Intervista di Irene Gianeselli all’attore Orlando Cinque: l’esperienza dell’attore
Orlando Cinque, attore e regista napoletano, nasce a Piano di Sorrento nel 1972. Studia alla Scuola del Teatro Stabile di Genova dove si diploma nel 1998. Lavora in seguito in tutta Italia con numerosi registi tra cui Matthias Langhoff, Marco Sciaccaluga, Andrea De Rosa, Elio De Capitani, Anton Milenin, Ferdinando Bruni, Juri Ferrini, Andrè Ruth Shammah, Marco Baliani, Fabrizio Parenti, Renato Carpentieri.
Ha studiato, inoltre, con Valerio Binasco, Claudio Morganti, Elizabeth Kemp, Davide Iodice, Bruce Myers, Alfonso Santagata, Francis Pardelhian. Nel 2009 fonda HANGAR-O’, gruppo di ricerca e produzione teatrale, con il quale realizza la sua prima regia: “Quai Ouest” di Bernard-Marie Koltès, selezionato per l’edizione 2010 del Napoli Fringe Festival. Nel gennaio del 2011 ha liberamente adattato, diretto e interpretato “Caligola” di Albert Camus e ha portato in scena “Caligola On Air” al teatro Galleria Toledo. Nel 2012 ha diretto, interpretato e co-prodotto: “Creditori” di August Strindberg, co-prodotto e presentato al Teatro Bellini di Napoli, con un enorme successo di pubblico e di critica. Dal 2014 al 2016 è in scena con il “Sindaco di Rione Sanità” di Eduardo De Filippo con Eros Pagni, diretto da M. Sciaccaluga.
Dal 2008 in poi interpreta il ruolo di Trentadenari nella serie-tv “Romanzo Criminale”. Ha partecipato inoltre a numerose produzioni televisive tra cui “Distretto di Polizia” (2011), “Il Clan dei camorristi”(2011), la serie tv europea ideata dall’americano Tom Fontana “I Borgia”(2012), “Un passo dal Cielo” (2013), “Un mondo nuovo” (2014), “Il sindaco Pescatore” (2015). Nel 2012 è al cinema con “Io viaggio sola” diretto da Maria Sole Tognazzi.
Orlando Cinque racconta ai lettori di Oubliette Magazine il proprio percorso artistico, la poetica e la nuova produzione di cui firma la regia e che interpreta: “Calcedonio” di Manlio Santanelli in scena dal 17 al 22 gennaio al Teatro Mercadante – sala Ridotto. Orlando Cinque si trova in questi giorni a Napoli per le prove di Calcedonio e cominciamo subito l’intervista parlando proprio della città.
Orlando Cinque: Oggi un delirio mai visto a Napoli. Credo dipenda dai turisti, quest’anno ce ne sono tantissimi. Per fortuna Napoli è cresciuta in questi anni, da sola e misteriosamente, meglio così, c’è gente per la strada, però c’è il rischio che accada quello che è successo a Venezia: turisti che vagano senza meta in una città che invece ha tesori immensi. Meglio così rispetto a quindici anni fa, comunque. Se si impara a viverla, Napoli culturalmente è sicuramente una gran cosa e questo vale anche riguardo l’orizzonte teatrale, poi però qualcosa si guasta nell’organizzare tutta questa enorme quantità di energie e di proposte: basta guardare il Festival. All’inizio sembrava una occasione unica per la città che partecipava realmente all’evento, adesso invece sembra un contenitore senza una chiara identità né direzione. Credo che l’ultimo Napoli Teatro Festival sia stato il peggiore in assoluto, ma ho fiducia in Ruggero Cappuccio, conosce bene il territorio e sa mediare (mediare non è una bella parola, ma è indispensabile per organizzare eventi in grado di accontentare tutti). È un peccato, lo dico da napoletano, che il Festival sia diventato un qualcosa che deve dare un obolo (spesso fittizio) a chi lavora a Napoli. Doveva essere un festival italiano, all’inizio doveva rimanere a Napoli solo per tre anni e girare per tutta Italia, invece è rimasto qui ed ha solo aumentato il servilismo corrompendo e incattivendo l’ambiente teatrale ma senza imporre un reale progetto culturale.
I.G.: Rimaniamo a Napoli. Dal 17 al 22 gennaio sarai in scena con Calcedonio di Manlio Santanelli di cui firmi la regia e che interpreti. Come hai scelto e condotto il progetto?
Orlando Cinque: Calcedonio intanto è una commissione, che vuol dire, vuol dire che non ho scelto il testo personalmente. Era però un mio grande desiderio lavorare al Teatro Stabile di Napoli perché è il teatro della mia città, il teatro dove ho visto gli spettacoli che mi hanno fatto venire voglia di fare l’attore. E non c’ero mai riuscito. Da otto anni sono tornato a Napoli e qui ho lavorato, ma anche se c’erano stati degli avvicinamenti con lo Stabile non era mai andato in porto nulla. Negli ultimi due anni mi avevano chiesto di fare delle proposte, e io ho proposto, ma andava sempre tutto a finire in una bolla di sapone. L’anno scorso allora ho detto, va bene, commissionatemi un testo. Così mi hanno affidato un testo di Manlio Santanelli, autore napoletano, molto rappresentato all’estero a cui volevano fare un omaggio. In realtà è stata molto dure perché non posso mettere in scena nulla se non facendolo passare attraverso di me, attraverso la mia esperienza di essere umano e di teatrante. Un testo che non scegli è difficilissimo da far passare nel tuo mondo. Però questo sforzo è stato utilissimo perché ti fa capire un sacco di cose: capisci meglio quali sono i tuoi limiti, ti definisci, capisci chi sei e fino a che punto puoi arrivare. È un testo del 1989 il cui tema è la memoria e la perdita della giovinezza con il carico di speranza e apertura agli altri che la giovinezza ha. Quindi tre amici che vivono questa condizione esistenziale, a fine cena si trovano a discutere ancora ma gli argomenti scarseggiano, perciò tirano fuori questo comune amico, Calcedonio che è un po’ il simbolo di tutte le cose che sono scomparse e cercano in qualche modo di esorcizzare questa presenza cercando di definirne solo l’età, la data di nascita e per dargli un contesto temporale cominciano a fare dei calcoli che inevitabilmente si legano alla storia, quella con la “S” maiuscola dalla morte di Pasolini alla Rivoluzione francese.
I.G.: A proposito di Pasolini e Storia, l’intellettuale friulano diceva spesso di non temere il futuro ma il presente per la mancanza di memoria di questo Paese.
Orlando Cinque: La memoria. Questo è un tema che mi piace molto del testo. Manlio ha un modo particolare di affrontare il teatro perché in realtà lui tende a minimizzare: da un lato dice il mio è un teatro boulevardiero poi però aggiunge che Calcedonio è un omaggio al teatro dell’assurdo. In questo testo ci sono entrambi gli aspetti. C’è come una doppia dimensione, sia dentro il testo che sotto, più sotto che dentro, ed è questa le vera fatica per l’attore, c’è molto di più di quanto dice. Il rapporto con la memoria lui lo pone sul piano privato: in scena ci sono tre borghesi che saccheggiano la Storia, quella libresca, quella che si impara al Liceo, poi in realtà hanno anche attraversato gli Anni in cui si credeva di poter cambiare il mondo, anni che adesso sembrano lontanissimi, gli Anni ’60 in cui per esempio era un fenomeno di moda, di massa, andare a vedere il cinema “alternativo”, quei cinema d’essai dove i film erano “coreani, curdi, brasiliani ma tutti spietatamente in lingua originale”. Era una moda, ma questo anche se nel flusso ti apriva alla diversità. Però i tre personaggi che sono passati in questo flusso e ne sono stati attraversati non hanno sviluppato poi una vera coscienza politica. Il testo, dicevo è del 1989, all’epoca io avevo diciassette anni e vissi la caduta del muro di Berlino come una catastrofe, non era difficile prevedere tutto quello che c’è stato dopo. Fu un momento necessario di libertà per chi viveva ad Est ma fu terribile per il mondo perché lo spauracchio del socialismo reale crollava e il capitalismo poteva avere vita facile e di questo noi ne paghiamo ancora le conseguenze. Perciò ho immaginato che la cena avvenisse la sera della caduta del Muro. In qualche modo questi personaggi sono la risposta alla paura di Pasolini della perdita di memoria. Il rapporto con la caduta del muro è un rapporto di tre persone che hanno vissuto il movimento del ’68 ma lo hanno già rifiutato, hanno nascosto e dimenticato, hanno già occultato la loro precedente posizione. Hanno già cercato e trovato rifugio in una vita comoda e borghese. Calcedonio è lo spettro che hanno cercato di dimenticare e ignorare perché rappresenta il loro rimosso coscienziale e politico. Di fatto la perdita della giovinezza coincide con la perdita di ideali che però non sono entrati nella carne e nel sangue di questi personaggi, perché altrimenti non avrebbero potuto tradirli. Ma in qualche modo anche se li sfiorano perché sospinti dal fiume della moda, qualcosa di quegli ideali è rimasto dentro di loro e ancora si muove nelle viscere e questa è una speranza che ho voluto leggere tra le righe.
I.G.: Come collocheresti Santanelli nella drammaturgia napoletana?
Orlando Cinque: Onestamente non so risponderti. Ho troppo rispetto per Santanelli e per Eduardo per poterti rispondere. Anche perché avendo conosciuto Santanelli credo che si arrabbierebbe se provassi a rispondere, perché so che è napoletano fino al midollo. Però ha un rapporto complesso con la propria napoletanità, come me del resto. Calcedonio viene messo in scena infatti per una sua forte volontà, perché di solito vengono messi in scena i suoi testi in napoletano che sono più fruibili e divertenti. E che lui abbia scelto Calcedonio la dice lunga. Però posso dirti che non c’è quasi nulla del teatro di Eduardo in lui. Quella di Eduardo è una scrittura attoriale, la leggi e la fai. I testi di Santanelli sono molto impegnativi e richiedono un lavoro di regia e interpretazione anche al di là di quello che c’è nel testo. Io addirittura in Calcedonio ho letto delle cose che lui dice non esistano, ma io sono convinto invece del contrario. Ha una scrittura oscura che ha dei rimandi psicanalitici forti non giustificabili naturalisticamente. Questo in effetti c’è anche in Eduardo, pensiamo a “Natale in Casa Cupiello”, o allo stesso “Sindaco di Rione Sanità”, ma in Eduardo c’è sempre la chiave naturalistica. In Santanelli, no. Quello che rimane del teatro napoletano è la leggerezza, la facilità della battuta, ma il suo è sempre un teatro intellettuale anche quando cerca come nel “Baciamano” di scendere nei bassifondi con una lingua più popolare e settecentesca, anche in quel caso si sente che il linguaggio nasce dallo studio di un intellettuale. Santanelli non può appartenere ad una categoria. A volte somiglia a Pinter, altre a Feydeau e lo sforzo atroce come attore e regista è proprio quello di trovare un modo per stare in scena che permetta di attraversare tutto e di non perdere nulla di queste diverse dimensioni.
I.G.: A proposito di drammaturgia napoletana e di Eduardo. Lo scorso anno si è conclusa la tournée del “Sindaco di rione sanità”. Puoi parlarcene?
Orlando Cinque: Intanto sono felice di dirti che molto probabilmente lo spettacolo verrà ripreso, è ancora molto richiesto. È stato un bellissimo, straordinario e commovente ritorno a casa, pur essendo napoletano e avendo cominciato in provincia, in un ambiente di ricerca mi sono formato all’Accademia di Genova, quindi questa è la prima cosa che ho fatto in napoletano. Ero terrorizzato, abbiamo debuttato al Teatro San Ferdinando che è il teatro di Eduardo. Per anni ho cercato maestri tra i russi, gli americani, nei testi sacri degli attori e invece in Eduardo c’è già tutto. È stata una lezione enorme per me vedere lavorare Eros Pagni in quel ruolo ogni sera, una lezione enorme di cui sarò grato in eterno. Un attore smisurato, è il primo non napoletano che si è misurato con un ruolo così complesso e lo ha fatto con una umiltà, una naturalezza straordinarie. Io mi ricordo la prima prova, la prima lettura. Ero scettico perché pensavo che un attore non napoletano non potesse fare un protagonista eduardiano, confidavo nella bravura di Eros, ma ero scettico perché poi saremmo venuti a Napoli e Napoli è dura, non fa sconti a nessuno. La prima lettura non me la scorderò mai perché lui aveva trovato un modo di dare il napoletano che non lo imitava ma c’era tutto, lui aveva già tutto dell’anima napoletana. Quando ci sono attori così con testi così è facilissimo fare teatro, ogni sera ho imparato tantissimo da Eros. Essere in questo spettacolo è stata una grande possibilità anche perché qui a Napoli nessuno m’avrebbe mai fatto fare Eduardo altrimenti, perché non mi sono formato qui e quindi non sono considerato un attore di tradizione.
I.G.: A proposito di Maestri. Un Maestro con cui hai fatto teatro è Renato Carpentieri.
Orlando Cinque: Renato per me è un padre, anche se non ci ho lavorato così tanto, ma è una delle persone a cui voglio più bene nel teatro. L’ho incontrato in due momenti diversi della mia vita di attore. Il primo momento è stato nel periodo in cui facevo l’Accademia a Genova e stavo pensando di mollare e Renato mi ha ridato la gioia di fare teatro e poi quando ho avuto l’onore di essere diretto da lui ne “La sala dei guardiani” da Durrenmat e la cosa bella di Renato è che quando ci lavori lui ha un modo anche un po’ diretto, giocoso e ti sembra di non far nulla perché di fatto ti dirige e basta, poi dopo qualche anno senti la sua voce che ti guida e allora ti rendi conto di quanto ti abbia insegnato. È un attore straordinario che non ha avuto quanto si meritava, è un attore tra i più bravi che c’è in Italia. Renato è un maestro, uno dei pochi che ci sono ancora, ma se tu lo chiami «Maestro» lui ti risponde «Sempre allievo». Renato Carpentieri meriterebbe un teatro suo, con una sua scuola e invece non è così perché è anche un attore onesto che non si vende. Renato è un attore generosissimo.
I.G.: Hai studiato alla Scuola di recitazione del Teatro Stabile di Genova, puoi parlarci degli anni della tua formazione?
Orlando Cinque: Sono stati anni molto duri perché venivo dal sud, avevo vissuto un anno a Bari e un po’ a Reggio Calabria e Genova era la prima città del nord in cui mi stabilivo. Io adoro i genovesi, ma all’inizio non sono aperti come la gente del sud. Naturalmente quando cominciano a conoscerti ti accolgono col cuore. È una Scuola ottima quella di Genova, ancora oggi utilizzo quello che ho imparato lì. C’è stato un momento molto duro per me perché la mia maestra, una grandissima maestra, Anna Laura Messeri, quell’anno mi disse per provocarmi che secondo lei non volevo fare l’attore ma volevo scrivere. Sono stato malissimo ma la devo ringraziare più di tutti perché nelle sue griglie mi ha insegnato ad essere libero, creativo, quando ero a Scuola pensavo fosse una insegnante dittatoriale, in realtà dopo avere capito determinati principi mi sono reso conto che mi ha insegnato che la libertà si trova anche dentro una gabbia. Io non ho avuto in lei una Maestra di recitazione, ma una Maestra d’Arte. Anna Laura Messeri ha dedicato tutta la sua vita al teatro, come veramente poche persone fanno rimanendo sempre nell’ombra. Ed è vero che gli attori usciti dalla Scuola di Genova sono tutti di un livello molto alto e questo lo si deve essenzialmente ad Anna Laura Messeri. È una grande maestra, ma l’ho capito dieci anni dopo essere uscito dalla Scuola, che sarebbe bello portasse il suo nome, perché i tempi di acquisizione di questa difficilissima arte sono molto lunghi, ma in Italia vanno avanti quelli che rientrano nei bandi under 35. Ora, questi bandi hanno per lo più generato mostri, si finisce per pompare ragazzini, magari di talento, ma che non hanno ancora avuto il tempo di formarsi, di apprendere i rudimenti del mestiere ma che fondano Compagnie tra di loro, tra coetanei. Io sono entrato in Compagnia a ventisei anni e ho imparato anche da chi aveva sessant’anni. Il teatro è un mestiere artigianale, non te lo puoi inventare. Non so che senso abbia considerarsi registi solo perché si vince un bando. È assurdo che si vada avanti con questi registi di tendenza che risolvono gli spettacoli scoprendo il culo agli attori, ma questi attori giustificano poi la presenza dei critici che a loro volta fingono di scoprire la moda del momento. Credo si stia facendo l’errore degli Anni ’70, quando a Napoli, per esempio, c’era una serie di gruppi di ricerca che non andavano volutamente a vedere Eduardo recitare perché volevano liberarsi dei padri. Qual è stato il risultato di questo rifiuto, quali attori poi sono usciti da tutto quel fermento che pure era utile ed eccezionale? Quali scuole hanno generato questi registi? Carlo Cecchi ha preso la lezione di Eduardo e l’ha sviluppata ed è infatti uno dei pochi ad avere avuto degli allievi a cui tramandare una idea teatrale perché poi fosse sviluppata. Se osservi il sistema teatrale russo ti rendi conto che la tradizione veniva continuamente sviluppata, ma prima veniva appresa e tramandata. In Russia non c’è un regista che non sia anche attore. Personalmente ho appreso moltissimo da un allievo di Vasiliev e lo stesso Vasiliev è in linea diretta allievo di una allieva di Stanislavskij. Quindi vedi una catena fortissima di successione teatrale. Però voglio avere speranze per il futuro. Mi ricordo sempre quello che diceva Peter Brook sulla sua condizione di giovane regista: i grandi registi erano morti, non c’erano maestri e lui ha dovuto fare teatro da solo, liberamente ma con la necessità di piacere anche al pubblico perciò, forse è vero, forse sarebbe meglio abolire il FUS piuttosto che utilizzarlo così perché è meglio evitare di dare soldi a pioggia senza un discorso culturale. Tanto vale impostare un lavoro commerciale per dieci anni e consentire invece a chi vuole fare altro di avere un proprio spazio comunque. Dopo dieci anni di commedie la gente si stuferebbe e comincerebbe a chiederti Ibsen. Bisogna chiedersi quale sarà il pubblico del teatro tra dieci anni, invece si sta tranquilli, convinti che ci saranno sempre gli abbonati e gli si propinano spettacoli scadenti, del resto ci sono abituati. Io invece sono convinto esista gente che vuole andare a teatro per fruire di qualcosa che non sia soltanto intrattenimento, magari un qualcosa di non così folgorante e illuminante, ma qualcosa che non sia intrattenimento e basta. Solo che se non si forma una generazione di attori e registi in grado di fare le due cose, cioè di badare alla questione economica-commerciale e a quella artistica, il teatro morirà con gli ultimi abbonati. È chiaro che il finanziamento statale è a termine, prima o poi finirà e quali attori rimarranno? Quelli che ormai under 35 non lo saranno più ma non avranno più i bandi su cui contare? E poi certo Latella, che dopo aver ucciso tutti i padri, a settant’anni, sarà costretto a farlo lui, il padre.
I.G.: Tu hai alle spalle già diverse esperienze di regia. Qual è la poetica che persegui quando fai teatro e sei regista?
Orlando Cinque: Il mio obiettivo, quello che ho nel teatro, è fare una esperienza che mi cambi, che cambi me e cambi le persone che lavorano con me. Avviare un processo e per questo mi danno, e logoro anche chi lavora con me, e magari durante le prove mi si odia come è successo a Roberta Caronia in “Creditori” di Strindberg, ma adesso lei è una mia grande amica. Ed entrambi non vediamo l’ora di lavorare ancora insieme. Perché? Perché penso che oggi non ha senso fare teatro se non puoi fare un percorso e per compiere questo percorso devi innanzitutto fare un corpo a corpo con il testo dove magari cerchi cose che non ci sono nemmeno, ma che danno a te la possibilità, l’urgenza per andare in scena. Per me l’atto di andare in scena non è naturale, non che io non sia egocentrico o narcisista, lo sono eccome, ma ho un rispetto sacro per l’andare in scena. Un attore deve fare suo il testo e il regista ancora di più. Il testo diventa una mappa per attraversare il mondo. Tutta questa sofferenza, questo dolore perché in qualche modo ti devi scorticare per me nel risultato finale non si deve vedere. Lo spettacolo non deve poi aggredire, deve coinvolgere lo spettatore. Non sopporto i registi che ti gettano addosso e ti impongono la loro visione del mondo con la volontà di scioccarti. Sei tu che se ce la fai devi scioccarti. Non sai perché lo spettatore viene a teatro, magari ci viene solo per passare un’ora e mezza insieme ad altre persone per questo devi fare in modo che siano loro a prendere alcune delle cose che tu dai. Bisogna cercare di creare una partitura, un percorso per cui ci siano diversi livelli di lettura. La cosa che ha distrutto il teatro in questi anni è quella volontà di dire una cosa perché sia il critico a capirla, invece per me ogni spettatore deve avere la possibilità di capire quello che sto facendo. Non è possibile andare in scena se tu non muovi dentro di te vari riferimenti. Ogni volta che tu vai in scena metti in gioco tutto il tuo essere uomo in questo momento e attore in questo momento. Io cerco di andare sempre più verso un atto teatrale che unisca il mio percorso esistenziale, spirituale con quello teatrale ma non nel senso estetico. È la ricerca di una esperienza che è comunque dolorosa inizialmente ma che poi deve terminare con leggerezza. Del resto questo lo diceva anche Jouvet e in quest’epoca più che mai o il teatro è un atto spirituale o non è nulla. Non significa nulla parlare di teatro di regia o di teatro politico se poi manca lo spirito e si cerca solo consenso. Il teatro deve essere il luogo della parola, per il resto c’è il cinema, la televisione ed è anche giusto che sia cosi. Ma il teatro deve essere il luogo della parola.
I.G.: Nella tua carriera hai avuto modo di lavorare spesso anche in televisione. Come è stato il tuo lavoro di attore con questo mezzo?
Orlando Cinque: Per Romanzo Criminale ho lavorato con grande applicazione sul personaggio, Trentadenari, per quello poi quando l’ho fatto e l’ho visto molto ridotto mi sono quasi dispiaciuto, però il prodotto è perfetto, quindi Stefano Sollima ha avuto ragione e la sua scelta non si può criticare. Però l’ho fatto con una certa incoscienza, anche se a volte la gente mi riconosce per quel ruolo diciamo che sia io che la mia ex agente (che all’epoca si occupava solo di Neri Marcorè e delle proprie sedute di yoga) avremmo potuto sfruttare meglio quell’occasione. L’ultimo lavoro, quello del Sindaco Pescatore è stato un’esperienza bellissima, veramente perché ho conosciuto tutta la famiglia di Vassallo, il figlio e il suo braccio destro, Eugenio Lombardi, che ho poi interpretato nel film. Un mondo nuovo è sicuramente l’esperienza del cuore. Ho incontrato un regista, Alberto Negrin, che se pur con modi burberi e originali mi ha dato una enorme fiducia e mi ha insegnato tantissimo e poi ho lavorato con un gruppo di attori veramente straordinario. Siamo andati via dall’isola che eravamo tutti, veramente tutti amici e ancora ci teniamo in contatto. In Un mondo nuovo raccontavamo una storia bellissima, gli americani ci avrebbero fatto una serie lunghissima e i tre del Manifesto di Ventotene hanno fatto cose veramente straordinarie. La loro biografia è veramente speciale, anche nelle piccole cose. Si pensa a figure eroiche, ma di eroico e mitico non hanno molto, sono uomini straordinari proprio nella loro semplicità, nella loro presa di posizione forte, nella loro grande consapevolezza. Oggi nessuno di noi saprebbe opporsi così, ci si vende per molto meno e loro per questo sono eroi. Ma al di là di questo erano persone, esseri umani interessanti. È chiaro che tutto questo non poteva venir fuori in una sola puntata. In Italia ci ricordiamo di questi personaggi solo nei momenti in cui ci torna utile. Napolitano ha voluto a tutti i costi questa cosa perché c’era una ricorrenza e perché bisogna tirar su l’affezione all’Europa, anche se l’Europa immaginata nel Manifesto di Ventotene era completamente diversa. Era un Manifesto per certi aspetti pesantemente socialista in cui si affermava, per esempio, che non si può fare una moneta unica se poi non c’è un unica politica economica. Oggi sarebbero stati considerati dei rivoluzionari o dei gufi. Temo si siano rivoltati nella tomba quando hanno proiettato la puntata davanti alla Merkel. Spero non ce ne vogliano.
I.G.: Progetti futuri?
Orlando Cinque: Il prossimo progetto è un film. Una storia bellissima, neanche io la conoscevo, di Mario Francese, un giornalista che è stato ucciso nel ’79, è stato il primo giornalista che ha scoperto e fatto i nomi dei corleonesi quando stavano diventando dominanti. Era un uomo straordinario, coraggioso, simpatico, ucciso sotto casa e ovviamente l’inchiesta viene insabbiata. Giuseppe, il figlio all’epoca dell’omicidio dodicenne, vent’anni dopo coinvolge il fratello Giulio e fanno riaprire il caso arrivando ad una parziale sentenza e restituzione della dignità e dell’onore, del livello umano e professionale del padre. Giuseppe poi dopo questo sforzo tremendo, dopo avere visto orrori terribili si suiciderà e io interpreterò il fratello maggiore, Giulio, che nel film fa capire le ragioni del suicidio. La sceneggiatura di Claudio Fava è molto bella e il regista è Michele Alhaique e ne sono felicissimo, è un bravissimo attore e una bellissima persona.
Written by Irene Gianeselli
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