Gabriele Arruzzo: artista enigmatico e intrigante
Molto spesso per un artista la pittura è un modo di vivere alternativo, parallelo e qualitativamente superiore alla naturale esistenza quotidiana.

Gabriele Arruzzo nasce a Roma nel 1976, ma deve trasferirsi a Pesaro, in quanto affetto da gravi problemi respiratori, che gli impediscono di seguire la scuola nell’aria inquinata della capitale. In questi suoi primi anni conosce il mondo dei fumetti, che lo influenza profondamente, e disegna freneticamente e furiosamente. Diciassettenne si appassiona alla Street Art. Si diploma all’Istituto Statale d’Arte di Urbino in Grafica Pubblicitaria e, nel 1998, si laurea all’Accademia di Belle Arti. Nella sua tesi finale analizza l’importanza dell’asma nella produzione artistica di Francis Bacon. Nel 2006 si specializza in Pittura e dal 2008 insegna presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino, città dove vive e lavora.
Abbandonati i graffiti, si dedica esclusivamente al dipingere, analizzando minuziosamente quello che definisce ‘l’atto del dipingere‘: un processo interiore lungo e complesso, che fa sì che l’opera sia nel suo iniziale concepimento creata dall’artista per l’artista e, solo in un secondo momento, si apra e rivolga agli altri.
Coerentemente i titoli, che vengono dati dall’artista ai propri lavori, sono doppi: un primo titolo pubblico, incompleto o nascosto, e un secondo titolo privato, intimo e quasi necessariamente insoddisfatto, perché l’artista, anche nel suo momento più geniale, non può riversare completamente ed esattamente il proprio pensiero sulla tela.
Da ormai un ventennio Arruzzo è un maestro riconosciuto che ha esposto in tutta Italia e spesso all’estero. Presso i suoi raffinati locali in via della Rocca a Torino, la Simóndi Art Gallery ha ospitato a fine 2024 la personale: ‘Terzo Purgatorio’.
Un’opera che ben rappresenta l’arte del maestro è: ‘senza titolo (cominciare per finire per ricominciare, sempre)’. Come detto il primo titolo, il primo non titolo, è affiancato del titolo personale, che richiama la ciclicità della vita e conseguentemente la ciclicità del dipingere, perché una volta che un’opera è terminata, è subito tempo di ricominciarne una nuova, cercando di superarsi e vincere i limiti, veri o presunti, di un bisogno creativo sempre frustrato.
Osserviamo il quadro.
In un ambiente che richiama il bosco di una favola tetra, che crea angoscia e richiama minacce nascoste, un giovinetto in primo piano suona il violino. Pittura e musica sono strettamente legate, facce comuni di una stessa sensibilità artistica, di un’unica ricerca di bellezza e armonia. Dietro al violinista, sorretta da un inusuale cavalletto arboreo, una tela ancora vergine, quasi luminosa, in parte ricoperta da un drappo; il tessuto, quasi un sudario, porta l’unico vero tocco di colore con il suo giallo tenue e un motivo azzurro che si ripete con magica eleganza.
Inginocchiato, con il capo chino quasi appoggiato al retro della tela che non guarda, o forse la tela è dipinta sul lato che non vediamo?, un uomo inginocchiato dalla lunga barba nera ci ricorda un periodo lontano. Forse sta piangendo la morte dell’arte? L’uomo regge nella mano sinistra fasciata un cero acceso che non fa luce, mentre dalla sua tasca sporge una busta apparentemente chiusa. Un testamento?
La scena attrae e rattrista, le chiavi di interpretazione possono essere molteplici: ci si può fare guidare dal titolo della mostra, ‘Terzo Purgatorio’, oppure ci si può lasciare coinvolgere dalla scena in sé, senza pretendere di volere capire o spiegare troppo.
Ancora più complessa e intrigante è: ‘Melencolia 2023 (o del desiderio, della mancanza e della distanza di un testimone)’. La tecnica realizzativa utilizza, come per l’opera precedente, smalto, acrilico e glitter su tela.
Il personaggio dominante è mostrato di spalle, forse dal vestito possiamo riconoscerlo come una giovane donna, che nella notte solleva per segnale e richiamo una lanterna luminosa, indirizzandone la luce verso una lunga canoa, sulla quale distinguiamo le sagome scure di guerrieri armati di lance, mentre due personaggi probabilmente più anziani discutono tra di loro. Chi sono questi due personaggi? Di che cosa parlano? Forse la canoa è una visione, un ricordo del passato, e non è realmente presente.

In basso a destra, alle spalle del personaggio che solleva la lanterna, giace nell’erba e tra i fiori il corpo esanime e nudo di una ragazza inanimata, probabilmente morta. Affogata? Uccisa? In questo caso l’assassino potrebbe essere la donna con la lanterna e nella sua mano destra possiamo intuire l’arma del delitto. Non c’è, però, sangue o segni di lotta e di violenza. La vittima è pallida, appena colorita dalla luce della lanterna, la testa reclinata all’indietro sopra i capelli biondi, le braccia e le gambe distese, solo il ginocchio sinistro è naturalmente sollevato.
I significati allegorici prevalgono sulla scena. Il titolo stesso ‘Melencolia’ è lo stesso di una famosa incisione di Dürer, e la melenconia indicava la bile nera. Una traccia o un depistaggio? Anche con il secondo titolo Arruzzo sembra giocare con noi: ‘mancanza di un testimone’. Se c’è stato un delitto, un femminicidio, noi spettatori non abbiamo abbastanza elementi per scoprire e per individuare il colpevole.
Ogni opera di Gabriele Arruzzo si rivela un gioco magistrale di indizi, di allegorie e a volte di eruditi sberleffi. Il maestro ci affascina, dispone accortamente tracce e suggerimenti, ma poi, come un abile prestidigitatore, ci lascia sorpresi e disorientati. Piacevolmente confusi.
Written by Marco Salvario
Photo by Marco Salvario