si abbatteva sui bastioni. Le mani strette, non si erano separati nemmeno quando era venuto il momento di prendere le misure per gli anelli.

“Siete proprio una coppia speciale”, aveva commentato il commerciante con un sorriso intenerito.

Anna sussultò nel sonno, riportando Attilio alla realtà. L’uomo le strinse la mano, prima di carezzarle il braccio con l’altra.

“Va tutto bene, Anna”, mormorò, “Sono qui”.

La donna mugugnò qualcosa, poi volse il capo e continuò a sonnecchiare.

Erano morbide, le mani di Anna. Tutti i giorni, prima di lasciarla con la promessa di tornare il mattino seguente, l’uomo le massaggiava con quella crema bianca e densa che la moglie tanto amava. Ogni giorno, Attilio prendeva le mani di lei tra le proprie e le copriva con un velo di pomata, prima di baciarne i polsi e congedarsi con un sorriso.

“Ci vediamo domani”, le diceva sempre.

Era amore pure quello, rifletté l’uomo. Amore era anche trascorrere ogni giorno nella stanza d’ospedale di Anna, condividendone pasti e coperte. Amore era stringerle forte la mano quando un’infermiera arrivava per un prelievo di routine, perché alla donna gli aghi non piacevano proprio per niente. Amore era stato, mesi prima, annuire alle parole del medico e sorridere rassicurante nonostante la paura di perderla inesorabilmente, poco a poco.

Quando la memoria della moglie aveva iniziato a vacillare, Attilio era arrivato in ospedale con un enorme album fotografico ed aveva passato pomeriggi interi raccontandole aneddoti e storielle buffe. Amici e parenti si erano quindi trasformati nei protagonisti di storie che, agli occhi meravigliati e curiosi di lei, sembravano favole.

Ad ogni “Dove sono? Che succede? Chi siete?” l’uomo aveva spinto il proprio dolore e le proprie paure in un angolo remoto della propria mente e l’aveva rassicurata. Ogni volta che l’aveva vista vacillare, l’aveva sorretta e le aveva stretto la mano, regalandole un sorriso delicato. Aveva accolto ogni diagnosi, risultato o consulto medico increspando le labbra in un sorriso accennato, Attilio.

“Lo faccio per lei”, spiegò un giorno all’infermiera del turno di notte, “Lo faccio per tranquillizzare la mia Anna”.

“Non so proprio come fai, papà”, gli aveva detto un giorno sua figlia Elena, la voce piena d’ammirazione e reverenza, “Io non so se ce la farei”.

Lui si era stretto nelle spalle, evidentemente imbarazzato di fronte a tutti quei complimenti. Era semplicemente un altro modo per star vicino alla donna che amava, rifletté, l’ennesima tappa di un percorso ad ostacoli intrapreso ormai anni addietro.

Un sussulto di Anna lo fece voltare. Gli occhi di lei si aprirono lentamente e la donna, muovendosi a malapena, cercò di tirarsi su.

“Lascia che ti aiuti”, le sorrise rassicurante, prima di passarle una mano attorno alla vita ed aiutarla a mettersi seduta.

“Ti sei fatta proprio una bella dormita, Anna”, continuò con tono leggero, poi si voltò verso il comodino e prese il fazzolettino a fiori che la moglie aveva comprato anni prima, alla fiera d’estate, e le pulì le labbra incrostate.

Anna lo osservò con curiosità, prima di alzare una mano ed accarezzargli la guancia.

“Grazie, Attilio”, mormorò con voce un poco rauca, “L’hai portata tu Elena a scuola?”.

Amore, realizzò Attilio in quel momento, era anche dire la cosa giusta. Pure se si trattava di una bugia.

“Sì, Anna”, annuì con tono rassicurante, “È tutto a posto, non preoccuparti”.

Senza lasciarle la mano, l’uomo si voltò verso il comodino ingoiando un singhiozzo sommesso.

“Che ne dici di fare colazione? Oggi c’è il budino alla vaniglia, il tuo preferito.”

 

“Mais un souvenir, un chagrin, sont mobiles. Il y a des jours où ils s’en vont si loin que nous les apercevons à peine, nous les croyons partis.” Marcel Proust, À la recherche du temps perdu.

 

“Pensieri paralleli” di Sergio Spena

Seduto alla sua scrivania nell’Agenzia n.22, il trentaquattrenne impiegato Massimo Villetti sfogliava con aria pensierosa il fascicolo trattato alcuni giorni prima. Rivide davanti a sé quel cliente magro e brizzolato per il quale aveva curato la pratica di prestito personale, domandandosi come mai ci si fosse dedicato con tanto scrupolo.

Aveva avviato subito l’iter, convincendo il Direttore a venir meno alla nota regola secondo cui è più sicuro prestare il denaro a chi non ne ha bisogno.

La verità era che aveva sentito un’insolita, forte simpatia per quell’uomo che non riusciva a nascondere la sua ansia.

Quei 25.000 Euro erano stati rapidamente erogati.

I suoi pensieri furono piacevolmente distratti dal delizioso fondoschiena appartenente all’impiegata Marisa Cardano, che stava sistemando con cura alcune cartelle nell’armadio di fronte.

Compiaciuto del suo stato di uomo attraente, cui non era mai mancato il successo con le donne, lasciò volare con malizia l’immaginazione, ma quasi subito la bella Marisa richiuse l’armadio e tornò nell’altra stanza.

Con un sospiro di rassegnazione, cercò di tornare a concentrarsi sul lavoro; riordinò i documenti e chiuse la cartella sul cui frontespizio era scritto a penna “Cliente: Antonio Testa”.

L’orologio appeso sulla parete di fronte segnava esattamente le 16.30.

“Ora potrebbero essere già in viaggio”, pensò.

Più tardi, uscendo, avrebbe dovuto ricordarsi di provvedere alle commissioni da buon padre di famiglia; staccò dal bordo del monitor il post-it su cui aveva scritto: “comprare pane, latte, arance” ed aggiunse a matita “batterie stilo per telecomando console Wii di Martina”.

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Il passeggero Antonio Testa, seduto alla poltrona G-34 del Boeing 767 in volo da Roma a Bogotà, guardò nervosamente il suo orologio da polso: le 16.40. Questo, però, in Italia; ora si trovava certamente in un diverso fuso orario, ma chissà quale! Avrebbe rimesso a posto le lancette all’arrivo: cinque ore in anticipo.

Osservò nuovamente la fotografia che teneva tra le dita, dalla quale gli rivolgevano un incerto sorriso due ragazzini –un maschio ed una femmina- di età apparente tra i nove ed i dieci anni, con i tratti somatici tipici della etnia Andina. Girò lo sguardo verso la moglie Rita, addormentata sulla poltrona accanto: l’appesantimento del fisico non aveva cancellato i lineamenti decisi e volitivi del viso, accentuati dal nero intenso di capelli e sopracciglia. Ebbe un lampo di silenziosa tenerezza: nel sonno aveva assunto un’espressione distesa, ma lui sapeva che dietro quelle palpebre chiuse si agitavano tanti pensieri.

Ripercorse mentalmente le vicende degli ultimi quattro anni, trascorsi tra aspettative e momenti di sconforto. Quasi subito, però, i suoi pensieri si inoltrarono più indietro, nei sette anni ancora precedenti, consumati in un’attesa prima fiduciosa, poi impaziente ed infine disperata. Scorsero rapidamente le istantanee dei tanti esami clinici, le pesanti terapie ormonali per lei, i “prelievi” di seme per lui. Sorrise tra sé: era dai tempi dell’adolescenza che non aveva più praticato quella funzione!

Si ritrovò nelle sale d’attesa dei vari “maghi” della fecondazione assistita, rivedendo i volti impassibili delle segretarie che riscuotevano esosi onorari.

Poi le gravidanze: una volta, due, tre!

Ed i tre aborti.

Poi . . . Basta! Basta!

Stanchezza e disillusione, poi la maturazione consapevole di una scelta: adozione.

Assieme al rinnovato entusiasmo, ecco lo scontro con mille nuove difficoltà: esami medici, certificati d’ogni tipo, interminabili colloqui con psicologi, assistenti sociali e magistrati, mesi di lotta tenace contro una burocrazia asfissiante.

Alla fine avevano ottenuto il sospirato decreto d’idoneità: sembrava un traguardo ed invece era solo l’inizio di una nuova snervante attesa. Due anni e mezzo erano scivolati via in una forzosa, esasperante inerzia.

Improvvisa, era arrivata la convocazione e con essa la parola che attendevano: abbinamento! Una parola freddamente burocratica, eppure tanto desiderata: la loro coppia era stata finalmente selezionata dall’autorità Colombiana per accogliere due fratellini.

Gli era stata consegnata solamente una scarna relazione, redatta con asettico linguaggio da psicologo, assieme ad una foto: sarebbero stati quelli i loro figli!

Ma c’era ancora un ostacolo da superare: per il viaggio, il soggiorno e le altre pratiche internazionali occorreva molto denaro, mentre il conto corrente era decisamente esausto.

Riflettendoci, non sembrava semplice convincere la Banca a concedere un prestito consistente a due impiegati di medio livello, già gravati dal mutuo ventennale.

Invece, la richiesta era stata subito accettata ed in brevissimo tempo aveva avuto a disposizione il denaro. L’impiegato addetto era stato molto comprensivo!

Sarebbe stato duro sostenere l’onere delle rate, sommate alle spese di una famiglia improvvisamente raddoppiata, ma aveva fiducia: ce l’avrebbero fatta!

Strinse una mano attorno al bracciolo, per confermare a se stesso che si trovava su quell’aereo.

Guardò con dolcezza Rita che sembrava dormire tranquilla al suo fianco.

Era una donna intelligente e molto forte.

Più di lui.

E gli stava accanto.

L’amava! Questa consapevolezza lo fece sentire orgoglioso, dandogli rinnovato coraggio.

Adesso stava per arrivare la prova più difficile: una famiglia da costruire, tante barriere da abbattere, due ragazzini con un doloroso vissuto da scoprire, da comprendere, da condividere.

Vista così da vicino, l’impresa che avevano davanti appariva quasi sovrumana: da perfetti sconosciuti quali erano, farsi accettare come autentici genitori!

Occorreva dar tutto di sé stessi.

E tanto amore!

Ma sarebbe bastato?

Una voce professionale dall’altoparlante raccomandò in spagnolo ed inglese di allacciare le cinture: si avvicinava un’area di turbolenze.

Guardò dal finestrino lo strato di nuvole sotto di loro e ripose la foto nel porta documenti. Agganciò la sua cintura e, delicatamente, fece lo stesso con quella della moglie. Cercò di rilassarsi sulla poltrona e controllò nuovamente l’ora: erano le 16.55, in Italia.

La Colombia era ancora lontana.

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Massimo uscì dall’Agenzia alle diciassette in punto, immergendosi nel fiume di folla della strada: c’era il tempo per fare gli acquisti, aiutare Laura a preparare la cena e giocare un po’ con la bambina. Avrebbe interpretato perfettamente il ruolo dell’uomo collaborativo in una coppia moderna.

Si incamminò allegramente nel caos cittadino; i suoi pensieri erano già a casa, lontani dalle pratiche d’ufficio quanto un aereo che proseguiva il suo viaggio diecimila metri sopra l’oceano.

 

“Bruk” di Luisella Grondona

Era lunedì, il giorno del grande mercato. Il profumo delle frittelle solleticava i nasi nel cortile. La madre di Hada si era alzata all’alba per prepararle: le aveva messe in una ciotola, coperte con un telo e sistemate in un catino con pomodori, cipolle, patate.

“Sbrigati o farai tardi” urlava.

Hada nella capanna frugava nella cesta. Aveva fasciato il suo corpo col drappo più bello e la sorella grande le aveva fatto le treccine.

“Sembra che tu vada a un matrimonio!” sghignazzava la piccola.

Hada fingeva di non sentire; aveva trovato un frammento di specchio e ammirava le labbra carnose, le file di denti bianchissimi, gli occhi dal taglio obliquo.

La voce della grande l’aveva fatta sussultare.

“Sei una giraffa vanitosa…Se ti vede la mamma…”.

La madre le aveva posato il catino sulla testa.

“Vendi tutto, mi raccomando!”.

Hada era felice come un uccellino uscito da una gabbia; poco importava se la strada era lunga e il carico pesante…

Il mercato era un grande luna park, fatto di forme, colori, rumori, nubi fumo, sacchetti per terra, voci di bambini. Era una finestra dove affacciarsi e guardare. Hada lo sapeva, per questo si impegnava nei lavori domestici. Non voleva rischiare che al suo posto andasse la sorella.

Aveva posato il catino e messo la verdura sul telo.

Le parole delle donne nelle orecchie.

“Hai dormito bene? Tuo figlio come sta? E tuo marito? E la mamma?…”

“Frittelle…pomodori…cipolle…costano poco…” urlava Hada.

Il profumo delle frittelle insisteva nei nasi e loro si fermavano.

“E …un po’ di patate …fammi un buon prezzo!…”.

 

Hada aveva lasciato il catino vuoto sulla strada e s’era buttata nella mischia per riempirsi gli occhi e afferrare frasi da portare a casa.

Davanti al baracchino delle bibite ragazzi e ragazze aspettavano, si guardavano, sorridevano.

Hada contava le monete nella mano. Spingeva e si infilava fra corpi avvolti di righe colorate, di zig zag, di forme geometriche.

“Un succo d’ananas… quanto fa?” urlava col braccio alzato.

“Aspetta!”

Lei si era voltata

“Ci penso io…”.

Hada lo guardava ferma come un pesce al sole.

Chi sei? avrebbe voluto chiedergli.

Lui era bello, sembrava un dio.

Il bicchiere tremava nella mano. Lui la fissava e sorrideva.

 

I passi veloci sollevavano polvere. Il catino sulla testa. Negli occhi quel viso bellissimo. Nella mente la voglia di rivederlo. Subito. Hada aveva tirato un calcio ad una pietra. Fra una settimana. Forse.

“Rallenta o… mi scoppieranno i polmoni…”

Hada si era voltata: il fiato non c’era più e il cuore galoppava. Lei non capiva. Colpa di uno spirito malvagio?

“Sei una gazzella in fuga…”

Nel sorriso i denti perfetti.

“Come ti chiami?”

“Hada…e tu?”

“Bruk”.

 

Hada spazzava via goccioline dalla fronte. Nella bocca il deserto.

Il sole era padrone assoluto del cielo: padrone feroce, senza pietà.

“Ci fermiamo …vuoi?”

Lei aveva fatto sì con la testa.

Avevano attraversato un campo d’erba gialla. Laggiù, una massa verde chiaro risaltava sul bianco. Era un miraggio…

Venite, diceva l’albero, i rami aperti come braccia.

“A cosa pensi?” le aveva chiesto Bruk.

“Se c’è un albero…c’è un villaggio e… della gente…”

Lui rideva.

“Che t’importa?”.

Si era avvicinato. Profumava d’erba appena tagliata. Hada sentiva la testa girare.

Si erano seduti. L’ombra come acqua dissetava i corpi. Bruk si era tolto la maglietta. Un colpo. Improvvisamente il cuore di Hada cadeva e si frantumava. Gli occhi incollati al petto di Bruk. Nelle orecchie, insistenti, le parole del nonno.

“La nostra gente ha un nemico: il popolo della costa. Gli uomini razziarono i nostri recinti, armati di machete distrussero, violentarono, uccisero. Hanno scarificazioni sul petto a forma di rombo…nessuna donna può avvicinare uno di loro senza scatenare l’ira degli dei!”.

 

Hada guardava per terra.

“Stai male?”

“No… ma …io….”

“Sei bella”.

Bruk le aveva preso il viso fra le mani e posato la bocca sulle guance, sul collo.

Un brivido la percorreva tutta e la faceva tremare. Aveva paura.

Calmati, si era detta, non è nulla, forse è …l’amore.

L’amore? Hada non lo conosceva. Pensava fosse il rantolo della mamma quando suo padre le sbuffava addosso come un toro.

Si sbagliava.

Bruk le aveva sciolto il drappo. Le mani modellavano il suo corpo come l’artigiano un vaso. Non ci credeva: lei, giovane pantera, impotente di fronte all’amore.

Si sentiva leggera come una nuvola e sperava che il vento non l’arruffasse…

 

I vincitori saranno contattati via email per l’invio del premio.

Complimenti ai vincitori, finalisti e partecipanti!

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Per gli autori, esordienti e non, interessati a conoscere le modalità per accedere alla creazione di un contest su Oubliette Magazine si può contattare la redazione su email: oubliettemagazine@hotmail.it scrivendo sull’oggetto: Info Contest Letterario.

 

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