“Un’estate con Omero” di Sylvain Tesson: un consiglio sovversivo lontano da ogni falsa escatologia
“Stabat nuda Aestas, et spicea serta gerebat” (“L’Estate stava in piedi nuda e portava delle corone di spighe intrecciate”) ‒ Ovidio

Potrò apparire un po’ in ritardo con i tempi se, quasi alla fine dell’estate, propongo su queste colonne la recensione di un libro che si intitola Un’estate con Omero (Rizzoli), traduzione italiana dal francese Un été avec Homere dello scrittore d’oltralpe Sylvain Tesson.
In effetti il titolo sembra avere un carattere programmatico, come ideato di chi volesse consigliare il lettore su come trascorrere l’imminente (rispetto al tempo della scrittura) estate.
E ciò del resto trova conferma in un punto iniziale del saggio: “Un consiglio dadaista: abbandoniamo le nostre futili preoccupazioni! Rimandiamo a domani i piatti da lavare, spegniamo computer e cellulari, lasciamo piangere i bambini e apriamo senza indugio l’Iliade e l’Odissea per leggere qualche passaggio ad alta voce, seduti di fronte al mare, davanti a una finestra, in cima a una montagna. Lasciamo entrare in noi i loro canti sublimi e sovraumani: ci aiuteranno a diradare la nebbia del nostro tempo!”.
Inoltre le tempistiche della pubblicazione del testo (ad aprile è uscita l’edizione francese, a giugno quella italiana) lo collocavano chiaramente come un suggerimento di lettura per la bella stagione, messaggio enfatizzato dalle principali recensioni apparse nel panorama culturale italiano, rispettivamente edite nell’inserto Tuttolibri (la Stampa) e ne la Lettura (Il Corriere della Sera).
Ma, nel passo citato sopra, a parte il riferimento al mare (che in sé rimanda immediatamente al contesto estivo), non si parla espressamente d’estate.
E, d’altra parte, “Un’estate con Omero”, oltre ad essere un’esortazione al lettore, può alludere anche all’esperienza vissuta in prima persona dall’autore. Infatti quest’ultimo confessa che, per realizzare il suo saggio, si è “segregato per un mese nelle Cicladi” e che ha “vissuto in una piccionaia sull’ isola di Tinos, di fronte a Mykons, affacciata all’Egeo”.
Il suo soggiorno, prosegue, lo “ha avvicinato alla sostanza fisica dell’Odissea e dell’Iliade”, ovvero gli ha consentito di ricostruire, per quanto possibile, la geografia dei luoghi omerici, fondamentale per la stesura dei poemi stessi: “La luce del cielo, il vento tra gli alberi, le isole della nebbia, le ombre sul mare, le tempeste: ho sentito l’eco dell’araldica antica. Ogni luogo ha il suo stemma distintivo. Quello della Grecia antica è frastagliato dal vento, trafitto di luce, drappeggiato di terre che affiorano dal mare […] Vivere nella geografia significa abbattere la distanza tra la carne del lettore e l’astrazione del testo”.
In quest’ambientazione spicca soprattutto il riferimento alla luce, elemento pervasivo di tutto lo scenario ellenico, tanto che ad essa chi scrive dedica un capitolo dal titolo emblematico, Abitare la luce: “L’Iliade e l’Odissea sfavillano di luce […] La luce inonda la vita e rallegra il mondo, ammanta i poemi di un oro impalpabile. Chiunque approdi alle sponde greche la cerca […] la luce ha una carne, una consistenza, un odore. Quando fa caldo, la si sente ronzare. Vortica tra gli alberi e rivela ogni roccia, sottolinea i rilievi, si accende di scintille sul mare”.
È evidente che un panorama come questo evoca sempre l’estate. E nella penisola greca, sempre dominata dal sole, sembra sempre estate.
Per questo vale la pena di recensire Un’estate con Omero, non solo semplicemente come un libro estivo, ma come il Libro dell’Estate, quella che può permettersi, dove il clima è favorevole (Italia e Grecia, non Paesi del Sud, come “etichettati” spesso con disprezzo, ma Paesi nel cuore del Mediterraneo, dove affondano le radici di tutta l’ Europa e della Civiltà occidentale, se ancora vogliamo attribuire un significato forte e non solo geografico a tale espressione!) di durare oltre agosto, fino a settembre e metà ottobre: e allora buona lettura, perché l’estate non è ancora finita, né mai finirà se ci immergiamo, con la guida di Tesson e di Omero, nell’Ellade, terra baciata, talora anche arsa dal sole.
Solo lì è possibile, al contempo, vivere il paradosso di godere della luce e di esserne accecati, talora quasi consumati, come ci ricordano ogni tanto i poeti: “Bagnati i polmoni di vino; infatti l’astro compie il suo giro,/ la stagione è insostenibile, ogni cosa ha sete a causa della calura, /dalle fronde la cicala stridula,/ fiorisce il cardo, ora le donne sono lascive/i maschi invece sono fiacchi, poiché Sirio brucia testa e ginocchia” (traduzione mia da Alceo).
Seguiamo allora il nostro Virgilio francese che ci accompagna fraternamente (non sono del resto nostri cugini gli abitanti d’oltralpe? Così come i greci sono nostri fratelli carnali).
Sarebbe impossibile ripercorrere tutta la ricchezza del volume che ricostruisce con sentimento, passione e solennità il mondo omerico. Ogni capitolo, infatti, è a sua volta suddiviso in tanti piccoli paragrafi, tutti dotati di un titolo.

Questa perenne e costante brevitas garantisce al testo efficacia, godibilità, e la capacità di toccare l’animo di chi legge, mettendolo in comunicazione (quasi visiva) con l’ambiente evocato dalle parole. Dovrà essere poi il lettore, pervaso da questa sana curiositas, a proseguire da solo il viaggio di cui può godere qualche assaggio grazie anche alle citazioni omeriche riportate dallo scrittore francese. Se il lettore, facendo tesoro delle indicazioni di Tesson, sarà in grado di immergersi nella lettura epica intesa come pura ricerca della Bellezza dei versi, allora egli imparerà a vivere un po’ meglio, come curato da un balsamo.
Infatti apprenderà innanzitutto che il mondo ha bisogno degli eroi per funzionare meglio, e che quelli greci risultano più “simpatici” perché costituiscono delle figure di raccordo tra la gli dei e gli uomini, figure esemplari e al contempo dotate dei difetti umani: “Se ci piace identificarci negli eroi omerici è perché nessuno è perfetto”.
I Greci aderiscono alla realtà per quella che è, imperfetta in tutte le sue componenti, anche divine: solo così essi possono rispecchiarsi in quella grande realtà che è la Natura e di cui essi sono parte insieme agli dei, che altro non sono che le personificazioni delle forze della Natura stessa.
Aderendo alla Natura o, per dirla alla greca, alla physis, ovvero a quell’unità che include tanto il processo dalla generazione che il suo risultato, i Greci impararono inoltre a non vedere mai niente oltre ciò che si dispiegava davanti ai loro occhi.
Lontana da questa concezione è, prosegue il nostro “cugino”, quella cristiana che invece ha insegnato all’uomo a scorgere sempre qualcosa di ulteriore rispetto all’hic et nunc. Gli Elleni, invece, pur accogliendo il destino loro assegnato, non restarono tuttavia inerti di fronte al suo compiersi ma, come ancora una volta testimoniano gli eroi, agirono liberamente, pur consapevoli di non riuscire a cambiarlo: e in questo risiede, forse, l’aspetto più doloroso e al contempo più dignitoso della morale greca, quale abbiamo imparato ad apprezzare dalle tragedie sorte, non a caso, nell’Ellade.
Consapevoli di questi ostacoli i Greci trovarono nella Poesia lo strumento per sopravvivere nella Memoria dei posteri e conquistare così, la loro peculiare immortalità. Senza mai credere in una vita ultraterrena (che sarebbe infatti la negazione di quella terrena), gli abitanti della regione ellenica si diedero da fare, eroicamente, per lasciare una traccia di sé, esprimendo così la propria libertà, pur prigionieri dell’anagke (necessità), impossibile da eludere!
In quale altro senso, allora, Omero ci aiuta a vivere? Proprio nel senso che ci spinge a scrollarci di dosso la continua tendenza, figlia anche della nostra educazione cristiana, di aspettarci qualcos’altro rispetto a ciò che abbiamo davanti: non mi riferisco solo all’aldilà, ma anche alla nostra esperienza di tutti i giorni.
Quante volte ci ostiniamo a vedere un significato ulteriore negli eventi che ci capitano? In un incontro, in un messaggio, nei rapporti umani; quante volte ci arrovelliamo a chiederci il perché di certi accadimenti? Quante volte ci assalgono mille dubbi inutili che ci fanno perdere solo il sorriso e il tempo?
Le cose sono quelle che sono, nella loro evidenza e non dobbiamo leggerci altro; se una cosa bella accade oggi, conviene godercela e non farci affliggere dai sensi di colpa, né tantomeno ipotizzare che sarebbe meglio rimandare a dopo in vista di una gioia maggiore: insomma è meglio un uovo oggi che una gallina domani e non ha senso interrogarci su ciò il cui controllo ci sfugge: “Non dobbiamo cercare altro rispetto a quello di cui possiamo disporre oggi. Il futuro non ci arriderà, visto che non esiste. Accontentarsi può sembrare un ripiego, una resa. Invece l’assenza di speranza i permette di apprezzare le cose presenti[…] perché sperare in un altro mondo, quando abbiamo già tutto qui e ora? Non c’è alcun bisogno di aspettare un raccolto nell’aldilà”.
La vita reale, tuttavia, è fatta di un dato ineliminabile: la guerra, di cui I’Iliade è un resoconto significativo. L’uomo inoltre cerca sempre di oltrepassare il suo ambito, il confine naturale che gli è assegnato in quanto uomo.
I Greci chiamavano questo atteggiamento con il sostantivo hybris, traducibile con tracotanza, prepotenza, arroganza. Ogni volta che l’uomo sfida la divinità diventa tracotante e merita di essere punito. Oggi, secondo Tesson, l’uomo è colpevole di hybris ogni volta che sfida la Natura, non rispettando le regole che essa impone come principio di vita. Conseguenza di questo comportamento sciagurato sono tutti i disastri naturali cui assistiamo impotenti, pur essendone noi stessi le cause. Rispetto all’umanità descritta da Omero, tuttavia, quella odierna sembra peggiore: infatti il saggista mette più volte in evidenza come in quella descritta dai poemi fosse almeno rispettato il valore dell’ospitalità, oggi invece negato a molti migranti che approdano in Europa attraverso il Mare nostrum.

Nell’ultimo capitolo Tesson riprende la sua “trattazione gioiosa” e conduce la sua dissertazione a conclusione soffermandosi sulla bellezza dei versi omerici. Rovesciando tutte le tesi degli studiosi che spiegano le scelte stilistiche dell’aedo riconducendole a questioni metriche e/o mnemotecniche, egli afferma invece che tali scelte rivelano l’essenza del multiforme mondo che il poeta-non vedente (questo, quasi per paradosso, il significato etimologico del nome Omero!) descrive.
Tutto ciò aveva un enorme valore nel contesto sociale a cui il divino cantore si riferiva, contesto basato sulla centralità della parola, alata, leggera, divina, pervasiva: “Ai tempi di Omero, invece, regnava la poesia, il verbo che era sacro. Per il poeta, sono le parole stesse che volano. Inscrivere il proprio nome nell’epopea era per un eroe il vanto supremo. Ci si radicava nella memoria degli uomini, assicurandosi una fetta di immortalità. Insomma la parola consacrava l’esistenza. Le Muse non erano forse le figlie di Mnemosine, dea della memoria, e di Zeus?”.
Oggi purtroppo tutto ciò è solo un bel ricordo perché, continua lo scrittore, alla cultura della parola si è sostituita quella dell’immagine. Ma forse un giorno torneranno quei tempi mitici! Vorrei associarmi anch’io alla speranza del nostro saggista non prima di aver richiamato alcuni fatti d’attualità.
Gli incendi che quest’estate hanno devastato la Grecia cosa sono se non una ribellione della Natura alla tracotanza umana? E la profonda crisi economica da cui la Grecia solo formalmente sta uscendo cos’è? I piani di salvataggio a cui la penisola ellenica è stata sottoposta dall’Europa per otto anni hanno lasciato una società profondamente segnata. Certo, si obietterà che questa situazione è frutto dello sperpero precedente e che gli interventi della Troika fossero il “male minore” data la situazione.
Ma al fondo di tutto ciò risiede un dato di fatto ineludibile, coincidente con l’estrema fragilità della Grecia fin dalle origini della sua storia: la Grecia terra montuosa, non adatta alla coltivazione (tanto che i Greci dell’VIII secolo a. C. migrarono verso la Sicilia e l’Italia meridionale alla ricerca di suolo da abitare e coltivare!), la Grecia arsa dal sole, la Grecia un insieme di città (le poleis) tra loro rivali… eppure è la Grecia il costante punto di riferimento a cui noi Europei e occidentali in generale guardiamo: possiamo pertanto nutrire la fiducia, ancora, in qualcosa di bello? Assicurato.
E così come i Greci facevano coincidere la prima fase dell’autunno con la tarda estate, ovvero con il periodo della pienezza della Natura, così anche noi possiamo goderci questo periodo di passaggio tra settembre e inizio ottobre in cui ci è concesso ancora il privilegio di girare con maniche corte e scarpe aperte, e al contempo il gusto di scaldarci al sole come lucertole quando i primi freddi mattutini ci fanno venire la pelle d’oca sulle braccia ancora nude. Leggendo Omero e il libro di Tesson il nostro piacere sarà più che raddoppiato. Provare per credere!
Buon settembre, buona estate e ad maiora!
Written by Filomena Gagliardi