“Casa d’altri (Cà d chj êter)” di Silvio D’Arzo: Léngua Mêdra ed il culto del dialetto arşân
Léngua Mêdra è, assolutamente, un gruppo di amici che osservano religiosamente il culto del dialetto arşân, che va dal Po all’alta montagna reggiana, ponendolo come il ponte che permette di collegare il loro mondo (che è anche il mio) al resto del globo (che è anche il nostro). Per fare un esempio ricordo che Denis Ferretti, detto il Linguista, non per venerarlo, né per prenderlo in giro, ma perché è la verità, ha scritto recentemente un haiku reggiano, con le classiche diciassette sillabe: “Ä vîn a piōver./ La bughêda destèişa,/ un sâch ed madòn.”
Quando gli feci i complimenti per aver rispettato la regola delle sillabe, prontamente e fin troppo onestamente mi rispose: “In realtà però, anche se in italiano lo fanno tutti così bisognerebbe contare le more. Perché i giapponesi non contano le sillabe, ma le more. E anche i giapponesi hanno distinzione tra vocali lunghe e brevi, che come il Reggiano hanno valore distintivo. Mentre a differenza del reggiano non hanno consonanti consecutive. Quando la sillaba finisce per consonante, bisognerebbe contare una mora anche per queste consonanti, come se ci fosse una vocale dopo. Quindi questo pseudo haiku è di 17 sillabe, ma di 24! more.”
Il che dà una certa l’idea di chi sia il traduttore dell’opera di uno scrittore come Silvio D’Arzo, il quale utilizzò nella sua brevissima vita vari pseudonimi, ma il cui vero nome era Ezio Comparoni. Egli morì, non ancora trentaduenne, per quello che a Reggio si dice un brót mêl, a causa di una brutta leucemia. Come se ce ne fossero di belle.
Secondo il parere autorevole di un celebre poeta di nome Eugenio, Casa d’altri è un racconto perfetto. Lo lessi, un po’ in fretta, svariati anni fa, senza apprezzarlo nella giusta misura. Mi parve ben fatto e nulla più. Non mi emozionò. Ringrazio questa iniziativa di Léngua Mêdra, nonché il genio interpretativo di Denis Ferretti, per avermi concesso una seconda chance. È possibile rinvenire sul sito di quest’associazione la versione audio recitata da Denis, parola per parola, capitolo per capitolo, dall’inizio alla fine.
Ogni traduzione è un’interpretazione, esattamente come lo è ogni sonata antica riprodotta da un musicista moderno, oppure dal medesimo suo autore, qualche tempo dopo averla resa famosa. Un caso eclatante è rappresentato da Dino Campana, coi suoi Canti Orfici, che un giorno andarono smarriti e che lui dovette re-interpretarli, basandosi sulla propria quasi esausta memoria, finché quelli non furono ritrovati: le due versioni erano effetti due opere diverse, però consorelle.
Si pensi poi a quel gran cervello di Borges, che concepiva la letteratura come una serie di affluenti che confluivano nel medesimo lago (l’allegoria è mia, oltre che sua). Ogni racconto è un sentiero che reca, misteriosamente, alla medesima Roma. Anche quest’allegoria è tanto mia quanto sua. E ogni opera letteraria rivive nuovamente ogni qualvolta viene riprodotta (su carta o, ormai, a voce, o su video), purché un umano la stia a sentire. Che ne dite, cari autori citati e ancora da citare, se ora passo a esaminare il lavoro congiunto di Silvio e di Denis?
Ma prima vorrei donare all’eventuale lettore ‘na meşa piolêda: se scrivere è fare l’amore, tradurre è fare le coccole finali? E anche: reagire a uno scritto significa donare all’opera un bis alternativo? E chi s’era occupato dei preliminari? Lo Spettro di Canterville?
Per il confronto, ho utilizzato Casa d’altri e altri racconti dell’edizione Einaudi del 2007. Non so quanto durerà la mia reazione, ci ho pensato su ieri sera, decidendo poi di addormentarmi con quel grave quesito irrisolto. Ho poi dormito, come si suol dire, della grossa. In svariate centinaia di casi ho attestato che la versione di Denis è senz’altro più espressiva di quella utilizzata dall’autore, non perché uno sia miglior scrittore dell’altro, ma perché il medium utilizzato è diverso.
Chi non ricorda, forse solo io?, la sfida che ci fu tra Buffalo Bill a cavallo e un ciclista col casco? Vinse quest’ultimo, ovviamente. Dipendeva dal mezzo di locomozione e, nel caso di un libro, dalla lingua adottata dalla scrittura. Da qui qualcuno potrebbe dedurre che per me l’arşân sia un idioma più artistico dell’italiano: a volte è così, forse spesso. Ma non necessariamente.
Cercherò di limitare i danni alla vista di chi abitualmente legge i miei articoli, che non hanno, dicono i maliziosi, il dono della sintesi. Ahhh… vedRemo! O vedRomolo!
Innanzitutto c’è da commentare il viso di Ezio ritratto in nove esemplari a pagina 4: troppo bello, anche se la testa è un po’ quadra. Tiriamo innanzi, che mi viene da sigare (sighêr, piangere come una sega), se penso a quant’era giovane quando morì! Più piccolo d’età del nostro Signore!
A pagina 9 la prima sorpresa: campanâs d al pēgher, delle pecore: noi oggi diciamo pēgri, e qui mi soccorre un aiuto da casa (Ferretti): in reggiano antico, quello dell’epoca in cui è ambientato, era frequente il plurale femminile senza la i. Sic transit gloria pluralis muliebris.
Silvio/Ezio, d’ora in poi solo Silvio, dice “campanacci di bronzo” – non ho capito il mutamento di oggetto, ma l’accetto. Però, lo ripeto ironicamente, lo condivido senza capirlo.
“… cme apèina tirê fōra da ‘l fōren”, dal forno? Nell’orginale c’è “dal conio”. Manca l’equivalente reggiano, che tante cose se le sogna ancora. O se le inventa. Gente semplice ma geniale, la nostra.
Voglio dire qualcosa sul lavoro. Un siculo di mia conoscenza una volta mi chiese: Ma perché voi reggiani mettete il lavoro dappertutto, ma che bel lavoro, che brutto lavoro! …ma voi lavorate anche quando dormite? Sì, soprattutto. E soprattutto quando parliamo: “Al prém lavōr ch ä v vîn da pinsêr…” – dopo cui ci sono 14 monosillabe, poiché il reggiano, come il napoletano e l’inglese, ha dei modi esageratamente sintetici (tanto per donare alla platea un mezzo ossimoro).
Silvio aveva scritto: “e la prima cosa che vien da pensare è che un giorno è stato nuovo anche lui”. Si parla di un tipo a caso, quell’“umarein là”, “l’ometto”, per Silvio.
“Gli piace anche di fare un po’ il martire”, diventa: “ä gh piêş ânch un pô piânşres adôs.” – piangersi addosso, come capita anche con altri fluidi fisiologici.
“– Per carità, – mi sorrise.” – diventa “Al m à fât bòca da réder – Mô per caritê…”: bocca da ridere! Il medesimo concetto de-scritto im modo assai diverso.
“Al m guardêva cun rispèt, mó ‘s capîva ch al s fidêva finmèşdé”, si fidava fino alle ore 12, – traduzione della frase: “Riuscì a guardarmi con la più deferente diffidenza del mondo” – alcuni concetti non si possono tradurre in dialetto. Gli arşân, con qualche eccezione, vanno più per sintesi allegoriche e metaforiche. Se dicono qualche parola in più è per provocare, utilizzando i medesimi bastoncini, girati in maniera ogni volta simile e divergente.
“E ló tót suridèint al sêlta só” – mentre per Silvio è: “sgusciò lui sorridendo”, messo quasi in fine di frase, e non all’inizio come in Denis. Per uno quello salta su, come un grillo, per l’altro invece sguscia via, come una lumaca.
“Era svelto e slanciato e tutto il vestito di nuovo”, che si tramuta in “L andêva via svēlt e drét cm un fûş” – dritto come il fuso che si usa per filare. L andeva non l’andeva, poiché in reggiano l’articolo è al, e non c’è elisione dietro, semmai davanti, per cui io scriverei ‘L. La butto lì, dai.
“… quando ci si mette sul serio, il mondo sa essere ben triste, però.” – immensa frase che si trasforma in: “… al mônd s’al s ägh mèt al sà èser prân trést, però.” – bella ed omogenea, sebbene un po’ diversa. Noi usiamo i pronomi clitici, un po’ difficili da spiegare in due parole: servono per dare gravità alla frase (mia personalissima interpretazione). Ad Amalfi direbbero che fanno ‘a parata. Se non ci fossero occorrerebbe re-inventarli. Lo sono ä e ägh. E tutti i loro consanguinei. Prân vale per pur anche. Ma vuoi mettere!
“Padronissimi di riderci sopra” si tramuta in “Ä sî padròun äd rédrom adrē…” – i padroni hanno bisogno dei servitori, non dei superlativi, che già così si sentono loro. E si ride dietro, più che sopra.
“Passarono ancora otto giorni: e poi dieci.” – “Ē pasê ôt dé incòra. E pó dēş.2 – in dialetto si usa per lo più il singolare, all’inizio della frase.
In un paese, specie e non solo se isolato, molte donne sono attratte dalla figura del prete, che è un maschio del tipo inoffensivo, come un cobra a cui è stato tolto il dente del veleno, cioè senza quell’arma segreta in più che tanto inquieta. Non so se sono sessista, forse sì. Ma sento che è così. Tutte le donne, anche le vecchie, che fra poco andranno a vedere l’erba dalla parte delle radici (espressione contadina). Il fatto che quelli portano la tonaca, che altro non è che una gonna lunga, le aiuta a farsi intraprendenti e a volte un po’ arroganti. Così fa una certa “Şelenda, Zelinda Ieci fu Primo” – che farà saltuaria ma tenace compagnia all’io narrante pretesco e al laico lettore per tutta la storia, essendo il baricentro a cui essa gira. Si tratta di una che ha il male di vivere addosso. Ma chi non ce l’ha! Chi non vive da solo nel cuor della terra! Quando c’è il sole, in montagna non può che ardere, ma si fa vedere ogni tanti mesi, e mica tutti i giorni. E non può che trafiggerti, dopo di cui è meglio andare a letto.
Silvio fa temere al prete di essere in debito col mondo intero che lo aspetta al di là del “corridoio”, che “era più buio di un forno”, inducendolo “a guardare la striscia di luce che usciva dalla fessura dell’uscio mi sentii come uno che è in debito”, e chi non lo è, caro. Tu almeno hai Lui, che ti anticipa parte del (suo/tuo) salario: “ä m sûn sintî cm ē ûn ch l ē in dèbit” – e poi Denis va avanti falciando l’erba come solo lui è in grado di fare.
“Aveva pelle scura e rugosa…” – “La gh îva na pèla scûra e spigaslèinta…” – in reggiano è con un articolo indeterminativo e con degli spigoli mal piegati… Povera Şelenda, ha vissuto tempi migliori, chissà da giovane com’era bella. Chissà se è mai stata giovane!
“Le indicai con una mano la sedia.” – che diventa “A gh ò fât sègn cun na mân indo’ gh ēra la scrâna.” – non sempre il reggiano sa essere sintetico.
“La m fà j ôc un pô ‘d travêrs e la và avânti.” – a volte Denis usa il presente storico. Silvio usava tutta un’altra espressione, con un senso simile: “Precisò ad occhi obliqui.” – e poi continua a dire delle cose. Denis sente di dover diversamente esplicitare.
“Beh, l’inverno è all’uscio…”, cioè: “Bèin, l inverēn l ē dedrē da ‘l ós…” – quasi lo stesso effetto. A Bologna dicono che è il peggio a star attaccato all’uscio. In effetti tutto può bussare alla tua porta, da un momento all’altro. Prima di aprire, chiedi sempre chi è.
Silvio usa espressioni non so quanto reggiane, di certo oggi poco in uso: “disse lei dopo un po’ sorridendo”, come se usare le mie stesse parole fosse bere al mio stesso bicchiere: “… bèvvr intal me bicēr”. Uomo rispettoso è Denis.
“… per farle svuotare tutto il sacco…” – diventa “per tirêrgh un po’ só i calsèt”, tiare su i calzini, fare dei complimenti, un po’ di cerimonie. Non intendo che Denis manchi di rispetto a Silvio. È l’arşân che a volte fa un po’ il monello.
“Un uomo può arrabbiarsi anche per meno di questo: per molto meno, io lo so: e lo stesso un povero prete.”: “Ûn al pré ‘ndêr in ôca ânch cun meno: dimondi mēno, äl sò: e pr un prēt l’ē cumpâgna.” – due essenzialità: i reggiani non si arrabbiano mai, però vanno in oca, ed è meglio lasciarli in pace in quei casi, mai bisogna provocarli! E anche i preti sono compagni agli altri, cioè uguali. Ecco perché ci sono stati a Reggio tanti preti operai.
“… era una storia da far ridere le stalle per tutto quanto l’inverno.” – e qui evito la traduzione di Denis, perché è tutta uguale. Spiego agli eventuali fenici: nella stalla ci si trovava durante la stagione fredda, anche a ballare, perché c’era un’aria più tiepida, anche se un po’ aulente.
“Specialissimi casi…”: “In di chêş particolêr ch’ägh vōlm in trî a dîr ch în particolêr.” – per chi crede che qui Denis esageri un po’, più che di dargli torto sento di doverlo informare che è il reggiano a essere ex-agerato di suo, sempre un po’ esondato dagli argini del Po, nonché da quelli dei suoi affluenti, anche dai torrenti, una volta ogni cinquant’anni.
Un’altra informazione necessaria: “Dimodoché” va tradotto solo con “Per quindi”.
Detto non senza una punta d’amarezza: “Ero triste come un ragazzo, parola”: “Cherdîm, j ēra trést cm un ragâs”.
Noi tésti quêdri, come ci chiamamva il modenese Tassoni, siamo tanto latini quanto galli boi, quanto goti, con una spruzzatina di spermino unno: “… vôsch ä vòuj èser spiân” – cioè: “voglio essere franco con voi” – come sanno anche i sanpietrini del centro storico, nuêter arşân ä sóm brót ma s-cèt – bruttarelli ma schietti. E a volte ci scappa detto cun mêgh, con meco. Non ci facciamo mai mancare niente! Specie a tavola (e a letto)!
“Si rifugiano di colpo nel guscio”, cioè: “Ä s sêren só a gósa.” – serrati come una goccia (mai sentita prima!). L’io qui parla delle donne, che a volte parlano e a volte tacciono, fino a celare l’essenziale. Qualcuno di noi, o me, o Silvio o Denis, è un arşân sesèsta (siamo della stessa tribù, mi sa). Le donne “anche me mi guardavano già con sospetto, come guardavano parlare gli inglesi. E in confessione anche peggio. Parlavo e parlavo, e poi ecco dovevo fermarmi e cominciare a tradurmi.” – tralascio di riportare la traduzione di Denis, che pare ricalcata e precisa cme un dî in dâl c… (ano)!
Secondo me le donne cercano di comprendere il prossimo più di noi omarelli, con o senza la s davanti. A volte facciamo finta di capire per non denunciare la nostra ignoranza. Le donne no. Ci tengono a non farsi menare per il naso e per quegli altri due orifizi. Chissà perchè!
“S’aggiravano attente qua e là”: “Andêvn inasindrē só e şó” – avanti e indietro, su e giù.
“… né più né meno che il rospo che bada solo a sparire nel fosso.” – e qui Denis esagera: “Cme na paciâna che la vōl sōl andêrs a intanêr intal fôs.” – quando lo sanno anche nel Golfo degli Aranci che la paciâna non è altro che il rospo panciuto!
“Io non riuscivo a capire”: “Mé ‘gh îva d nōv a capîr.” – conoscere è rinnovarsi: prima di sapere qualcosa tu ti senti ogni volta un verginello.
Da noi “una sciocchezza del genere” è “na stupidêda cumpâgna”, che t’ha meravigliato per un attimo ma subito capisci che c’è poco da stupirsi.
“… bada solo a tirare il suo sacco” – la traduzione di Denis è ricalcata sull’orginale: uno che fa i fatti suoi. Tanto perché lo si sappia: “Macchè” per noi è “Mocchè”.
Una frase che vale dappertutto, anche nella foresta pluviale: “Dégh ch ägh n ē d gînta asûrda a ste mònd.” – e qui Silvio sintetizza: “La più assurda creatura del mondo.” – il concetto è lo stesso, ed è referito sempre a una persona in particolare.
“Niente fretta. Niente fretta…”: “Tulòmla cun chêlma…” – dal latino tollere.
“…e neanche adesso saprei…”: “… gnân adèsa ä srèv bòun…” – noi galli boi quando non sappiamo fare qualcosa non siamo buoni (a nulla).
Il “buon senso” per noi diventa però “‘l giudési”: Denis, qui davanti all’articolo di un nome che inizia con una consonante hai messo l’apostrofo, un giorno poi mi spieghi.
“… voglia di scendere dal ramo…” cioè: “şó da la brôca…” – per tentare di capire i misteri del pianeta, come fecero primi ominidi.
“…a spiare i miei gesti.” è “la m tgnîva adrē sòt cuaciòun.” – ammucciata, direbbero a Pisciotta, celata seppur curiosa.
Un “galantuomo” diventa “un “galantòm da la pîta.” – quest’ultimo termine indica la tacchina. Non so perché si dica così.
“… risparmiati pure il sapone: tutto il resto non è che paesaggio”: “ät pō ânca sparêr al savòun: tót al rèst lé sōl lé a fêr da ‘redamèint.”, fare da arredamento, creando fronzoli inutili.
“… vecchio ottone, oro falso”: “… damând a l ôr d al Giapòun che intal gnîr in Itâlia l ē dvintê utòun.” – alla frontiera ha cambiato il codice fiscale e l’orbita dei suoi elettroni (di rame e zinco). L’oro di Giappone è l’oro falso, come è anche detto l’oro di Bologna. Quel che proviene dall’estero crea sempre una giustificata diffidenza. Non conoscevo nemmeno questo modo di dire: “una giornata da gente”, ri-dialettizzata in modo perfetto da Denis: bella e assolata, da gente onesta. Ciò proverebbe come talvolta Silvio usi le nostre espressioni, italianizzandole.
“Dopotutto” diventa “Che in fîn di cûnt”, la nostra esistenza è sempre una tragica partita doppia.
Quelli della “valle”, Denis traduce: “pianşânt”, pianeggianti, termine che contiene una briciola di disprezzo.
“… sciabole” diventa “… spêd”, sempre armi contundenti sono.
“… credete che il tempo stia su?”: “… pinsêv che al tèinp al tègna?” – su, giù, a destra o a sinistra, deve tenere da tutte le parti. In reggiano mp e mb diventano np e nb. Mica andavano a scuola i nostri avi! Ä ēren mia inbanbî (rimbambiti).
I bambini “hanno più fiuto di un gatto…”: “al fât l’ē ch gh ân n istînt cumpâgn a i gât…” – anche i mici possono essere compagni a noi.
“… e non riuscite a nascondere niente.” – che diventa: “T än pō mia tgnîregh lughê gnînto che t äşmâchen subét.” – ti smaccano e prima o poi te la fanno pagare!
“… e se ne andarono via contrariati”: “…e j în andê via cun al grógn.” – tenere il grugno (quello dei maiali, per intenderci), significa essere girati dalla parte meno solidale.
“Si consultarono un momento con gli occhi”: “Ä s în guardêdi intj ôc pr un momèint.” – ed è vero che l’italiano di Silvio è perfetto, ma penso che la traduzione di Denis gli sarebbe piaciuta, essendo così espressiva e icastica.
Le due donne “parevano come impagliate”: “inbalsamêdi”, con tutta la diffidenza che possono avere due donne non convinte dal loro parroco.
“Mi lasciai andare ancora di più sulla seggiola con una plasticità vergognosa”: la prima parte è analoga, ma poi è: “tânt tranquél da fêr vergògna.”: il senso è lo stesso, significa far finta di nulla.
All fine le due comari vanno a casa, ben pienucce di se stesse, solo che le Silvio le chiama “le due oneste galline”, Denis “dō ciôsi.” – due chiocce, termine impalpabilmente più ironico; coi loro “quattro magrissimi stinchi”, cioè “cun al so pōlpi mêgri”, e con (riporto solo Silvio, perché qui Denis si è accodato fedele): “due cappelli con frutta di stoffa, e mi parvero offesi anche quelli”.
Pensando a Zelinda, dice: “… e il silenzio doveva pesare un bel po’ anche su di lei”: “… e ânch per lē al silèinsi al tâca a gnîr pèiş.”, quella torbida vecchietta chissà che va celando, e quanto le dà dolore!
“Non avevo ancora l’intenzione di far ridere le piante lì attorno” – più o meno come interpreta Denis. Per cui decide di uscire in strada per magari imbattersi in lei.
Si colga qui la vera bellezza: “Dai costoni dei monti e dai pascoli veniva giú il color blu della notte. Non c’era più grama compagnia di quell’ora.” – e Denis dice “trésta”, che è compagno.
In italiano “i colletti bagnati”, diventano: “i colèt mòj pasê”, bagnati passati (fradici).
“… fece un po’ il superiore”: “al fêva un pô ‘l sustgnû.” – anche qui il sostenuto è con l’apostrofo.
“Aprii la finestra che dà sulla piana”: “J ò vîrt la fnèstra ‘ch dà a ‘l albaşèin”, che è il luogo all’ombra: ûn che l ē chersû a ‘l albaşèin, vuol dire che è pallido. Il suo contrario è l arcôst, il luogo solatio.
“… spuntò anche la luna. Non rotonda come in agosto, s’intende, ma più furba, e più lucida e fresca come l’avessero tolta da un secchio.” – e qui Denis merita una tessera per la sua fedeltà.
“…qua e là…”, diventa “dedsà e dedlà”, che dà più l’idea del khaos in cui si smarina il presunto ordine del Kosmos. Similmente “sparsi” diventa “stremnê”, sterminati, entropici.
“… lo stupido..” da noi è “al nèsi”, il nesciens, che dà l’idea, non quella socratica di sapere di non sapere, ma di non sapere nulla e di pensare chissà che.
“Quando piove piove anche per me”, mentre normalmente è “Quând ä vîn sîra, ä vîn sîra ânch a cà mia.”
“Le fui subito al fianco”: “E in trî e dû sînch ä gh sûn stê a ‘l pêra”: da che mondo e mondo 3 +2 = 5. E è un calcolo che ci appaia all’istante al prossimo.
“… neanche per scherzo…” – diventa “… gnân per insòni…”, per sogno. ‘O suonno, dicono Altrove.
La Zelinda dice che “anche quando il mulo dei carbonai mi calciò qui alla schiena, io non sono andata dal medico. Ci ho messo su delle frasche d’ortica.” – che distraggo l’attenzione dal dolore. Denis è qui superfedele. La tipa vuole confessare il suo segreto, ma prima chiede al suo confessore di girarsi dall’altra parte, provando una lieve vergogna. Cosa che l’io narrante fa, anche se di malavoglia.
“V’assicuro che mi voltai verso il muro, come quando qualcuno si sveste.” – sia Denis che io lo stiamo facendo, fedeli alla tua linea, Silvio/Enzo. E spiattella il suo segreto, che forse un Cesare delle Langhe avrebbe condiviso con amore.
“Tóti dal côşi d chj êter…” – il nostro mondo parla di argomenti che paiono non interessarci, fin troppo risapute, pensiamo. Ed è questa forse la fonte del nostro amaro errare.
Ma dov’è finita la nostra casa nuova, il nostro dire nuovo, la nostra nuova essenza: dove l’han messa, in dó l ân piantêda? A fêr la mófa? A imputridire?
“E si mosse e sparì dentro casa.”: “E la s ē tôta e l’ē ‘ndêda dèintr in cà.” – sempre da tollere, ma che importa ormai l’etimo. Etymos è ricerca, ma di che, di parole e nulla più? Del senso dell’esistenza, no?
L’unica per l’io, per Silvio, per Denis e per me è di tentare d’andar dietro ai movimenti delle nuvole: “Vengono delle idee, certe volte”, specie se paiono inseguirti, lente e implacabili.
“Na vècia ciochêda, un prēt: rôba da ciôld”: “Un’assurda vecchia, un assurdo prete: tutta un’assurda storia da un soldo.” – e qui, paradossalmente, Silvio ciurla un po’, perché Denis ha scritto da ciôld, da chiodi. Ne sa qualcosa il nostro inchiodato Cristo.
Bisogna pur capirlo, Ezio: lui sapeva l’arşân meglio di tutti noi, anche di Denis. Ma, per pubblicare, doveva fingere di essere Silvio. Questa è stata la sua grande simulazione.
Nel capitolo finale, leggo che “la vècia l ē môrta, la Mèlide l ē morta.” – la Melide era la fedele e intrigante perpetua. Anche Ezio è morto. Anche il nostro Signore sembra patire qualche acciacco.
Silvio è però ancora tra noi!
“… il ragazzo porta a monte le capre”: “…al mèina al chêver só pral mûnt.” – la vita continua, ogni età ha i ragazzi che si merita.
“Na bêla bōrsa, âhn?” – la borsa da noi, più che lo scroto, è la noia di vivere. Silvio scrisse, a mo’ di commiato: “Tutto questo è piuttosto monotono, no?” Diciamo che piuttosto che niente, è meglio piuttosto. Anche Guccini ha scritto una cosa così, in uno dei suoi due dizionari delle cose perdute.
Piuttosto che null’altro, ci va bene anche questo vano peregrinare nei verdi prati collinari, che sono sempre là, senza l’illusione che è data dal tempo. Domani, forse, ci tornai. E ieri, di sicuro, ci tornerò.
Scrive Denis nelle Note del Traduttore: “A ben pensarci, ‘Casa d’altri’ nella versione in italiano è una possibile traduzione senti-mentale, per quanto ben fatta, dal dialetto.” – il motivo è che “nel raccontare i personaggi e le loro vicende D’Arzo ha dovuto esprimere nella lingua nazionale ciò che in una realtà quotidiana il protagonista avrebbe naturalmente espresso in dialetto.” – e questo è poco ma sicuro, sebbene al contempo, infinitamente incerto (il che pare ed è un’arcana contraddizione). La scrittura è sempre legata a un logos, a una parola che si fa pensiero, e viceversa, ed è anche fiction cioè, come s’è visto, simulazione. Anche questo racconto, che è una somma di innocenze, di Ezio e di Denis. Che però non può che contenere in sé il germe dell’inganno narrativo. Diversamente sarebbe un corpo immoto, senza più alcuna storia. Nell’elogio funebre tutti i morti sono state brave persone. Solo alcuni però saranno ricordati per l’eternità. Ogni traduzione è un salvifico tradimento ed è un’umanissima sopraffazione. Denis rispetta Silvio, ma finisce per sommarsi a lui. Dopo di cui, nulla vi è più di certo. Tutto è per sempre correlato, entangled.
A thing of translation is a joy for ever, essendo la sostituzione di un corpo con un suo omologo, che continua il logos originario, che pareva assopito. E quello non può che rinascere, ri-vitalizzato, re-incarnato nel suo interprete, anche “oggi” che, e questo vale per ogni idioma, “le varietà sono quasi quante le persone.”
Tanti decenni dopo la morte dell’autore e la postuma pubbblicazione del racconto, per quanto il traduttore sia preciso, saggio, dotto e rispettoso, a decidere è necessariamente lui, il nuovo co-autore e il nuovo responsabile dell’opera, perché non può non esserlo: necessariamente. Il tentativo valoroso di Denis è stato di tentare di ricostruire l’unità di quel tempo ormai trascorso, rispolverando le regole di allora e inventandone delle nuove.
Ora sogno di provocare l’ineffabile (nonché valoroso) Savino Rabotti, proponendogli di tradurre nei vari dialetti appenninici sia il racconto di Salvo che l’interpretazione di Denis: chissà quante differenze si creerebbero! Una vera Babele, I guess!
“Una cosa che subito salterà agli occhi di molti e forse farà storcere il naso a qualcuno è l’utilizzo del simbolo Ä – ä.” – fu una delle prime cose che ti chiesi, ricordi, Denis?
“Io, al pari di molti altri nella mia condizione, ad oggi non ho una pronuncia costante…” – e al pari di te, anch’io “a volte dico ‘a vagh’ (vado), a volte dico ‘e vagh’.” – e questi sono dei seri problemi esistenziali per chi ha la testa un po’ squadrata come noi.
Bohr diceva che la particella non esiste se non nell’atto di attestarla, pirma e dopo è una semplice onda di probabilità. Forse il senso è quello qui. Solo nella pronuncia Ä – ä manifestano la loro corporeità: a volte A – a, a volte E – e. lo stesso capita con la particella genitiva r nel dialetto cilentano: ri sorata o re sorata. Tutto il mondo, in fondo, è un paesino un po’ sperduto.
Ricapitolo, per tentar di chiarire: “La scelta di ä è invece dovuta principalmente alla volontà di disambinguare i pronomi clitici sia dalla preposizione ‘a’ che dalla congiunzione ‘e’.” – Ä e ä permettono a ogni singolo di scegliere ogni volta: a oppure e.
E chissà che avrebbe scelto Ezio?! Chi lo potra più dire?!
Oggi la parola va a lui, Denis! E a me, suo lettore.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Silvio D’Arzo, Cà d chj êter, Léngua Mêdra, 2022, Edizione fuori commercio. Traduzione in arşân di Casa d’Altri, pubblicato per la prima volta in “Botteghe Oscure”, Quaderno X, Roma, 1952.
Silvio D’Arzo, Casa d’altri, Einaudi, 2007
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