Life After Death: l’intervista alla scrittrice inglese Virginia Woolf
«Tutto quel che potevo fare era offrirvi un’opinione su una questione piuttosto secondaria: una donna deve avere soldi e una stanza tutta per sé, se vuole scrivere romanzi; il che, come vedrete, lascia insoluto il grosso problema della vera natura della donna e del romanzo. Mi sono sottratta al dovere di giungere a una conclusione su questi due problemi: le donne e il romanzo restano, per quel che mi riguarda, problemi insoluti.»

Mentre leggo le parole contenute in Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, medito su ciò che la scrittrice intende comunicare al suo lettore. La sua è molto più di una riflessione sul rapporto fra la donna e la scrittura. È, infatti, un trattato ironico, ma anche personalissimo in cui unisce l’analisi sociale alla satira.
Mi soffermo ancora un po’ su quelle parole, poi decido di proseguire la lettura. All’improvviso una figura evanescente si avvicina a me.
«Avrò le allucinazioni», mi dico.
Eppure quella sicurezza vacilla nel momento in cui la figura si fa più distinta.
È lei, Virginia Woolf, che mi osserva con quello sguardo malinconico che la caratterizza, ma al tempo stesso pare che voglia comunicarmi qualcosa.
«Signora Woolf, che ci fa lei qui? Sto forse sognando?», le chiedo fra l’imbarazzo e una punta di curiosità.
«Tranquilla, ora ti spiego tutto…»
E così nasce questa nuova intervista per la rubrica Life After Death, in cui Virginia Woolf ne è finalmente la protagonista. Per un po’ ci farà compagnia. A voi auguro una buona lettura.
M.D.T.: Signora Woolf, intanto la ringrazio per avermi concesso questa intervista. Sa, ho letto i suoi libri, e sono interessata al rapporto fra le donne e la letteratura.
Virginia Woolf: Vuole chiedermi del rapporto fra le donne e la letteratura? Bene, deve sapere che la mia è stata un’attività intensa. Fin da giovanissima ho iniziato a pormi delle domande, a meditare su me stessa, sulla mia condizione di donna all’interno – o all’esterno? – della società. Come lei sicuramente sa, per tutta la mia vita mi sono impegnata per la parità dei diritti fra i due sessi, e sono lieta che a oggi le donne abbiano raggiunto risultati importanti, sebbene la strada da percorrere non sia terminata. Ci sono ancora diverse problematiche da dover chiarire, fra le quali il lavoro. E di questo vorrei parlare. Vede, penso che la donna abbia la sua dignità e il diritto di poter scegliere la sua strada. All’epoca per le donne era impensabile esercitare la professione di scrittrice: «Una donna deve avere dei soldi e una stanza tutta per sé, se vuole scrivere romanzi», sostengo nel mio saggio Una stanza tutta per sé. Quello che voglio dire è che la donna deve essere libera di esprimere se stessa, ma per farlo prima di tutto ha bisogno di essere riconosciuta all’interno del panorama culturale.
M.D.T.: Certo, la donna ne ha percorsa di strada dal 1791, quando la drammaturga francese Olympe de Gouges pubblicò la nota Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, in cui auspicava all’uguaglianza fra l’uomo e la donna.
Virginia Woolf: Come ho già detto, la donna è stata capace di ottenere numerose conquiste socioculturali, la strada è lunga… tuttavia, sono felice di sapere che il mio saggio – e soprattutto il mio pensiero – sia diventato importante per le femministe. In un certo senso è vero, io ho dato uno spiraglio alle donne affinché potessero rivendicare i loro diritti. L’ho fatto ripercorrendo la storia delle donne, tentando di dare una voce al genere femminile, in una società patriarcale e maschilista. L’ho fatto con la migliore arma che la cultura possieda: l’ironia. È solo con questa che le parole arrivano a tutti.
M.D.T.: Lei non solo ripercorre la storia delle donne, ma anche quella delle scrittrici. Parla di Aphra Behn, di Jane Austen, delle sorelle Brontë e finisce con George Eliot.
Virginia Woolf: Sì, il mio obiettivo è di far capire al lettore che la coscienza dovrebbe essere androgina, insomma bisogna ottenere la libertà intellettuale. Per la donna è stato difficile liberarsi da quello che io chiamo «men’s sentence», dalla cultura e dal pensiero maschilista. Dimostrare rancore e arrabbiarsi non serve a nulla, sebbene nella letteratura femminile traspaia tutto ciò. Eppure, l’unica scrittrice che tenta una strada diversa è proprio Jane Austen, lei, infatti, non commette questo errore. Nel periodo in cui ho scritto Una stanza tutta per sé, pensavo al futuro, e mi dicevo che: «Fra cent’anni le donne non saranno più il sesso protetto. Logicamente condivideranno tutte le attività e tutti gli sforzi che una volta erano stati loro negati».
M.D.T.: Parliamo della sua produzione letteraria. Qual è l’opera che sente maggiormente sua?
Virginia Woolf: È una domanda difficile questa, poiché in un certo senso ogni opera ha una sua dignità. Tuttavia, verso la fine degli anni Venti avevo già elaborato una mia visione della vita e dell’io, che comportarono la scelta del monologo interiore. Con questo espediente ho provato a umanizzare i personaggi, a renderli più fluidi e a raggiungere la loro personalità. Pensavo che i personaggi dei romanzi realistici tradizionali fossero costruiti secondo una nozione troppo superficiale dell’io umano. Pertanto, il mio obiettivo era di esprimere sia il mutamento del personaggio, sia la continuità dell’identità individuale. Per tutti questi motivi, credo che uno dei romanzi cui sono più legata è La signora Dalloway.
M.D.T.: Diversi lettori di Oubliette avranno sicuramente letto La signora Dalloway, tuttavia sarebbe interessante conoscere la genesi del romanzo direttamente dalle sue parole.
Virginia Woolf: Sebbene il romanzo sia stato pubblicato nel 1925, il personaggio di Clarissa Dalloway è apparso due anni prima nella mia mente. A parte la tecnica utilizzata per scrivere il mio libro, il monologo interiore, volevo narrare la storia di una signora dei quartieri alti londinesi. Per me costituisce una tappa fondamentale, poiché è stato il primo romanzo nel quale ho attinto dalla mia esperienza di donna, senza dovermi più preoccupare dei complessi d’inferiorità. Questo è forse il motivo per cui sono così legata. Clarissa Dalloway, una signora sulla cinquantina, indebolita dalla sua malattia avverte dolorosamente il passare del tempo e della vita. È stato un espediente affinché io potessi comunicare il mio senso di estasi nei confronti della vita stessa, e una maggiore consapevolezza del mio vissuto: «ancora possedeva quel dono: di essere, esistere, e tutto riunire nell’attimo fuggente», scrivo nel romanzo. A me interessava indagare nell’animo umano, entrare in empatia con i miei personaggi.
M.D.T.: E nello stesso anno inizia la stesura di un altro romanzo, Gita al faro, considerato il suo capolavoro.
Virginia Woolf: Fino a quarant’anni e oltre fui ossessionata dalla presenza di mia madre… Poi un giorno, mentre attraversavo Tavistock Square, pensai Al faro: con grande, involontaria urgenza. Una cosa ne suscitava un’altra… Che cosa aveva mosso quell’effervescenza? Non ne ho idea. Ma scrissi il libro molto rapidamente, e quando l’ebbi scritto, l’ossessione cessò. Adesso non la sento più la voce di mia madre. Non la vedo. Probabilmente feci da sola quello che gli psicoanalisti fanno ai pazienti. Diedi espressione a qualche emozione antica e profonda.
M.D.T.: Che cosa ci può dire, invece, del libro Tre ghinee?
Virginia Woolf: In realtà, ho scritto quel libro per due ragioni fondamentali: l’idea che, a causa della millenaria esclusione sociale femminile, esiste una cultura delle donne che è estraniata da quella maschile; l’altra, invece, considera l’esclusione sociale come una salvezza. In fondo, le donne non hanno partecipato attivamente agli orrori della guerra, non come soldati almeno, perciò sono estranee alla cultura della violenza. Eppure durante gli anni Trenta il fascismo, maschilista e aggressivo, cancellò ogni ricordo appartenuto al femminismo in Europa, così non ritornai più sulla faccenda. Come sapete le mie idee si sono ripresentate molto tempo dopo, negli anni Settanta.
M.D.T.: Per un momento fra me e la grande scrittrice scende il silenzio, e quegli istanti diventano motivo di riflessione. Poi mi accingo a rivolgerle l’ultima domanda. Virginia, forse le sembrerà una domanda inappropriata, ma vorrei sapere da lei che cosa dovrebbe fare una donna per vivere serenamente la sua vita.
Virginia Woolf: Per rispondere a questa domanda, riporto una frase a me cara che fa parte di Una stanza tutta per sé: «Senza nessun bisogno di affrettarsi. Nessun bisogno di mandare scintille. Nessun bisogno di essere altri che se stessi».
Written by Maila Daniela Tritto
Un pensiero su “Life After Death: l’intervista alla scrittrice inglese Virginia Woolf”