Resoconto del concerto di Mompestofaest + Number H + Desert Hype, allo Zero, Cagliari
Resoconto del concerto del 22 dicembre 2011 allo Zero, di Cagliari.
Non posso frequentare sempre lo stesso posto, la stessa scena, le stesse macchiazze di birra sul pavimento di linoleum su cui vedi li sputazzi di chissà quale epatitico. Sono tornato troppe volte dai locali del centro disgustando l’eventualità di poggiare gli scarponi sul pavimento di camera mia. Per scordare tutto ciò, ho deciso di andare allo Zero, un posto à la page, per vedermi un altro pò di sporcizia. Diversa. Sono anche questioni di par condicio (e fischi forte chi ha sentito questa espressione meno di una settimana fa). Scavalco il parcheggio con un caddozzo dal volume da Radio Maria, la cancellata, tende, tendoni e tendine: si apre “Touch me I’m sick” dei Mudhoney. Siamo di fronte a una frontiera che segna il suo limite al di là dell’Asse Mediano.
Avevo sentito i Mompestophaest un botto di volte in tutto l’hinterland cagliaritano. Sono di quei gruppi che necessariamente suonano nella fascia di terra compresa fra città e provincia, zozzura industriale e letame abbondante. Loro sono la miriade di palazzoni acciaio e cemento buttati lì, un pò a caso e un pò per soldi, dove prima era tutta campagna, mucche e zanzare. Terra (che non vuole essere) di nessuno perché grigia, sofferente, desolata. Come le bestie che si scacciano via di casa, per certi localetti non hanno il volume adatto e alle feste di paese ci sarebbero potuti passare solo una ventina di anni fa, quando, non si sa perché, l’eroina andava forte anche, e anzi soprattutto, in centri abitati con meno di mille abitanti.
Il trio nirvaniano ha presentato il primo omonimo disco con Lorenzo, il nuovo batterista. Hanno registrato due annetti fa, con una formazione quasi cantautoriale. E anche se la scrittura di tutti i pezzi è mascherata da distorsioni, arrangiamenti pescati dal miglior periodo grunge/stoner, bacchettate di un italiano che dovendosi piegare ai canoni di un genere risulta quasi incompresibile, forse volutamente, è tutto qui il nocciolo di questa musica. Ivano Lampis, col supporto dell’ormai emigrato Andrea Puddu, ha scritto e inciso una piccola pietra miliare dell’espressionismo di provincia, tra influenze enormi e vicissitudini personali. Qui ci sono testi e melodie, non è musica fatta tanto per farsi notare su un palco. Mompestofaest.
Il concerto: Nicola prova continuamente al basso “Shake your blood” dei Probot, ed è proprio quello l’effetto che fa la sua mano sulle corde, scontrandosi con la “Golden brown” che Ivano prova alla chitarra. E’ un pò una pressa di riferimenti che chiarisce la situazione: batterie scarne e prevalenti su piatti e tamburi bassi, con parecchi ritmi tribali, 4/4 drittissimi ma comunque ricchi di stop & go; una voce all’acquaragia, bagnata di vino in bottiglia di plastica e diecimila prove in sala, prepotentemente impegnata tra il destreggiarsi nel portare avanti i pezzi e tirare verso di se la strumentazione, che non necessita di effetti che non siano overdrive, distorsion, headbanging e rutti. Ampio spazio per assoli acidi e basici e qualche tirata southern da bordello di periferia.
Gli ho preso il disco e non mi pento di aver speso cinque miseri euro su roba che girerà sul lettore per un bel pezzo: la 90’s “Vanilla“, la ballata “Mr. Pink!“, l’irriverente “Pesci a 4 piste“, la biografica “Anarcolessia” sono tanto macchine d’epoca tirate a lucido quanto taxi sgangherati che ti portano da casa al vicolo peggiore dell’isola in meno di tre minuti. John Fogerty offrirebbe da bere a questi ragazzi. E lui di provincia qualcosa ne sa.
Un piccolo intermezzo con “Check my brain” degli ultimi Alice In Chains (ma non si nota la differenza) ed entrano in scena i Number H. Totale cambio di prospettiva. Rimanendo nei sobborghi di Seattle, facciamoci un giro nel palazzone in cui prova qualcun’altro. E in un ipotetico confronto tra correnti, la contrapposizione fra lo stile pulito di Mike McReady/Stone Gossard dei Pearl Jam e Mark Arm/Steve Turner dei già citati Mudhoney. Botte da orbi, ma i gusti sono gusti.
I Number H ci tengono a precisare quanto gli anni ottanta siano stati uno schifo ma, paradossalmente, sembrano proprio uscire da quel filone che metteva sempre l’apostrofo nel proprio nome. O che faceva le ballatone da tipa col super pullover oversize (altri due fischi per termini in disuso). Siamo all’ultimo stadio dell’hair metal, certo non becero come gli Europe, ci mancherebbe, ma il tono giusto per stare in una pubblicità del Gatorade. Abbastanza funk, ma ascoltiamo anche i Black Sabbath, sembrano sostenere a ogni nuovo brano. Ma c’è la necessità di qualcosa di simile in questo concerto? A mio parere: no.
I Number H sono buoni, precisi e vitaminici. Ma la tecnica non basta. Quando suonano non stanno male, anzi si compiacciono. Riescono a far si che la parola rock divenga standard, da pub, accademica. Sottofondo. E quando la musica è da sottofondo non può essere rock, sarebbe un ossimoro star seduti ondeggiando. Ma queste amare parole, forse esagerate, ve le dice uno che non sopporta i Soundgarden, le estensioni vocali mache, gli assoloni con la faccia di Zakk Wylde in vena Pride & Glory o il wah usato a stravizio di Tom Morello. E manco le cover band. È raro che ascolti il settimo disco di qualcuno, figursi i bei tempi andati rivisitati da. Odio i mensili specializzati tipo “Percussioni oggi“, “Les Paul che passione!” o “Bassista si, ma a 5 corde“. Insomma, già che ci sono odio anche l’aglio a pezzo intero nel soffritto.
I Desert Hype sono freschi freschi. Si sono formati l’estate scorsa e hanno già buttato fuori un EP con tre pezzi. Mirko Deiana, dopo l’esperienza dei Mudskills, si rifà una vita con questo trio saturo di suoni, melodie e freakettonate. Oltre al suo impressionante vestiario, mi sorprende l’affinità di timbro vocale tra Andrea Demurtas ed Eleonora Rocca, anche se contaminato da probabili ascolti di Queens Of The Stone Age (e tutta la cricca del Rancho De La Luna) ma anche Muse, Garbage. Pure il primo Marilyn Manson. Di sicuro una voce che ha di androgino quanto di garage. E colpisce dritto le corde di un live che è intrattenimento puro.
I Desert Hype mi piacciono per un motivo: hanno la capacità di stupirmi. E non blatero solo di cose d’impatto come un cantante con un Precision in mano, quanto di arrangiamenti ricchi di fantasia, mai scontati o stupidamente chiusi in quella brutta parola che è “genere”. Giri circolari e cambi di tempo graduali, un fluire sonoro di dinamiche di gruppo sbilanciate, soprattutto nei volumi, ma comunque efficace. Sono croccanti, come in “Miss Maid“o equilibristici, come in “Crooner“.
Cosa si può fare con un vecchio Big Muff e qualche MXR? Qualche groove da spallata, soprattutto se supportati da un’ottima ritmica, che non si basa solo sul sostegno, ma che contribuisce in modo attivo al dispiegarsi dei passaggi, dell’armonia e dell’arricchimento. Si cambia umore decine di volte nello stessa canzone e il bello è che non ci sono assoli, ma al massimo riffazzi volteggianti. Ed è questo il punto di forza. Sembra quasi di fare un giro sulle montagne russe, viene da dire tutto quello che ci ha insegnato “Helter skelter“.
I Desert Hype sono orecchiabili, è questo che ti fotte durante un loro live. Nel giro del secondo ritornello ti ritrovi a canticchiare la prima strofa. Accade in buona parte dei pezzi. C’è una perfetta alchimia che attraversa tutto l’alternative, prevalentemente americano, ma bagnato di influenze inglesi e per questo riconoscibile, ma poco definibile.
Viene da dire di andare su soundcloud e ascoltarseli, oppure di prendere il cd al banchetto. Non mi basta un megafono per far capire che certa musica va supportata anche in tempi di scaricamento selvaggio. Come si fa a non comprare un disco di gente che mette titoli come “Never eat avocado” “Funk your butt“o “Shakin’ ass upon the asphalt“?
Written by Alessandro Pilia
Foto di Paola Corrias
Info
Reblogged this on i cittadini prima di tutto.
Avere la presunzione di piacere a chiunque è pura utopia, verosimilmente stupidità: i gusti sono tali, anche quelli musicali, e variano enormemente da persona a persona anche in relazione alle proprie esigenze, emozioni e sensazioni. Volendo attingere dalla corrente di pensiero che da qualche tempo ha preso piede nel mondo della scienza, si può quindi affermare che anche i gusti musicali subiscono l’influenza del nostro patrimonio genetico e dall’ambiente in cui siamo nati e cresciuti… questione di neurotrasmettitori e loro specifici recettori…insomma, decide il nostro inconscio cosa ci piace e cosa no, anche in fatto di musica.
Alcune cose tuttavia non sono soggettive ed istintive come i suddetti gusti musicali; per esempio BUTTARE DELIBERATAMENTE FANGO SU QUALCUNO è un’esperienza oggettiva, facilmente riconoscibile ma difficilmente (?) riconducibile, per la quale il sopraccitato inconscio non ha molto a che fare…in quel caso è la parte conscia del nostro intelletto che prende le redini in mano, e trae (o dovrebbe trarre) vantaggio dalla corteccia prefrontale, una sorta di “interfaccia emotiva” che ci relaziona al mondo.
Vista questa premessa e con animo assolutamente sereno, data la provenienza delle critiche, vorremmo sottoporvi una “recensione” che abbiamo ricevuto in riferimento alla serata del 22 Dicembre allo Zero Club di via Calamattia a Cagliari, durante la quale abbiamo diviso il palco con gli amici Mompestofaest e Desert Hype:
http://oubliettemagazine.com/2011/12/24/resoconto-del-concerto-di-mompestofaest-number-h-desert-hype-allo-zero-cagliari/
A primo acchito, ci ha colpito come un treno la scarsa professionalità di una persona che si era presentata con la richiesta di un “Permesso Stampa” (evidentemente proferire la parola “Permesso” seguita dalla parola “Stampa” conferisce un certo tono)…pensiamo che parlare di “Permesso Stampa” in una manifestazione in cui il ticket di ingresso è di 2 euro sia un pochino esagerato/fuori luogo…pensiamo che lo spirito sarebbe dovuto essere quello di sostenere la scena cagliaritana, non quello di stilare una classifica da “becera” assemblea musicale di uno sgangherato liceo di periferia…
Ricordiamo per i più distratti che alla manifestazione erano presenti degli artisti che hanno esposto le proprie opere…abbiamo trovato indelicato il fatto che non siano stati citati…è umano avere simpatie e amicizie, ma non si lascia il lavoro a metà…
Ciò che ci ha dato da pensare riguardo la professionalità del nostro (re)censore è stato il totale disinteresse nei confronti della storia del gruppo…storia che per quanto riguarda i nostri amici Mompestofaest e Desert Hype è sicuramente stata approfondita dal suddetto. Ci piacerebbe quindi informarlo solo ora, visto che non ha avuto nemmeno il buon gusto di fingere interesse per il gruppo il giorno del concerto, che i Number H, attivi ormai da 6 anni nella scena Cagliaritana, hanno sul groppone già due album: il primo, autoprodotto, uscito nel 2007, mentre il secondo, prodotto dalla SG Records e distribuito a livello europeo, uscito nel 2010. Un’altra informazione, a nostro parere molto importante, dovendosi cimentare nella stesura di una recensione sulla band, è che da un anno i Number H hanno sostituito il loro cantante e che sono impegnati nelle registrazioni del loro terzo album.
Avremmo altresì gradito una critica costruttiva nei confronti dei nostri brani, citando magari i titoli di quelli che più hanno infastidito il (re)censore…si, i nostri brani, perché non siamo una cover band… sbadatamente il suddetto non si è accorto che la cover è stata solo una (eh già, proprio quella che ci ha fatto etichettare come “Abbastanza funk”…), più una rivisitazione di un pezzo anni ’80, proprio gli anni che ci fanno tanto schifo…(e dai, era una battuta!!! ma chi l’ha mandato ‘sto qua??).
Necessarie precisazioni:
Premesso che essere definiti “Grunge” per noi non è un’offesa, tuttavia definiamo tale affermazione una grave inesattezza. Il grunge, più che un genere, era la florida scena musicale di Seattle, quindi i gruppi musicali che “uscivano” da quel capiente pentolone non erano accomunati da uno stile omogeneo, bensì da un’unità d’intenti in verità più culturale che musicale…paradossalmente se Lady Gaga avesse vissuto a Seattle in quel preciso momento storico, sarebbe stata inquadrata nel grunge (ok, forse questo è un pò troppo…).
Probabilmente è questo il motivo per il quale, ad un orecchio oltremodo profano, la nostra musica appare “grunge”; le nostre radici, che affondano soprattutto nell’hard rock anni ’70, sono le stesse dalle quali hanno attinto la maggior parte dei gruppi di Seattle (o almeno quelli più “tecnici”) negli anni ’90 (anche se il fermento è databile a partire dal 1985…), e proprio la linfa proveniente da quelle radici ne ha favorito il successo.
ALLUCINAZIONE VISIVA: fenomeno sensoriale e psico-sensoriale corrispondente, ad una percezione senza oggetti …ovvero assistere ad una nostra esibizione live e avere l’impressione di vedere, agitate sul palco, le chiome cotonate di una band Hair Metal…WHAT’S WRONG WITH YOU?!?!?
Per tagliare corto: i Number H sono solo quattro amici che si divertono un mondo a suonare insieme. Ai nostri live non sentirete per nulla al mondo “le estensioni vocali mache, gli assoloni con la faccia di Zakk Wylde in vena Pride & Glory o il wah usato a stravizio di Tom Morello” e non leggerete nemmeno riviste del tipo “Percussioni oggi“, “Les Paul che passione!” o “Bassista si, ma a 5 corde“, ma troverete quattro persone che dopo una snervante giornata di lavoro hanno comunque una voglia matta di offrire un’esibizione all’altezza di tale nome e di divertirsi il più possibile assieme al loro vecchio e nuovo pubblico…e fanno musica alternativa nonostante una Gold Top, un Jazz Bass a 5 corde (ebbene si, proprio 5!) e una Starclassic…
Detto questo, ci siamo accorti che il rock, negli ultimi anni, si è tutto sommato ammorbidito negli atteggiamenti. In altre gloriose epoche la reazione ad una (a nostro parere) GRATUTITA, LESIVA, PREMEDITATA E TUTT’ALTRO CHE COSTRUTTIVA critica, sarebbe stata: “Ehi fratello, stai pisciando sull’albero sbagliato…”
…tuttavia, in tempi di tecnologia e assuefazione da connettività, una nota da condividere on-line è il metodo migliore per chiarire il nostro pensiero…sempre consci del fatto che a qualcuno la nostra musica non piace e non piacerà mai, ma altrettanto consci del fatto che tutto ciò non è una tragedia.
Sincerly
Number H
Rispondo in ordine, in modo tale che, sia per voi che per il lettore, sia facilmente comprensibile capire dove viri il discorso.
1 – Io non butto fango su nessuno. Vado a un concerto e faccio una recensione. Dato che non mi può piacere tutto, a un certo punto sono posto di fronte a un problema. Una volta recensito quello che mi è piaciuto, devo occuparmi di quello che non ha stimolato il mio interesse. Che fare? Non parlarne? Sarei tacciato di poca oggettività, di inadempienza. Io stesso sarei scontento del mio lavoro. Non resta che impegnarmi ed esprimere il mio pensiero, sapendo che, proprio come la musica che sono andato ad ascoltare, questo non piacerà ad alcuni miei lettori. Io scelgo di fare critica ed esprimere la mia (se pur poco importante) opinione. E spero che sia produttiva. Ovvio e scontato che i gusti sono gusti, quale che sia la spiegazione psicologica.
2 – Io ho scarsa professionalità, come leggo nella vostra lettera aperta, perché non sono un professionista. Ho chiesto un “Accredito stampa” (non “permesso”) perché lo faccio a ogni concerto in cui vado, dato che non essendo professionista NON sono pagato per fare recensioni, non percepisco nessun introito. Faccio semplicemente un servizio gratuito ai gruppi, ai locali, ai lettori, alla scena musicale. Se poi parliamo di “sostenere la scena cagliaritana” mi sento costretto di dire che a fine concerto io ho acquistato i dischi degli altri gruppi, perché interessato, schivando l’insistenza di chi mi voleva vendere anche il vostro.
3 – Io recensisco concerti. Quando recensisco una mostra lo faccio perché interessato ad essa. In questo caso volevo parlare di una certa scena e di una certa serata. Tornando al punto 1, della recensione possono essere attaccati tantissimi aspetti. Le mie sono solo opinioni, come quando si scatta una foto, nell’inquadratura ci si mette solo il punto focale. Non sono stato indelicato o distratto, ma conciso.
4 – Per quanto riguarda la storia del gruppo, vi rimando ai punti 1 e 3. Non ho approfondito perché non mi è piaciuto il set. Non sono obbligato a farlo. Non faccio compitini, non facciò pubblicità, non devo nulla a nessuno. Scusate la franchezza, ma alla coerenza ci tengo. Al di là di questo, complimenti per la carriera, sono sincero.
5 – L’unica scaletta che sono riuscito a reperire a concerto finito è stata quella dei Number H, di cui ho la foto. So benissimo che pezzi sono stati eseguiti. Al contrario, per gli altri due gruppi ho dovuto ricostruire e richiedere la tracklist. Non ho citato i pezzi perché non mi sembrava produttivo. Non è che mi hanno infastidito, è che ho preferito fare quel tipo di discorso che ho fatto. Nello spazio che avevo a disposizione ho esposto l’impressione generale che mi ha dato la musica. E badate, non sono stato lapidario come con altre formazioni. Quello che mi sono limitato a dire è che i Number H non fanno per me, ma che di sicuro potrebbero piacere a tanti.
6 – D’accordissimo su quello che dite sul Grunge, e che forse risulta poco chiaro nell’articolo, perché dato per scontato. Ci sono tanti gruppi etichettati come Grunge, della più diversa estrazione. Ho cercato di dividerli in due filoni, per semplicità e chiarezza. Vi ho confrontato con uno dei due filoni, e non era assolutamente una critica. Non ho detto che i Number H sono una band hair metal, ma semplicemente che in certi casi possono rifletterne la somiglianza, dato che alcuni gruppi, come i primi Alice In Chains vengono proprio da li. Ho scritto “ultimo stadio dell’hair metal” proprio perché ha segnato l’inizio del “calderone” di Seattle. Vi potevate incazzare di più per il Gatorade, no?
7 – Ragazzi, nessuno mette in discussione il vostro impegno o le vostre capacità tecniche. Spesso esprimo certe opinioni con la satira proprio per non essere pesante. Il mio è un lavoro che presuppone un minimo di autoironia (sia da parte vostra che da parte mia, basta notare l’ultima frase che vi ho dedicato) proprio perché non si tratta che di una passione. Se sono stato offensivo verso di voi o la vostra arte, me ne scuso. Ma ricordate che, quale che sia la vostra sensibilità, nella recensione non vi sto attaccando con cattiveria.
Il mio lavoro prevede anche sincerità e impegno, cose che ho messo dentro l’articolo, scritto anche per voi, e che non mi potete negare. Ho seguito TUTTO il vostro live e ho preso appunti, mettendo poi tutti i (miei) pezzi assieme. Per questo non sono stato gratuito, lesivo, premeditato e tutt’altro che costruttivo. E di questo ne sono più che sicuro. Vi invito a leggere il pezzo nuovamente, non sia mai che un sorriso affiori fra le vostre labbra.
Premesso che sicuramente attizzerò le fiamme stile uno che per attenuare dice: “lascialo perdere che tanto è scemo…” ma sinceramente se siete insipidi lo siete anche se avete le groupies io metterei da parte le giostre di ditina che si muovono velocissime e lavorerei per presentare qualcosa di più “moderno” o di più “ruvido” visto che siete sulla buona strada ma avete ancora paura di mommottirock. Prendete come critica costruttiva quella del giornalista e non fate quelli presi male perchè vi hanno detto che leggete guitarclub (e so che lo fate sia l’uno che l’altro).
Di sicuro ci siamo conosciuti tanto tempo fa (almeno 15 anni) quando le mensole di camera mia si piegavano dal peso di queste riviste, ottime x tenersi aggiornati sui vari gruppi della scena underground italiana! Ma questo fa parte del passato quindi ti consiglio di aggiornarti. La musica che avete sentito è quello che piace a noi senza troppi fronzoli e senza tante ditina velocissime a differenza di quello che hai sentito… Anche quelle le abbiamo lasciate a 15 anni fa! Detto questo grazie x i tuoi consigli e vedrai che i plettri ti costeranno sempre lo stesso tanto!
Alessandro