“Notturno indiano” di Antonio Tabucchi: gli alberghi dell’India
Primo e non estremo, ma press’a poco, dilemma che mi coglie impreparato durante e dopo la lettura di Notturno indiano di Antonio Tabucchi: è la letteratura un sogno o i sogni servono a vivere così così?
È così che dà un senso alla sua esistenza, inguaiandosi sempre di più, il lettore seriale: uccide un libro per poi tentare di salvarne, in modo analogo, il successivo. Potrebbero leggerlo i miei figli che sono presi da mille giovanili esperienze. Entrambi dedicano sufficiente spazio alla lettura, ma fanno anche altro (i fortunati). Per reclamizzare Notturno indiano dirò loro che è un’opera breve e che, se vogliono, c’è pure un film in rete che potrebbe agevolarli nel cogliere una versione (non so se alternativa) della storia. Il romanzo è del 1984, il film, diretto dal francese Alain Courneau, è posteriore di cinque anni.
Il romanzo Notturno indiano di Tabucchi è così breve che ci ho messo solo otto giorni a leggerlo. Per forza: lo assaporavo, a mo’ di brugnolino, al termine di un’abbondante libagione consumata a casa di una consanguinea, e più di 5-6 pagine non riuscivo a ingurgitare. Una persona più morigerata di me (e non gli sarebbe uscita l’ernia nel farlo) ci avrebbe messo un giorno, o al massimo due.
Perché cincischio tanto in particolari ininfluenti anziché addentrarmi nell’esegesi? Vorrei vedere te!
Di Antonio Tabucchi già lessi Sostiene Pereira. Ma che c’entra?! No, è per dire che non m’è del tutto sconosciuto.
Ne cercherò altri di quest’autore? Ho in casa La testa perduta di… non ricordo chi, né dove sia fisicamente il bel tomo. Prima o poi l’acchiapperò. Lascerò passare al massimo due anni. Ovvero due mesi, o due settimane, o financo due ore. Vedrò.
A pagina 18 de Notturno indiano leggo che quel posto è “molto peggio di come me lo ero immaginato. Lo conoscevo attraverso certe fotografie di un fotografo celebre e pensavo di essere preparato alla miseria umana, ma le fotografie chiudono il visibile in un rettangolo…” – mentre i libri, specie quelli di Tabucchi, utilizzano varie ellissi.
“Il visibile senza cornice è sempre un’altra cosa. E poi quel visibile aveva un odore troppo forte. Anzi, molti odori.” – erano gli attributi dell’uomo, e non solo quelli fisici.
Che rapporto ho io lettore con gli io narranti? Dipende dal caso; al presente ognuno va per la sua strada, lui davanti e io indietro, entrambi casuali e cincischianti.
Dice il medico: “In India si perde molta gente…” – che finisce per perdere la di Lei essenza – ed “è un paese fatto apposta per questo.” – un Kàos entropico o gravitazionale? Entrambi, credo. Qualche volta ci caschi dentro e, come la mistica radiazione di Hawking, riesci pure a svolazzarne fuori, non sempre però, per un fatal attimo. A volte ci rimani secco. E le tue polveri finiscono per disperdersi.
Il medico “mi guardò con un’aria assente da preoccupazioni, come se fosse lì per caso e tutto fosse per caso, perché così dovesse essere.” – io stesso sono qui per una fatalità, avendo letto un parere di un certo Sozi, scrittore, che pare avvallare la teoria, mai dimostrata, in quanto ardua da capire, non perché sia religiosa, che, leggendo qualcosa, non se ne può leggere, al contempo, un’altra. Io l’ho falsificata: mentre dalla consanguinea leggevo Notturno indiano, a casa mia mi sorbivo un romanzo di Rushdie (capiente come una damigiana). A cambiare era il tempo, che è un dato fisico mai del tutto chiarito, ma che, secondo il fisico Julian Barbour (e pure il suo allievo Carlo Rovelli), non è reale: trattasi di maya, illusione. Lo spazio è un grumo che looppa su se stesso, così dice chi sa.
Una profonda empatia ho sempre avuto per gli infermieri paria: “Sono intoccabili” – però qualcuno deve pur provvedere “alle necessità corporali dei malati, non c’è nessun altro che faccia questo mestiere. L’India è fatta così.” – capito? Nessuno li può manco sfiorare, tranne chi non risponde di altri che siano disposti a occuparsi dei loro bisogni corporali.
Noli me tangere! – e chi ci pensa mai!
Camminare per tali immonde e sante vie, è un continuo “qui dobbiamo accontentarci” e un “Così è l’India”.
In ogni orrore vibra almeno mezzo miracolo: “Perché il Taj non è un albergo: con le sue ottocento camere è una città dentro la città.” – essenziale è uscirne vegeti se non del tutto vivi. Basta pagare la pigione.
Ho sempre provato simpatia per il jainismo. Io che adoro i cappelletti in brodo di manzo e cappone. Loro che si mettono delle mascherine per non ingoiare inavvertitamente uno sparuto moscerino, badando bene a dove posano i piedi. Il tipo, che “Era vestito di bianco ma non era musulmano”, disse: “È una religione molto bella e molto stupida.” – che stupisce, ma che non ammette facili conversioni.
Messo alle strette, quello ammette: “Sono jainista” – e questo direi io se ET mi domandasse della mia religione: sono d’ispirazione cristiana, ma non mi si chieda altro, grazie.
Dice l’io: “Ma forse la parola ‘praticamente’ non vuol dire praticamente niente.”
Perché l’io è lì? A un certo punto lo confessa (pare che stia cercando un certo Xavier). Ma perché l’io è proprio lì? Forse perché io sono qui. Da qualche parte bisogna pur stare. Ma quando l’interlocutore dice che Cristo è “Anche pieno di superbia” – mi vien in mente quel povero fico preso a nerbate (o a calci, non ricordo).
Uno dei due, forse il meno supponente, avvisa: “Suppongo che non avremo più occasione di vederci secondo le sembianze sotto le quali ci siamo conosciuti, queste nostro attuali valigie. Le auguro un buon viaggio.” – anch’io, che quasi mai rileggo (l’ho fatto poche volte, per errore) lo stesso libro.
Poi l’io parla di Hesse con un alter ego non narrans, e sembra che nel codice fiscale di quel dapprima “tedesco” e poi “svizzero” (come dire: quel madrileno e poi catalano) si covi l’essenza dell’anima sua.
“E mi stava sottoponendo a domande idiote su Hermann Hesse. Mi sentii preso in giro.” – perché? Non esistono domande ma solo risposte idiote!
Mi fa sorridere l’ultimo proponimento di Fernando Pessoa – per chi non lo conoscesse o l’avesse dimenticato avviso che da anni è alloggiato a pagina 47, morto che parla.
A chi non è capitato, camminando per Gavâsa o Masensâdigh, d’incontrare due fratelli, uno abbracciato all’altro, uno assai mostruoso e l’altro meno, il primo che vaticina e l’altro che fa da intermediario? Il guaio è che l’indovino ammette la sua impossibilità di definire un umano: “Il mostro fece un cenno con le palme in avanti e si immobilizzò.”
Avviso ai naviganti: “Può anche capitare, nella vita, di dormire all’Hotel Zuari.” – e così si conclude il capitolo (a pagina 63 de Notturno indiano): “Del resto l’hotel Zuari non favorisce sogni rosei.”
Chissà se vale per i libri. Dice una donna che pare “convinta” delle sue idee: “… bisogna vedere il meno possibile.” – il problema è la quantificazione della misura minima. Esiste il gravitone? Siamo certi che il fotone non sia composto da altre particelle? E il neutrino? E lo strange quark? Chi ce lo può confermare? James Joyce? Chissà se anche l’irlandese non si trovi presso quell’amico disperso dall’io narrante? Lo si potrebbe chiedere a Elias Canetti, o a Franz Kafka. Qualora sia consentito rintracciarli.
Qual è la mansione dello scrittore, dell’io? Dice: “Frugo in vecchi archivi, cerco cronache antiche, cose inghiottite dal tempo. È il mio mestiere, lo chiamo topi morti.” – ah, poco prima aveva detto: “… cerco topi morti”.
Antonio Tabucchi è stato un grande lettore, oltre che un prodigioso scrittore. Dice di sé, da intendersi in qualità di personaggio del proprio libro: “sono uno che non vuole farsi trovare, dunque non fa parte del gioco dire chi è.” – chiaro, no?
E se l’altra persona continua a fare una domanda poco pertinente (ma quale è mirata a comprendere la realtà?), l’io ribadisce: “C’è uno che cerca un altro, glielo ho detto, c’è qualcuno che mi cerca, il libro è il suo cercarmi.”
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Antonio Tabucchi, Notturno indiano, Sellerio editore Palermo, 1990