Quarant’anni dal rapimento: Aldo Moro, un uomo solo, abbandonato al suo destino
La vicenda umana e istituzionale di Aldo Moro si sviluppò in un contesto politico non meno corrotto di quello dei nostri giorni.

Trascorsi quarant’anni dal suo rapimento (16 marzo 1978), parte della verità nascosta dietro ai fatti è ancora avvolta dal mistero.
Ma, per avere una più corretta visione d’insieme, a proposito di un evento che ha avuto ripercussioni sulle vicende politiche e sociali italiane degli anni successivi, occorre fare un balzo indietro nel tempo. Un tempo appartenuto ad un uomo di elevata statura politica.
Nato il 23 settembre 1916, dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza, Aldo Moro manifestò una spiccata inclinazione a fare della politica la sua professione. Accademico e giurista, si trasferì a Roma dalla natia Puglia, proprio per seguire la passione che lo spinse a occuparsi della cosa pubblica.
In tempi brevi emerse il suo acume per gli affari di Stato che gli aprì le porte, in primis, dei palazzi istituzionali romani, e poi di quelli internazionali.
Nel 1942 fu tra i fondatori della Democrazia Cristiana, partito di ispirazione cattolica, all’interno del quale aderì alla corrente di sinistra, mostrando così la sua propensione a problematiche di carattere democratico-sociale.
E fu proprio per conto del suo partito che, nel 1946, partecipò in prima persona all’Assemblea Costituente per contribuire a redigere la Carta Costituzionale.
Negli anni a venire aderì a ‘governi di solidarietà nazionale’, dove con una base parlamentare più ampia intendeva aprirsi al Partito Comunista Italiano, partito in netta opposizione dottrinale alla Democrazia Cristiana.
Fautore del principio del ‘compromesso storico’, in cui credeva fermamente, Aldo Moro si adoperò affinché tale soggetto politico, ideologicamente in antitesi alla forza democristiana, venisse realizzato.
Convinto della giustezza delle sue azioni andò avanti imperterrito, appoggiato da una corrente del suo partito d’appartenenza, ostacolato, invece, da alcuni detrattori che non vedevano di buon grado l’apertura verso un partito distante da quello democristiano. L’uomo, invece, credeva fermamente in quel tipo di politica che prevedeva un’apertura a sinistra, con il fine ultimo che a beneficiarne fosse il Paese.
Il leader democristiano era considerato un abile tessitore degli intrecci politici del suo tempo, un teorico della mediazione, colui che riusciva a cogliere ragioni comuni anche tra forze politiche contrapposte, soprattutto lì, dove era necessario imbastire una trattativa di non facile intesa.
Era consapevole che il suo modo di fare la politica fosse inviso agli Stati Uniti, che in quegli anni, nella persona dell’ex segretario di Stato Henry Kissinger, non nutrivano simpatia per lui. E, che in più di un’occasione ebbero modo di esprimere le sue perplessità a proposito dell’operato del politico italiano.
Nonostante le critiche che gli vennero rivolte, Moro continuò per la strada intrapresa, dando dimostrazione di notevole coraggio.
“Ci rimproverate per il Cile. Ci rimproverereste ancora di più se non facessimo niente per impedire che i comunisti giungano al potere in Italia o in altri Paesi dell’Europa occidentale.” ‒ H. Kissinger

Si racconta che a Moro, in occasione di una sua visita ufficiale, venne rivolto un duro avvertimento, quasi una minaccia, in virtù proprio della sua apertura a posizioni di sinistra, fatto questo del tutto osteggiato dall’America che non vedeva di buon grado un’intromissione del Partito Comunista Italiano negli affari politici italiani.
Ma, tornando al sistema di governo intrapreso da Moro, l’uomo era ben conscio dei rischi che correva nel portare avanti il suo progetto, che in parte giustificava l’antipatia che l’America nutriva per lui.
Gli americani da sempre hanno ‘fiutato’ e cercato con tutti i mezzi di respingere un eventuale pericolo comunista nei paesi loro alleati, fin dal suo flebile manifestarsi. Tanto che, nel 1970, i servizi segreti americani approntarono un dossier Top Secret, di cui in Italia si verrà a conoscenza soltanto dopo la morte di Moro. Dossier in cui venivano illustrati i modi per destabilizzare quei paesi amici che potevano essere oggetto di interesse da parte dei comunisti.
A questo punto non si può fare a meno di pensare che le Brigate Rosse, quando il 16 marzo 1978 rapirono Moro fecero un favore agli Stati Uniti, in quanto il loro obiettivo coincideva perfettamente, che era poi quello di destabilizzare lo Stato. Obiettivo raggiunto, quindi, perché il Partito Comunista uscì dall’aria governativa per tornare a occupare un ruolo all’opposizione.
Ma, per riallacciarci all’argomento principe di questa trattazione, occorre ricordare che subito dopo il suo sequestro, avvenuto con modalità militari da parte di un commando di dieci uomini che assaltò l’auto su cui viaggiava, e durante il quale gli uomini della sua scorta furono tutti falcidiati, Moro venne imprigionato nella cosiddetta ‘prigione del popolo’, definizione affibbiata dalle BR alla stanzetta dove fu segregato.
Durante i cinquantacinque giorni della sua prigionia, Moro scrisse più di un appello affinché gli fosse risparmiata la vita.
“In entrambi i delicati posti ricoperti l’attuale ministro della Difesa ha avuto contatti diretti e fiduciari con il mondo americano. Vi è forse, nel tener duro contro di me, un’indicazione americana o tedesca?”
Nel frattempo, la capitale fu assediata da posti di blocco, nella speranza, alquanto vana, di rintracciare il luogo dove Moro era nascosto. Mentre il Consiglio dei ministri approntava una serie di misure antiterrorismo.
Ma dopo dieci giorni dal sequestro le indagini erano in un vicolo cieco: si ricostruì la dinamica dell’agguato, si interrogarono i possibili testimoni, ma dell’uomo politico nessuna traccia, come fosse svanito nel nulla.
La vicenda si marchiò di tinte fosche, perché il leader continuava a inviare missive dal ‘carcere’, lettere che suscitarono un grande clamore, dove chiedeva con forza che venisse aperta una trattativa con i terroristi per lo scambio di alcuni prigionieri detenuti nelle carceri italiane, come richiesto dai suoi carcerieri.
Ma la risposta, da parte delle istituzioni arrivò puntuale e precisa: la strada da percorrere era soltanto una, quella della fermezza; mentre perplessità si esprimevano sullo stato mentale dell’uomo.
Ma lui, tramite un ulteriore messaggio ribadì la sua posizione di capro espiatorio.

Lanciò accuse verso coloro che non volevano ascoltare le sue ragioni, verso i suoi compagni di partito e gli altri big della politica, fino a coinvolgere anche il papa Paolo VI.
Ma la linea della fermezza prevalse su ogni tipo di trattativa, nonostante si continuasse a tergiversare.
Moro, però, era ormai un uomo abbandonato a se stesso, sentì crollargli il mondo addosso all’idea di perdere i suoi affetti più cari, esternò accorato la propria amarezza, il profondo risentimento verso una società al cui sviluppo aveva contribuito con passione e che in quei giorni sembrava volersi sbarazzare senza troppi complimenti di un uomo scomodo. La sua prigionia fu lunga e tribolata e costellata da messaggi disperati in cui chiedeva ai vecchi amici di partito e anche a coloro che ricoprivano ruoli istituzionali di rilievo di operare per la sua liberazione.
Si parlò a un certo punto di una forma di delirio che aveva colpito l’uomo Moro, non più in grado di pensare lucidamente.
“Ed infine è doveroso aggiungere, in questo momento supremo, che se la scorta non fosse stata, per ragioni amministrative, del tutto al di sotto delle esigenze della situazione, io forse non sarei qui”.
In una delle ultime lettere, Moro si disse costernato, considerò ridicole, se non provocatorie, le dichiarazioni dei suoi colleghi che lo volevano come un uomo incapace di esprimere con chiarezza il proprio pensiero.
Poi, nel suo ultimo messaggio, in veste di ‘protagonista politico, così come era stato definito dalle BR, indirizzato alla sua famiglia, in uno struggente monologo si lasciò andare e dettò il suo testamento nel quale diede disposizioni in merito.
Al contrario di ciò che i politici dichiararono, la sua famiglia sostenne che il congiunto non era affatto poco lucido, anzi, le sue richieste erano più che giustificate dal desiderio di vedere aprirsi una trattativa che lo rendesse l’uomo libero che era prima del rapimento. Mentre gli investigatori continuavano a brancolare nel buio la vicenda assumeva i toni del giallo, un giallo di non facile soluzione, che si sviluppò in un contesto reale dove era in gioco la vita di un uomo, prima che di un politico; che potrebbe aver sì ricoperto ruoli anche discutibili, ma senza dubbio era stato un politico più illuminato di molti altri.
Dopo un lungo tergiversare arriva la sentenza definitiva dell’imputato Moro, che ne stabilisce la colpevolezza.
“Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato”.
Trascorsi cinquantacinque giorni dal momento in cui fu rapito in via Fani, strada drammaticamente associata al grave episodio, il corpo di Moro fu ritrovato a bordo di un’auto rossa, il 9 maggio. Accartocciato su se stesso, come in un ultimo disperato tentativo di proteggere il suo corpo.
“Il corpo di Aldo Moro è in una Renault rossa in via Caetani”.

Forse, il progetto di uccidere il leader politico c’era fin dall’inizio, anche se la verità storica non è mai stata rivelata da nessuno dei componenti dell’agguato, in seguito catturati e messi in carcere.
Era diventato un personaggio scomodo il politico Moro con la sua marcata propensione verso sinistra, invisa anche ai suoi compagni di partito? È d’obbligo porsi questa domanda in una vicenda costellata di numerose ombre e poche luci. Anche se la veridicità dei fatti è rimasta nascosta in mezzo a frammenti di testimonianze non molto credibili.
Certo è che il delitto Moro è stato un delitto di chiara matrice politica, messo in atto dal gruppo armato delle Brigate Rosse, probabilmente aiutate da altri, non esclusa la mafia. Dunque una vicenda scabrosa, quella del delitto Moro, anche per i numerosi dubbi che si lascia appresso. Perché come sono andate realmente le cose rimane un altro dei misteri della storia d’Italia.
“Pensare male degli altri è peccato, però spesso ci si azzecca…”
Frase rimasta negli annali della politica ed emblematica, perché dà la misura delle trame oscure in cui si consumò la politica a cavallo degli anni ’70 e ’80. Frase che dice poco in sé, ma estrapolata dal contesto in cui è inserita e a seconda dell’interpretazione che si dà ad essa, racchiude una sua verità.
Dopo la morte di Aldo Moro molte ombre avrebbero dovuto essere chiarite e molti fili intricati essere dipanati. Oggi, invece, i numerosi interrogativi sollevati dal delitto Moro sono rimasti senza alcuna risposta.
Written by Carolina Colombi