“Ipotesi corpo”, poemetto di Enzo Campi: nulla è più sexy della parola che esprime la nostra gettatezza nel mondo
“Ipotesi Corpo” di Enzo Campi. Pregiato e pregevole poemetto di riflessione sul corpo, come subiectum, gettato sotto, freudianamente sottoposto al polipaio indistinto di pulsioni che ci abita.
Il corpo è il nostro limite e il nostro tormento, la parte strutturale invalicabile dell’esistenza, il corpo come la casa nella quale abitiamo che ci delimita nonostante gli impulsi di fuga e di destrutturazione attraverso la parola.
L’autore molto elegantemente e callidamente gioca con il linguaggio, che tende il corpo in infinita ricerca, in un das dasein mai pago perché percorso dall’interrogativo sempre presente e cogente circa la meta, la teleologia del nostro esistere.
Cosa è mai il corpo se non il nostro carcere, il carcere dell’anima, come asseriva Platone? La nostra parte indistruttibile che ci contiene e ci delimita mentre altri infiniti mondi desideranti si agitano dentro e ci pungolano ci spingono fuori di noi, alla ricerca dell’altro, in cui rispecchiarsi per la frazione di un secondo o per tutta la vita.
Sento un leopardiano malessere che nasce dalla percezione del corpo come limite dentro il quale si agita il desiderio che non vuole infinitamente capire, ma infinitamente sentire. Così l’autore attraverso la forza della pulsione desiderante si spinge fuori, in eiaculazione, nell’appagamento della pulsione di vita, per dirla con Freud, ma il corpo si sfilaccia cede, si perde, annaspa, si ritrova, sempre uguale e sempre diverso strutturato e destrutturato, parte tangibile ,ineludibile e sofferente, sempre in opposizione /posizione.
Mentre la postura parla, dice della sua storia, del fascino del passato cui non è dato sottrarsi, una storia da risignificare con gli organi rattrappiti e pure rifallificati con le stigmate sempre vive e scoperte, quelle della colpa originaria, eppure reiterata “nella pelle conciata trattata ritrattata”.
Un lavoro di scavo, di ricerca, di risignificazione, denso, di forte impatto emotivo, dentro il quale bascula la parola lacaniana che struttura e destruttura, ricolloca, impone, sottolinea, gestualizza, posturizza, esprime il livore che riposa sull’umida vulva.
Un testo altamente sessualizzato, il cui la parola si fa tramite del desiderio sessuale, perché l’eros è anzitutto linguaggio, nulla è più sexy della parola, che esprime la nostra gettatezza nel mondo, quello che fummo prima di essere scaraventati qui, quello che siamo dentro la realtà frantumata e pur coesa di un corpo con la sua forza di deiezione, di uscita da sé per ritornare in se stesso.
Da psicoanalista dico che il testo in modo molto evocativo costringe ad una seria rimeditazione sul corpo, come la scatola entro cui il nostro ego smisurato soffre nel sentirsi circoscritto e coatto a ripetere meccanismi da cui cerca di svincolarsi, ma che gli stanno attaccati come il pene alla vulva.
Uso simili metafore sessuali perché mi ispiro alla natura magmatica di un testo che è un glomerio di emozioni che spingono dentro e gettano fuori nella volontà sana di trasformare il limite umano in èlan vitale, perché è spingendoci fuori che possiamo trovare un senso al nostro esistere, nonostante l’inesorabilità del recedere in se ipsum.
Written by Giovanna Albi