Intervista di Irene Gianeselli alla scrittrice Chiara Valerio: vicino al cuore selvaggio della matematica

Chiara Valerio, nasce a Scauri nel 1978. Vive e lavora a Roma, è redattrice di Nuovi Argomenti, ha scritto per il teatro e per la radio, collabora con “ll Sole 24 Ore” e “l’Unità”. Curatrice del programma “Ad alta voce” di Rai Radio 3 con Anna Antonelli, Fabiana Carobolante e Lorenzo Pavolini.

Chiara Valerio

Ha collaborato con la trasmissione culturale “Pane quotidiano” di Rai 3. È consulente editoriale della Casa Editrice Nottetempo per cui cura cura la collana di nuove voci italiane narrativa.it. Numerose le sue pubblicazioni tra cui A complicare le cose (Robin 2003), Ognuno sta solo (Perrone 2007), Spiaggia libera tutti (Laterza 2010). Con Nottetempo ha pubblicato Nessuna scuola mi consola e il romanzo La gioia piccola d’esser quasi salvi (entrambi nel 2009) e ha tradotto e curato le edizioni italiane di Flush (2012) e Freshwater (2013) di Virginia Woolf.

Per Einaudi ha pubblicato Almanacco del giorno prima (2014) e Storia umana della matematica (2016) della quale racconta ai lettori di Oubliette Magazine in questa intervista. Nell’ottobre 2016 è stata designata direttrice culturale della nuova fiera del libro milanese Tempo di libri.

 

I.G. : Ti ringrazio per la disponibilità. Tu scrivi che la matematica dà potere ad una immaginazione che non è metamorfosi ma è invenzione. Secondo te si può dire che questo romanzo, che di fatto non è un romanzo, si possa definire un manifesto dell’umanità di questo millennio?

Chiara Valerio: Non ne ho idea, avrei anche paura. Nel libro non c’è tensione educativa. Forse il manifesto ha in sé delle proposizioni che non mi interessano e non mi sento in grado di dare. Penso che sia un romanzo sicuramente assai contemporaneo e c’è all’interno lo spazio della biografia di chi legge, questo sì. Il libro è figlio di questo tempo. Un tempo talmente vecchio che mentre lo leggo da lettore mi ricorda quelle suggestioni bizantine quando le epoche si mischiavano, cambiavano i linguaggi, e cambiando i linguaggi cambiavano anche le storie che erano state già raccontate. Da questo punto di vista è molto contemporaneo ma di una contemporaneità che somiglia a un’epoca bizantina dove appunto le forme seguono i colori, le prose seguono le metriche, un libro miscellaneo.

 

I.G.: Avrei definito il tuo libro manifesto dell’umanità perché leggendolo mi è parso inevitabile pensare al Calvino delle Lezioni americane che scrive «Ciascuno di noi non è altro se non una combinatoria di esperienze, di informazioni, di letture, e di immaginazione. Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili dove tutto può essere rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili». Già dal titolo che hai scelto Storia umana della matematica non ho potuto fare altro che dirmi: “Se ci fosse la settima lezione sarebbe dedicata all’umanità, perché oggi dell’umanità non si ha più cura e non possiamo più permetterci questo disinteresse”.

Chiara Valerio

Chiara Valerio: Questa è l’ossessione di chi legge il libro. È una buonissima osservazione critica che sta dalla parte di chi legge e questo è molto bello perché significa che Storia umana della matematica  ha lo spazio per il lettore e in questo caso ha lo spazio tuo. Comprendo che la tua giovinezza abbia un’esigenza di affermare l’umanità delle cose per cui se l’umanità c’è, allora cresce e se l’umanità cresce,  allora c’è la possibilità, una speranza, un orizzonte. Se lo hai aggiunto tu, c’è già. I libri sono esattamente questo, sono quello che uno ci legge dentro indipendentemente dall’intenzione dell’autore. Da questo punto di vista la letteratura e il diritto sono molto assonanti perché l’interpretazione autentica del legislatore non solo non esiste, ma è equiparabile all’intenzione autentica di chi legge. Mi piacerebbe che il settimo pannello delle lezioni americane di Calvino fosse l’umanità. Non sono certa che lo volesse lui, non sono certa di quello che voglio io, ma in sé, indipendentemente da questa volontà, questo è il risultato. E va be lo stesso.

 

I.G.: Davvero tu passi attraverso leggerezza, molteplicità sia in matematica che in letteratura. Quello che mi ha colpito è che spesso fai riferimento al teatro che è tutte le declinazioni possibili di come pensare in un modo altro la realtà.

Chiara Valerio: È solo quello l’esercizio da fare: come pensare in modo altro, quanto alla leggerezza è sempre quella cosa molto evidente nei danzatori: tu vedi i movimenti leggiadri e senza nessuna fatica, poi guardi i loro piedi e sono nodosi come i mostri di Mordor che vengono rifatti dagli alberi. Quindi la leggerezza è sempre un artificio che ti deve far dimenticare il processo con cui ci si è arrivati. Questo mi piace, mi piacerebbe riuscirci sempre e mi dispiace quando non ci riesco, però la tensione (per cui vale il discorso fatto prima sull’intenzione) è sicuramente quella di dare l’impressione di leggerezza e anche di leggiadria, di non fare fatica. Finché non si fa fatica, il tempo non passa, la fatica è una funzione del tempo mentre invece la leggerezza no, è una funzione dello spazio e lo occupa.

 

I.G.: Volevo farti due domande attraverso quattro parole diverse. Il primo binomio è simbolo-matematica. In che rapporto stanno per te?

Chiara Valerio: Penso subito a Baudelaire: l’uomo passa attraverso foreste di simboli. E penso che il matematico come ogni uomo cerca di riordinare questa cosa con più improntitudine, con maggiore ambizione di un uomo che cerca di farne formule, teoremi e modelli che sono poi impressioni ed espressioni di vita.

 

I.G.: Assoluto e relatività?

Chiara Valerio

Chiara Valerio: Se penso ai sentimenti umani penso all’amore, verità assoluta che è tale relativamente alla persona che incontri e con cui ti prendi e poi ti distacchi. Quindi assoluto e relatività avendo molto a che fare con il tempo hanno molto a che fare con l’amore. 

 

I.G.: Anche attraverso il tuo libro ho trovato tra assoluto e relatività lo stesso legame con l’amore. Un’altra cosa molto importante che dici nel libro riguarda lo spazio. Tu dici: Realtà al di fuori dal nostro spirito è lo spazio, non a priori. Ora secondo te come bisognerebbe imparare a guardare lo spazio che ci circonda?

Chiara Valerio: Nonostante lo bastoni, sono abbastanza dalla parte di Kant. Sicuramente lo spazio è una cosa che deriva dall’esperienza, è una misurazione che noi prendiamo, e per misurare partiamo dal corpo e c’è sempre quella cosa che ancora ha a che fare con l’amore. Lo dice bene Clarice Lispector in Vicino al cuore selvaggio quando la protagonista incontra Ottavio e dice «Ottavio era stato esattamente le pareti di uno spazio vuoto». Quindi quando c’è la limitazione tu riesci a misurare lo spazio. In un’epoca di etere in cui ovviamente il corpo è completamente dismesso perché tutta la fatica che bisogna fare è esattamente quella di spostare noi gli oggetti perché il resto invece non si può spostare. Come quando Andy Warhol diceva «Il corpo servirà solo per andare alle feste e fare sesso». Quando questa dimensione del corpo viene obliata quello che bisogna fare è capire come misurare lo spazio intorno.

 

I.G.: Riguardo il tempo, scrivi che si ha nostalgia dei fatti non ancora avvenuti. Ci stiamo muovendo molto attorno al tuo modo di pensare il tempo, ma cos’è questo tempo?

Chiara Valerio: È quello dei bambini. I bambini non dividono il tempo, per loro esistono le cose presenti che sono quelle che desiderano. Le cose che desiderano sono tutte le cose che vedono. Il bambino non ha una dimensione temporale. Quando stai con un bambino un po’ di tempo, dopo un po’ percepisce come fosse un animale che tu te ne stai andando, e allora si incupisce e si ritrae da solo. In quello ha esattamente una nostalgia di una cosa che non è ancora avvenuta perché tu sei ancora lì, lui ha nostalgia di te nonostante tu sia ancora lì quindi la nostalgia dei bambini è delle cose presenti e delle cose non ancora avvenute e questo mi piace moltissimo. È una cosa che sintetizza molto bene secondo me Marina Cvetaeva quando dice «In questa stanza ci sarà sempre una sedia vuota di te».

 

I.G.: Viene da pensare a quello che scrive Peter Brook. Questa domanda riguarda il limite. In Morte di un matematico napoletano c’è una scena in cui Renato Cacioppoli (Carlo Cecchi) per rispondere ad un giovane studente che durante la lezione gli chiede per quale motivo Einstein si è opposto alla teoria dei quanti, dice: “Il mondo delle verità fisiche come di quelle matematiche è chiuso come una sfera. Ogni nuova visione se è profonda è una fuga da questa specie di prigione. Si possono avere delle resistenze, oppure non se ne può vedere proprio la ragione”. Cos’è per te il limite?

Chiara Valerio

Chiara Valerio: Il limite in matematica è un concetto abbastanza bello perché ovviamente ti permette di andare a studiare in maniera puntuale cose che tu non vedi, perché sono fenomeni all’infinito, sono fenomeni asintotici. Da un’altra parte per me l’esempio migliore di che cosa fa il limite, di una funzione limite rimane per sempre Jonathan Franzen che discutendo con David Foster Wallace di come funziona la letteratura dice: nessuno giocherebbe a tennis senza la rete. Quindi il limite è qualcosa che ti obbliga a pensare ancora una volta allo spazio intorno a te e a come utilizzare quello spazio dati quei limiti. Ha ancora a che fare con quella visione di Lispector quando dice che le persone di cui t’innamori ti limitano lo spazio intorno, quindi il limite è in realtà una cosa che ritengo sostanzialmente positiva perché la puoi scavalcare. Quindi puoi fuggire, se c’è un limite, c’è un orizzonte in realtà.

 

I.G.: Come è nato il progetto di questo libro?

Chiara Valerio: Non era un progetto, non sono stata mai un matematico solido. Avevo una sola ossessione: mi chiedevo perché le difficoltà non fossero dei concetti  matematici  ma del linguaggio in cui i concetti matematici erano espressi e mi chiedevo perché le difficoltà del linguaggio passassero sulle difficoltà del concetto. Per rispondere a questa domanda bisogna sempre capire quale dimensione di analogia e di metafora la matematica consente o i linguaggi formali consentono. Questa era la mia tesi di post dottorato: ho considerato cento anni dal 1841, quando è stato standardizzato il linguaggio formale, al 1951, quando cominciano ad apparire le dimostrazioni direttamente al calcolatore. Qui il linguaggio parlato non deve più raccontare solo il linguaggio formale ma deve raccontare due salti cioè deve raccontare il linguaggio della macchina. Come se la letteratura non potesse più raccontare una matematica che non era scritta in un linguaggio formale e che aveva un solo passo di distanza dal linguaggio parlato, ma dovesse descrivere il linguaggio macchina che ha due passi di distanza dal linguaggio parlato. In questo passaggio di due linguaggi formali, di due alfabeti più chiaramente, si perdono delle cose e quello che perdi è la capacità di dire in linguaggio parlato qualcosa che si sta facendo in matematica. Quindi parli di una matematica vecchia, cosa che non era successa sicuramente fino al 1841 dove le cose erano più mischiate. Sicuramente il libro nasce da questo. Nasce come intenzione da quel periodo del 2008-2009, è un processo che trova l’esigenza di essere scritto quando nasce il figlio di mia sorella, mio nipote e capisco che mio padre, mia madre, suo padre e sua madre stanno lì intorno a raccontargli i concetti matematici o i concetti  letterari come se fossero giocattoli, quindi io capisco di essere vissuta in un mondo dove il principio di autorità non esisteva. Esistevano le parole e le parole venivano a te con la stessa ontologia dei pomodori, quindi non ne avevi  paura.

 

I.G. Notavo che c’è molta vicinanza con la questione della traduzione e della lingua in Ortega y Gasset: le nostre lingue sono un anacronismo. Di solito si fa sempre distinzione, anche con snobismo, fra scienza e letteratura. Questo libro dimostra il contrario.

Chiara Valerio: Il letterato che non ha mai studiato la scienza non può capire la scienza,  perciò consiglio a tutti di studiare almeno due anni di discipline esatte. Solo se la studi capisci che esiste questa cosa difficile per tutti: la matematica somiglia alla terza prova di Indiana Jones nell’Ultima Crociata. Solo saltando con un balzo a piè pari dalla testa del leone troverai il Graal. Quell’atto di fede per cui passerai un tempo lunghissimo a fare quei conti di cui subito non capisci la natura, la portata. Fatto quello, forse ce la fai. Forse non arrivi. Se studi un linguaggio più complesso  puoi poi interessanti a un linguaggio più facile: perché il linguaggio più facile è quello in cui parli. Quello più facile ha una naturalezza che il linguaggio simbolico non ha. L’altra osservazione di Ortega y Gasset è che la  Storia è per l’uomo ciò che la natura è per l’animale. Oggettivamente la fatica intellettuale contemporanea dovrebbe essere quella di attribuire alla definizione di Storia anche i concetti scientifici. Non ho mai visto nessuno provare vergogna ed essere sanzionato per non conoscere il teorema di Pitagora  invece ho visto provare vergogna ed essere sanzionato chi non riconosce l’incipit della Divida Commedia. È un problema che deriva da una impostazione politica e culturale crociana. È impensabile mettere un limite alla conoscenza. Nulla è impedito a nessuno. Soprattutto a chi ha fatto un percorso di studi in cui ha dovuto confrontarsi con un linguaggio non naturale e in quel linguaggio imparare concetti e raccontare cose.  Può succedere anche a chi studia il cinese o il giapponese, l’arabo o l’ebraico perché è costretto a un tale cambiamento alfabetico da dovercisi totalmente calare. Questi alfabeti camminano sulle gambe degli esseri umani, proprio come l’alfabeto matematico anche se quest’ultimo in maniera meno evidente.

 

Written by Irene Gianeselli

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *