Romain Gary e Jean Seberg: lo scrittore lituano e l’icona della Novelle Vague
Quando il 4 dicembre 1980 si diffonde la notizia della sua morte, Romain Gary, pseudonimo di Roman Kacew, è noto al grande pubblico più per la sua turbolenta relazione con l’attrice americana Jean Seberg che per il successo letterario ormai datato (è del 1956 il Prix Goncourt vinto con il romanzo “Le Radici del Cielo”).
Una liaison dangereuse quella fra lo scrittore lituano e l’icona della Novelle Vague.
Lui, ex membro della Resistenza francese, diplomatico con l’incarico di Console generale di Francia a Los Angeles e, soprattutto, raffinato romanziere, sembra aver smarrito l’ispirazione; la sua vena creativa si è precocemente inaridita e, negli anni, ha trascinato l’esistenza fra eccessi alcolici, velleitari tentativi nel mondo del cinema in qualità di regista e sceneggiatore, furibonde liti coniugali e romanzi ben lontani dal ripercorrere il successo ottenuto nell’ormai lontano 1956.
Lei, la Patricia Franchini di “Fino all’ultimo respiro” di Jean-Luc Godard e la Giovanna d’Arco dell’omonimo film di Otto Preminger, sembra prigioniera di un’inquietudine che le brucia dentro, come un fuoco inestirpabile. Gli occhi dell’opinione pubblica la inseguono, i media la blandiscono, ma alla rutilante scena della diva emergente, Jean preferisce quella in penombra della donna engagé.
Sostiene i comitati scolastici dei nativi americani, che cercano di preservare la tradizione e la cultura indigena, in contrasto con le tristemente famose Residential Catholic School, proprio lei, originaria di uno stato che mutua il nome da una tribù Sioux, lo Iowa. Ma non solo. Jean sostiene apertamente la NAACP nella battaglia contro le cosiddette leggi Jim Crow, finanzia i Black Panthers e frequenta Akim Abdullah Jamal, cugino di Malcom X e controverso leader del Black Power, fautore di una linea più dialogante rispetto a quella ortodossa e separatista di Bobby Seal.
Anche per Romain Gary la “penombra” più che un esercizio è una dichiarazione di stile, quasi condivida con Jean un cupo senso di disgrazia, presago di sventura. Anche lui cova l’urgenza di proteggersi dalla luce impietosa della quotidianità. E lo fa a suo modo, decidendo di evaporare dall’esistenza reale per vivere nella verità della letteratura. Così, dopo aver abdicato allo status di autore di successo, incorona al suo posto un avatar a cui ritaglia il copione perfetto: quello del misterioso enfant prodige delle lettere.
È il 1975 quando, nella sorpresa generale, uno sconosciuto scrittore, Émile Ajar, si aggiudica l’ambito premio Goncourt con il romanzo “La Vita Davanti a Sé”. La storia di Momò e Madame Rosa riscuote un insperato successo fra i lettori, la critica, entusiasta, acclama Ajar come la nuova stella del firmamento letterario francese, l’inventore di un gergo da banlieue e da emigrazione in anticipo sui tempi, aedo di quella Francia multietnica che in quegli anni cominciava a cambiare il volto di Parigi.
Ma Émile Ajar è solo il nom de plume dietro al quale si cela Romain Gary, personaggio inafferrabile, dallo spirito anarcoide e ribelle, una di quelle nature che condividono l’impossibilità di accettare le gerarchie di valori e significati che i più attribuiscono al mondo.
È una lotta costante contro la tirannia del dover essere, quella di Romain Gary e Jean Seberg. Quasi che un ineludibile imperativo morale li spingesse a prendere le distanze da qualsiasi sospetto di normalità.
E mentre lei fatica a scuotersi dalla campagna diffamatoria ordita ai suoi danni dall’FBI ‒ Jean si trova nel il mirino dei mastini del Bureau di Edgar Hoover, intento a sradicare ogni possibile appoggio al movimento per i diritti civili secondo il famigerato programma “Cointelpro”, per il quale chi dà appoggio al movimento per i diritti civili deve essere annientato se non fisicamente almeno psicologicamente ‒ allo scrittore lituano non par vero di illuminare la faccia oscura della normalità, quella in cui si animano e prendono forma le azioni delle persone legate a fruste convenzioni e a stanche liturgie.
E allora perché non divertirsi alle spalle di quei parrucconi della giuria del Goncourt? (un premio che può essere vinto una sola volta dallo stesso scrittore).
Ma la complessa sceneggiatura architettata dal romanziere lituano è un lavoro di talmudica precisione. Così, dopo aver creato un avatar letterario, (al pari di Fosco Sinibaldi e Shatan Bogat, altri due “pseudo” utilizzati in passato da Romain Gary, in una inestinguibile tensione a essere altro da se stesso, in definitiva a non appartenersi mai), lo scrittore decide di inventarsi un Ajar in carne e ossa, e lo individua in un lontano cugino, Paul Pavlowitch, a cui delega l’ingrato compito di fronteggiare il peso della popolarità acquisita. E il giovane non si fa pregare, entrando perfettamente nella parte, apparendo sotto i riflettori e ingannando il mondo letterario e quello pubblico, e da quel momento la labirintica sceneggiatura studiata da Gary vive di vita propria, proseguendo negli anni successivi fino a quando, forse stanca, reclama un finale a effetto.
Perché, intanto, Romain e Jean si sono allontanati (lei ha avuto una figlia prematuramente morta da un attivista messicano, e poi si è risposata prima con Dennis Charly Berry, poi con Ahmned Hasni), anche se solo nei corpi, mai, nei pensieri, ché in quelli i loro cuori continuano a cercarsi come in una sceneggiatura hollywoodiana in cui niente è come appare.
Romain e Jean.
Si divertono a giocare a carte con la vita, rischiano, bluffano, ma alla fine la vita decide di non servirgli una buona mano. Prigioniera dei suoi fantasmi e di ricorrenti crisi depressive, Jean scompare in una calda giornata d’agosto del 1979 in circostanze misteriose. Dieci giorni dopo, viene ritrovata cadavere nella sua macchina. Jean Seberg ha quarant’anni. Il referto del medico legale parla di probabile suicidio. Romain ne rimane sconvolto, e da quel momento la sua vita entra in un irreversibile cono d’ombra.
Il 30 novembre del 1980 il cielo su Parigi è grigio e sa di dolore. In mattinata Romain Gary si è concesso brevi telefonate agli amici più intimi, poi, verso il crepuscolo, decide di inviare al suo editore Robert Gallimard un manoscritto dal titolo “Vita e morte di Émile Ajar“, con la raccomandazione di renderlo pubblico previa intesa con Diego Gary, suo figlio.
Due giorni dopo, il 2 novembre, acquista una Smith&Weston e si spara in bocca. La mattina seguente viene trovato riverso sul letto, con indosso una vestaglia di seta rossa. Con un estremo atto di delicatezza, Romain Gary ha scelto quel colore per attenuare lo spiacevole effetto che il sangue avrebbe avuto sulla scena finale della sua diabolica sceneggiatura.
Quando “Vita e morte di Émile Ajar” sarà pubblicato da Gallimard, il 17 luglio 1981, svelando il gioco di finzioni architettato da Romain, nell’ultima riga gli esterrefatti lettori leggeranno: “Mi sono davvero divertito. Arrivederci e grazie”.
Romain e Jean.
Come emigranti dalle aride terre della quotidianità, hanno lottato per imporre la preminenza del senso del possibile su quello del reale. La loro destinazione rimarrà ignota, ma sarebbe bello immaginarli fluttuare in un altrove luminoso, come forze potenti.
Written by Maurizio Fierro