Resoconto del concerto di Gionata Mirai al Fabrik, Cagliari
Resoconto del concerto del 30 dicembre 2011 al Fabrik.
L’antivigilia di capodanno ha tenuto in serbo per me, e per il pubblico del Fabrik, uno scenario raccolto, familiare, direi quasi da colonna sonora cinematografica. Il locale si è ben prestato all’opera, con le sue tende rosse, i soffitti bassi, l’aria calda, le luci soffuse. Il tepore delle vacanze di fine anno. Tutto sembrava un presepe, e noi piccoli piccoli li dentro, a farne parte.
Gionata Mirai (Super Elastic Bubble Plastic/Il Teatro Degli Orrori) presenta un disco inusuale, autobiografico e tutto in soggettiva. Per sola chitarra dodici corde, si intitola “Allusioni“. E sono proprio soffi di rimembranze, più o meno celate, quelle che emergono dagli infiniti arpeggi in fingerpicking della sua Taylor mancina.
Come un treno nella notte, percorrendo diramazioni provinciali, in ferrovie ormai poco battute. Calcando le unghie allungate, sporche di carciofo amaro, consumate dalle centinaia di occhi che le hanno viste suonare. Spingendo il naso, scavando il mento verso la smorfia facciale, alla ricerca dell’evocazione giusta, nella sequela di accordi serrati che all’orecchio si trasformano in immagini.
Il chitarrista non guarda avanti, ma dentro di se, toccando l’aspetto medievale, quello roots americano, la bossanova equatoriale. I nodi, la sospirata claudicante melodia notturna alleniana, figlia di un certo Django, le radici di vite, non sradicabili, delle origini (e del presente) sarde. Uno spaccato tonale dall’autore di questi ricchissimi manufatti sonori.
Si può ancora vendere l’anima al diavolo, come Robert Johnson? Gionata Mirai si accompagna solo di un accordatore, per proporci la sua natura raccolta, in attesa “di fare più casino” con qualcun altro dei suoi progetti.
Tiene il tempo col piede. Sull’orlo del dubbio che sia interpretato da Max Mazzotta, o Vincent Cassel, inizio a viaggiare al suo stesso ritmo, fermata per fermata, percorrendo tutto il suo disco solista. Sentendomi dire dal macchinista, per quasi ognuna delle otto tappe, un “non so cos’è”. Provando a capire se davvero non ci sia qualche supporto di violino e organo, lì sotto, o non sia solo la tensione delle corde a dare l’effetto banjo, i feedback bassi, gli slide, curve brusche sul percorso scosceso. Siamo lontani come la Sierra Nevada di un Eddie Vedder da pellicola.
Nella manciata di improvvisazioni/pièces del virtuoso Gionata c’è il “Dead man” younghiano, la verità notturna e pessimista di Warren Ellis e Nick Cave, la gamella e l’insonnia di un hobo, i chiari di luna shakespereani, le minacce siciliane. Un dialogo impervio con “Non è un paese per vecchi” dei fratelli Coen. Gli accenni a una composizione propria di Nick Drake, pur senza voce.
C’è la citta di Cagliari, Shibuya e Yukiko, “citati” nel pezzo “ETBOST“. E infine c’è la cassa di risonanza, la gomma da masticare, gli occhi, le basette, l’anima, il blues, le mani instancabili e sempre mobili.
Per ultime, due cornici minuscole, buttate giù salendo sul traghetto, in partenza, con l’ukulele. Ci farebbe sorridere qualsiasi movimento di quello strumento da taschino.
È la ninna nanna per una notte meravigliosamente scura. Ma luminosa al tempo stesso.
Gionata beve un sorso d’acqua e saluta.
Lo faccio anche io. Buon anno, ragazzi.
Foto di Paola Corrias (http://www.flickr.com/photos/paolacorrias/)
Testo di Alessandro Pilia (http://www.facebook.com/profile.php?id=1422829837)
Info Gionata Mirai:
http://it-it.facebook.com/Gionata.Mirai
http://shop.latempesta.org/product/gionata-mirai-allusioni
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