“Accabadora” di Michela Murgia: la donna che conduce alla fine

Non per caso né per necessità, ma per gioco, provo a catalogare Accabadora di Michela Murgia. Non si tratta di realismo magico, in quanto non narra di cose inspiegabili con teorie scientifiche.

Accabadora - Michela Murgia
Accabadora – Michela Murgia

Oppure sì, ma allora è magico anche un romanzo di Giovanni Verga e uno di Émile Zola. Anche uno di Charles Bukowski, a questo punto. Probabilmente se tentassi una narrazione di me che sto tentando una narrazione de Accabadora, un libro narrato da Michela Murgia, mi troverei davanti a numerosi perché a cui non saprei dare spiegazione.

Se tutto è magico, nulla lo è. Cosa (non) accade al di sotto dello spazio di Planck? Boh. Fatti suoi… Ognuno ha i fatti suoi che si merita.

Una volta lessi (mi pare che fosse in un racconto di Grazia Deledda) che in Sardegna si abusa del termine narrare, del tipo che un sardo, incontrando un compaesano, gli chiede: che mi narri?[1] Ogni risposta finirebbe per parere una fiction. Che sia vero, allora, che ogni parola va celando un mondo a sé, ammucciandolo, come si dice in tante zone del sud, non so se anche a Cabras, dove nacque l’autrice qualche decennio fa.

Il suo romanzo Accabadora contiene perciò un realismo ammucciato.

La definizione la devo in gran parte a tre miei mozziconi di matita, con cui sono solito sottolineare alcune frasi dei libri che vado leggendo. Ogni tanto me ne sparisce una, a volte due, a volte tutte e tre. Dopo varie penose ricerche, al grido di Ma dove caspita vi siete ammucciate!, a volte ne rinvengo una, a volte due, un paio di volte all’anno, per lo più al compimento delle feste sacre, ne ritrovo tre. Salvo poi riperderle nei meandri del Kósmos subito dopo.

Accabadora è la donna che conduce alla fine (s’acabbu, dallo spagnolo acabar, terminare) un malato terminale, che si occupa cioè di eutanasia. Che quella morte sia davvero bella, nessuno mai tornerà indietro a rinnegarlo.

Pare che tale figura non sia del tutto comprovata storicamente, ma solo prevista tradizionalmente. Altrimenti una sarda a chilometri zero come Michela non ci avrebbe mai imbastito su un romanzo.

Eugenio Montale definì Casa d’altri di Silvio D’Arzo un romanzo perfetto. Il difetto per tali scritti mostruosi è che si fatica a commentarli, e a riportarne dei pezzi che, staccati dal resto, rischiano di rovinarne la perfezione. Lo stesso mi sta capitando ora, leggendo Accabadora.

Chi mi ha preceduto l’ha definito bello ma assurdo, che forse significa assurdamente bello. Concordo. Io adoro le incomprensibilità. Absurdus deriva da surdus: che non si capisce del tutto. Se l’arte fosse del tutto spiegabile diventerebbe un elenco telefonico o un’indagine demoscopica.

L’arte è mistero, che più si mescola e più feta. L’arte è profumo di santità: aulente come poco altro.

“Fillus de anima. È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.” – il cui uomo era sparito (non si sa se vivo o morto) durante la guerra.

La mamma di Maria non ce la fa a reggere le sorti anche di quella bimbetta. E Bonaria la chiede in adozione. Certo che ha un nome augurale ‘sta vecchierella…

Mi fanno ridere e gemere queste righe del romanzo: “Tzia Bonaria le diede un letto solo suo e una camera piena di santi, tutti cattivi. Lí Maria capí che il paradiso non era un posto per bambini.” – non per i più longevi almeno, quelli che ce l’avevano fatta a diventare grandicelli.

La tua scrittura, Michela, mi fa restare senza parole.

“… Anna Teresa Listru da povera si era fatta misera, imparando a fare il bollito – diceva – anche con l’ombra del campanile…” – che forse non è del tutto insapore!

“L’attitadora” – ecco un altro termine che va salvato: è la greca prefica, la piangente a pagamento nei funerali, che esistevano un tempo anche nella mia Pixuntum, nel Cilento. Il sottoscritto, a cui non era stato delegato il mestiere di piangitore, fu chiamato a fare il custode di un deceduto, parente della consorte. Il mio turno era notturno. Alle tre di mattina s’affacciò un tale che, entrando, trovò me, che non conosceva se non di vista, nonché due megere assopite, per cui prontamente m’alzai e gli dissi che io ero l’unico congiunto sveglio. Mi porse allora le sue sentite condoglianze. Bei tempi, che un po’ rimpiango.

Ho sottolineato alcune righe del romanzo, ma ho deciso di limitarne i riporti, per rispetto.

“Le due donne si separarono in un silenzio reso pesante da una tensione ambivalente: una di loro rimpiangeva di non aver detto abbastanza, proprio dove l’altra era convinta di aver sentito anche troppo.” – e io, per vile scherzo, cito entrambe.

Una stramba tetraggine è questa:Il terreno dei Bastíu era appena un po’ piú grande dei suoi confinanti, perché per volere di Dio negli anni c’erano stati piú testamenti che eredi.” – mai che quel Pre-Potente si faccia le anime sue!

Ora si narra di “Bonacatta, la figlia grande si Anna Teresa Listru…” – sorella disgiunta di Maria (mia definizione) – che sta per convolare a nozze e che, “nonostante sfoggiasse la gonna piú alla moda del suo guardaroba, sedeva nel soggiorno con la stessa grazia di un nuraghe sfatto.”

Ora sparo una banalità che ha l’unico pregio d’essere assoluta: ogni pagina, se non anche ogni riga del romanzo, è un capolavoro, non a se stante, non assoluto, ma correlato alla storia, che di per sé è ricca e al contempo misera, opima di onesta e disonesta povertà.

L’accabadora è a volte come un idraulico che viene chiamato con tutta urgenza poiché il rubinetto perde, e che talvolta scopre che era solo chiuso male. Forse sotto c’è dell’altro. Quell’artigiano, risolto il problema, chiede una manciata d’euro, solo per l’uscita.

L’accabadora fa di più e dice:Antonia Vargiu, per avermi chiamata senza motivo, siate maledetti voi tutti presenti.” – e la dannazione includei vostri figli, quelli che avete e quelli che verranno.” – i nipoti sono al momento esclusi.

Viene poi fornita la cura, che non si dovrà mai più sgarrare: “Dagli da mangiare, piuttosto. Se muore per fame, tu non addormentarti piú.” – né mai più svegliarti.

Un po’ di severità ci vuole con ‘sti frettolosi eredi!

“… perché per certe cose il buio a modo suo è già una forma di perdono.” – è perciò che amo scrivere prima che si levi l’astro dorato.

“Quando le fiamme si levarono al cielo come una bestemmia…” – il destino di “Salvatore Bastíu” – miserrimo! – “… aveva già preso la direzione…” – che l’avrebbe fatto presto rivolgere una richiesta di grazia all’accabadora.

Una volta la vita era quella che era, poi ci si mise una guerra di mezzo, che recò infiniti lutti agli abitanti di quel paese, dove i sopravvissuti mormoreranno per i tanti anni che seguirono. E molti, per campare, dovettero scegliere la strada che conduceva in terra straniera.

Antoni Juliu, “emigrato nella miniera in Belgio” – pentito soprattutto di esistere – “Non era felice di partire, ma di tornare ancora meno.”.

Un bel dì “Lo avevano trovato appeso a un ramo come una pera marcia, con la lingua di fuori, emigrato da sé stesso verso chissà dove.” – ti ringrazio, amica mia, di farmi ogni tanto singhiozzare. Tanto nessuno, in ‘sta stanzetta buia, mi sta vedendo.

Tzia Bonaria istruisce Maria sul significato del lutto. La saggia accabadora le risponde: “No, Maria, il lutto non serve a quello…” – cioè “a far vedere che c’è il dolore…”, che “… è nudo, e il nero serve a coprirlo, non a farlo vedere.” – e allora perché in Giappone ci si veste di bianco ai funerali? Trattasi alla fine di due non colori. Uno va ad annullare, l’altro a totalizzare. Chissà…

Qualcuno fa una richiesta matrimoniale a Maria:Lei lo guardò come si guardano i panni stesi che tardano ad asciugare. Con un movimento pratico gli porse l’asciugamano.” – e così quello era stato al momento servito.

“… Andría capí in quel momento di aver superato il punto da cui non era piú possibile tornare indietro per rimettere le cose a posto.” – da intendersi anche che s’era addentrato nell’orizzonte di un attrattivo buco nero, da cui mai più si sarebbe potuto liberare, volente o nolente.

La Tzia insegna a Maria il valore della verità: “Ogni volta che apri bocca per parlare, ricordati che è con la parola che Dio ha creato il mondo” – è creatrice e distruttrice, è Śiva e Visnù.

Poiché la verità viene sempre a galla, Tzia un bel dì dà a Maria l’autorizzazione ad abbandonarla.

La fill’e anima non può più reggere la sua presenza. Tzia, donna saggia, se ne fa una ragione.

Differenze urbanistiche fra due diversi agglomerati umani: “… la strana storia delle vie squadrate di Torino, che pareva fossero state disegnate in anticipo rispetto ai luoghi in cui avrebbero dovuto condurre…” – e poi c’è quella del paesino sardo: “… di chi costruisce le case prima che esistano le strade che dovranno condurvi…” – ogni gruppo di umani è fatto storicamente a modo suo.

Michela Murgia citazioni
Michela Murgia citazioni

Uno muore e l’ateo si limita a dire che è andato a vedere le erbe dalla parte delle radici.

Il credente dice che il Signore aveva stabilito “che aveva mangiato pane a sufficienza.” – cambia poco nella sostanza, per quel corpo. Per l’anima, non so.

Maria è tornata al suo paese. Di quel che successe a Torino non dirò nulla, essendo tutto scritto nel tuo romanzo, amica mia.

Ormai anche la zia avrebbe bisogno di un’accabadora.

La sua era “una decomposizione senza morte” – e, avendo perso fino ad allora la corriera che conduceva Chissà Dove, avrebbe dovuto prendere una corsa successiva.

Maria e Andría non casualmente, s’incontrano di nuovo, dopo tanto tempo. Hai visto mai?

L’ultima mia attestazione di stolidità: non ho capito come finisca sia il romanzo che l’esistenza della virtuosa tzia. M’è di consolazione il fatto è che non l’ha capito manco l’altra zia, la telematica Wiki.

Il paese, pur senza prova alcuna, non si sarebbe di certo fatta scappare “l’ennesima occasione di parlare di niente.” – mentre io sto già pensando al tuo prossimo romanzo, fill’e anima mia.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Michela Murgia, Accabadora, Einaudi, 2023, 1ªed. originale 2009

 

Note

[1] N.d.E. in sardo si utilizza spesso “ita mi contas?”. Contas deriva dal latino compŭtare (con + putare: verificare un conto, calcolare) con il significato di raccontare, narrare, menzionare. Celebre quel “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *