“Cleopatra e il serpente” di Nicola Fano: che cosa implica la bellezza?

“Specchio servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?” chiede Grimilde; guai se esistesse una donna più avvenente di lei. Nemmeno le dee sono immuni dal culto della bellezza; Hera, Atena e Afrodite si contendono il primato. Non ne vengono a capo; così tocca allo sciagurato Paride assegnare la mela. Le donne amano sentirsi belle; desiderano essere belle; ognuna vuole essere la più bella. Per questo entrano in competizione. Chi è l’arbitro? Il maschio. Chi decide la bellezza? Sempre il maschio. Cos’è la bellezza femminile? Un trofeo da mostrare? Anche. Ma è soprattutto uno strumento di controllo dell’uomo sulla donna.

Cleopatra e il serpente di Nicola Fano
Cleopatra e il serpente di Nicola Fano

Non ce lo saremmo aspettati, vero? Ebbene sì; ce lo rivela Nicola Fano, storico del teatro. Nel saggio Cleopatra e il serpente (Elliot Edizioni, 2024, pp. 225) l’autore propone una lettura inedita del concetto di bellezza; essa è intesa come arma del patriarcato. Fano prende in esame ventitré donne, dal mito al Novecento; ognuna incarna una declinazione della bellezza. E tutte sono proiezioni – o creazioni – del male gaze.

Elena di Troia, Circe, Cleopatra, Ofelia, Paolina Borghese, Sarah Bernhardt, Dora Maar, Marilyn Monroe e molte altre: donne che hanno in comune l’aura mitica con cui sono state ammantate dagli uomini per via della loro bellezza. Donne-simbolo che hanno lasciato un segno nell’arte, nel teatro, nel cinema, nella letteratura, un segno sempre mediato però dall’immaginazione maschile. Cleopatra e il serpente racconta con approccio critico e liberatorio le storie, le leggende e l’iconografia non soltanto di molte di loro ma anche di quelle donne che hanno tracciato nel tempo nuove vie alla ricerca di rappresentazioni lontane dagli stereotipi.

L’estetica antica si fonda sulla corrispondenza tra bellezza e virtù; esse si sostengono a vicenda. Ma non sempre quel binomio dice il vero; spesso è solo un inganno. È una prigione; serve a ingabbiare l’universo femminile nelle maglie della bellezza virtuosa. Per essere bella, la donna deve essere anche buona; senza scivoloni né distrazioni. A costo di annullare se stessa. Per i Greci, la καλοκάγαθία ha una finalità etica; è precetto per una vita sana. Ma esistono anche soggetti non belli o non buoni; sono individui negativi, cattivi esempi. E quasi sempre sono donne.

Elena di Troia è bella, anzi bellissima; la più bella tra le belle. Ma non è buona. Per Omero e molti altri è cattiva; per qualcuno è una vittima. Per tutti è causa di guerre, lutti e vendette. Le fonti concordano sulla sua origine divina. Elena nasce dall’unione di Zeus e Leda, moglie di Tindaro; dunque è figlia di un adulterio. La sua bellezza è proverbiale; travalica i confini del regno di Sparta.

Tutti i principi greci, attratti da quella sirena, ne chiedono la mano; Tindaro convince i pretendenti a stringere un giuramento. Qualora uno dei respinti avesse insidiato la sposa, gli altri sarebbero intervenuti; avrebbero combattuto in sostegno del prescelto. Questo giuramento è la premessa politica della guerra di Troia; lì risiede la dannazione della bellezza di Elena. La donna deve essere intoccabile e intoccata; chiunque la reclami per sé accende la scintilla della violenza. Il prescelto è Menelao; Paride gli strappa la sposa. In nome del giuramento, i greci impugnano le armi; l’esito è la guerra. Proviamo a prendere le parti di Elena; poniamoci alcune domande. Siamo sicuri che sia consenziente? Viene sedotta o ghermita con la violenza? I più propendono per la seconda ipotesi; Elena non sarebbe colpevole riguardo la fuga a Troia. Ma ciò non attenua l’altra colpa; quella di aver scatenato una guerra. Euripide tenta di difenderla; nella tragedia del 412 a.C. introduce il tema del doppio. Il copione scinde la madre e l’adultera; queste saranno le due immagini consuete della donna. Euripide si ispira a una orazione di Gorgia; per discolpare Elena, costui usa la ragione dialettica. Nella sua argomentazione, il sofista ripropone il conflitto tra volontà e destino; nella sfida con gli dèi, la volontà individuale dell’uomo è destinata alla sconfitta. L’iconografia successiva tende a smontare il dualismo euripideo; Elena è più adultera che madre.

Elettra è la seconda figlia di Agamennone e Clitennestra; è nipote di Elena. Condivide con la zia il gene della bellezza? Probabilmente sì; ma la letteratura teatrale ha immortalato il momento in cui essa non appare. Quando è nascosta dall’opportunismo politico; perfino cancellata. La giovane non è in condizioni di esprimere la bellezza né di goderne; tale negazione ne determina l’indole e le scelte. Elettra compare nelle Coefore di Eschilo (458 a.C.); anche Sofocle e Euripide le intitolano una tragedia. Il testo sofocleo è tra i suoi meno noti; si concentra su Oreste, ossessionato dalla vendetta. La versione di Euripide è molto diversa; Elettra partecipa in prima persona all’assassinio della madre. Prima di ucciderla la accusa; in un’aspra requisitoria le rimprovera di averle rovinato la vita. Nel conflitto con i padri, i figli hanno sempre dovuto soccombere; Euripide sconvolge questo esito. Elettra si ribella e vince; si assume la responsabilità dell’atto omicida. Prende in mano la propria vita, cresce; diventa adulta. Ci chiedevamo se Elettra sia bella; di sicuro rivendica il diritto a esserlo. Proprio questo è il cuore dell’accusa; Clitennestra è colpevole della gelida verginità della figlia. Euripide non mette in scena solo un conflitto generazionale; mostra soprattutto un confronto tra due modi di vivere la bellezza. Clitennestra l’ha indossata come uno strumento per appianarsi la strada; Elettra come identità negata.

Nel 431 Euripide dedica una tragedia a Medea; è lui a fissarne il prototipo radicato nell’immaginario occidentale. Quello della donna ferita; cieca furia devastatrice che si abbatte sui suoi stessi figli. Giasone la ripudia per una compagna più giovane e più ricca; le nega l’identità di moglie e madre. Che altro le resta? Un’unica strada; annullare quella personalità fondata sull’amore e sulla maternità. Per sposare Giasone, Medea ha affermato la propria individualità. Ha rinnegato il padre; ha rinunciato a un futuro da principessa. Dalla natia Colchide è finita in una terra straniera; era aggrappata all’uomo e alle sue promesse di felicità. Euripide la mostra a Corinto; il re Creonte offre a Giasone la figlia. Attratto da potere e ricchezza, l’esonide non ha dubbi; sposerà Glauce. E Medea? Pazienza; se ne farà una ragione. Ma tutti ne temono l’ira; si sa, è risoluta e carismatica. È diversa; anche in quanto straniera. Giasone cerca di addolcirle il boccone amaro; di nobilitare il rifiuto con una finta premura paterna. “Bisognerebbe che i mortali potessero generare i figli in un altro modo e che non esistesse la razza femminile. Così per gli uomini non ci sarebbe più alcun male”[1]; travolto dalla furia di Medea, Giasone svela il proprio pensiero. La donna, accecata dal dolore e dalla rabbia, medita vendetta; prima tocca a Glauce. Poi il piano è portato a compimento; la nemesi si consuma sui corpi dei figli. Un castigo terribile si abbatte su Giasone; in quanto padre privato della discendenza, la sua mascolinità è annullata. Medea è bella? La questione è meno chiara che in altri casi; agli occhi di Giasone tutte le donne sono uguali, a meno che non siano giovani accondiscendenti. Gli abitanti di Corinto non riconoscono a Medea il diritto di esistere come individuo; le attribuiscono solo la funzione riproduttrice. Non la accettano come donna; è espressione di una diversità che la società rifiuta. Di certo, anche se bella, Medea non è virtuosa; per lei vale il modello di Elena.

Nell’immaginario occidentale Circe appare nell’Odissea; abita nell’isola di Eea, circondata da ninfe e da animali. Che erano uomini, incappati nelle sue arti magiche; così anche i compagni di Odisseo. Il re di Itaca è protetto dagli dèi; Circe lo risparmia. Ne diventa amica, confidente; e amante. Dopo un anno, Odisseo riprende il mare; i consigli della maga come viatico. Al momento della partenza, Circe non fa scenate; si chiude con dignità nel proprio palazzo. Ma né l’accondiscendenza né la bellezza valgono a trattenere Odisseo; a Itaca lo attende la moglie. Penelope incarna il modello della donna tradizionale; è raggomitolata nel proprio ruolo, nel focolare domestico. Omero la contrappone a un’altra tipologia; le donne che Odisseo incontra nel lungo viaggio. Tutte libere, di una selvaggia regalità; baciate da una bellezza quasi divina. Circe lo avverte; a Itaca troverà una moglie fedele ma invecchiata. E rammenta a se stessa un’amara verità; la bellezza non basta a salvare una donna, non è pegno d’amore eterno. Omero condanna la maga alla solitudine; a consumare nell’irrequietezza la sua immortalità. Tra il I e il II secolo d.C., Plutarco interviene a riscattarla; le dedica una curiosa opera, Bruta animalia ratione uti. L’autore immagina che Odisseo rivolga una richiesta a Circe; che restituisca fattezze umane a tutti gli altri greci prigionieri nell’isola. La donna concede la favella a uno di loro; costui spiegherà se è insoddisfatto o meno della condizione di bestia. Il testo di Plutarco si fonda sul dialogo tra tale Gryllus e Odisseo. L’ex uomo è un finissimo ragionatore; argomenta con agilità fino alla conclusione. Gli animali sono uno scrigno di virtù; gli uomini un pozzo di falsità e ignominia. Quello che ci interessa è la difesa di Circe; per Plutarco è una benefattrice. Muta gli uomini in bestie; ne tira fuori le migliori qualità. Nella Telegonia le vicende di Circe e Penelope si intrecciano; la specularità è ancora più evidente. La maga è una bellezza conturbante; la regina famosa per le sue virtù. Non è bella, Penelope; anche la sua poca avvenenza è una gabbia. Il mito ha inteso inchiodarla al destino di donna fedele; di moglie tradita che perdona il traditore.

Ci spostiamo a Roma. Nella valutazione delle qualità umane, la società latina introduce un nuovo criterio; la ricchezza, spesso spacciata per nobiltà. Porzia è “la nobile moglie” del “nobile Bruto”; figlia di Catone l’Uticense, ne eredita il rigore etico, fino allo stoicismo. La sua è una vita ricca di passioni estreme, di convinzioni radicali; anche questo per i romani è sinonimo di nobiltà. La presenza di Porzia accanto a Bruto va oltre la bellezza e l’amore; gli sposi sono legati da una potente idea di etica romana. Ottaviano e Antonio sconfiggono Bruto a Filippi; pur di non piegarsi al vincitore, Porzia si dà la morte. In cosa consiste la sua bellezza? Al crepuscolo della Repubblica, l’unico vero dio è Roma; vissuta come soggetto identitario e collettivo. Porzia è bella e nobile perché incarna un’idea; quella di un’identità plurale ormai morente.

Cleopatra e il serpente di Nicola Fano - Photo by Tiziana Topa
Cleopatra e il serpente di Nicola Fano – Photo by Tiziana Topa

I fedeli di Ottaviano detestano Cleopatra; ha traviato Antonio, ha rifiutato di adeguarsi al mos di Roma. Di lei poco sappiamo; molto ipotizziamo. Figlia di Tolomeo XII, nasce nel 69 a.C.; è la prima e unica regina d’Egitto a esprimersi con i sudditi nel proprio idioma. Stando a numerose fonti, tra cui Plutarco, il suo fascino non è legato tanto alla bellezza; piuttosto alla capacità di interloquire in modo colto e raffinato. L’immagine di Cleopatra bella e lasciva è una costruzione distorta; una leggenda alimentata dalla propaganda di marca ottavianea. Il primo a cambiare prospettiva è Shakespeare; i suoi Antonio e Cleopatra sono due personaggi maturi, prede di una passione fuori controllo. In Italia, nell’età barocca, Cleopatra è un soggetto quasi obbligato; i pittori che aspirano alla fama la ritraggono. In tutte queste opere ricorrono due attributi; ognuno assolve una funzione simbolica. Il serpente rimanda alla cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden; il seno nudo allude al binomio bellezza e lascivia. Non sappiamo se Cleopatra fosse davvero bella; non ci è arrivata nessuna testimonianza diretta. Alcune monete ne riportano l’effigie; il naso è prominente, l’incarnato deteriorato. Una testa conservata nei Musei Reali di Torino pare avvinarsi alle vere fattezze; in marmo di Thasos, è databile all’età di Cesare. Delicata, lo sguardo dolce; quanto di più lontano dall’immagine di una donna lasciva.

Siamo in pieno Rinascimento. Non tutte le donne si contendono il primato della bellezza; qualcuna si sottrae alla competizione. Si tiene ai margini dell’agone estetico; fa dell’ostentazione della bruttezza una difesa. Conosciamo il volto di Battista Sforza; Piero della Francesca la ritrae insieme al marito, Federico da Montefeltro. Battista è figlia di Alessandro Sforza, signore di Pesaro; nata nel 1446, presto resta orfana di madre. Il padre la manda a Milano, presso la corte dello zio Francesco; lì viene educata secondo i principi della più alta nobiltà. La bambina apprende le buone maniere; e sviluppa una passione umanistica. Nel 1460 Alessandro la dà in sposa a Federico; da questo momento la vita di Battista si svolgerà all’ombra del marito. Un’ombra apparente; come apparente è la sua bruttezza. Battista sceglie la strategia della dissimulazione; vi si attiene fino alla fine dei suoi giorni. Capiremo perché. Rientrata a Pesaro, era stata avviata allo studio del latino e del greco; il suo maestro era Martino Filetico, uno dei poeti più raffinati dell’epoca. Battista contribuisce alla fioritura culturale della corte urbinate; il suo mecenatismo segna una stagione di formidabile creatività. La duchessa si distingue anche nella gestione dello Stato; pare che avesse delle competenze anche in campo militare. Una donna di notevole statura, Battista; mai sfiorata dalla tentazione di primeggiare. Preferisce restare di fianco al marito; la leggenda vuole che i due si amassero davvero. Battista va ricordata per le qualità multiformi; la sua è una vita breve, ma densa di esperienze. Muore nel 1472, a ventisei anni; Federico le sopravvive per un decennio, senza risposarsi. Battista era bella? La sua iconografia è concentrata in due opere; una è il già citato ritratto eseguito da Piero. L’altra è un busto marmoreo; è conservato al Museo del Bargello di Firenze. Francesco Laurana lo scolpisce dopo la morte della duchessa; nella sua fissità, il volto esprime una certa grazia. Il ritratto di Piero non sembra fissare sulla tela una donna bella; ma ciò non significa che Battista fosse brutta. Di sicuro, Federico non era avvenente; una malattia cutanea e un incidente ne avevano deturpato il volto. Accanto a lui, la moglie accettò di nascondere le proprie reali fattezze; nel ritratto l’incarnato è bianchissimo, l’attaccatura dei capelli troppo arretrata. Non è pensabile che siano sviste di Piero; egli usava esprimere lo spirito degli individui nella loro fisicità. Il maestro ha reso “brutta” Battista; possiamo ipotizzare che abbia voluto assecondarne l’essenza interiore. La duchessa era una persona misurata; si sottraeva alla magnificenza della nobiltà. Le interessava essere ricordata per la sostanza delle cose fatte; non per un’immagine ornata ed evanescente. Si è schierata contro la bellezza; ciò le ha evitato di finirne ingabbiata. La struttura del doppio ritratto suggerisce una riflessione; gli sposi sono uno di fronte all’altro. Ciascuno ha il medesimo peso specifico nella partitura complessiva; sono due pari. Nessuna supremazia del maschio sulla femmina; Piero rappresenta due esseri umani che godono di reciproco rispetto.

Un’altra donna ha cercato di combattere la bellezza; si tratta di Elisabetta Tudor. Regina d’Inghilterra tra il 1558 e il 1603, tesse una raffinata strategia politica; costruisce una falsa immagine di se stessa, funzionale alla percezione maschile. Elisabetta nasce femmina per un dispetto della sorte; avrebbe dovuto essere un maschio. Così avevano assicurato gli scienziati; Anna Bolena, la nuova moglie di Enrico VIII, avrebbe generato il futuro re d’Inghilterra. Invece nasce Elisabetta; il marito, cieco di rabbia, accusa Anna di aver tramato contro di lui. La fa giustiziare; la bambina è obbligata ad assistere all’esecuzione. Ha solo tre anni, quando vede cadere la testa della madre; è la radice del senso di colpa. Anna Bolena è stata decapitata per colpa della figlia; o meglio, del sesso della figlia. Elisabetta decide di costruire un’immagine altra di se stessa; se non maschile, almeno asessuata. Dopo il breve regno di Edoardo VI, sale al trono la sorella maggiore; Maria la sanguinaria, cattolica sposa di Filippo II, fa strage dei protestanti. Alla sua morte, Elisabetta diventa regina; si dichiara anglicana, ma non nemica dei cattolici. Il progetto del padre era rendere grande l’Inghilterra; la figlia lo traduce in realtà. Elisabetta I segna la storia europea; ma deve pagare un prezzo. Rinuncia all’identità femminile; la Vergine Regina è sposata al popolo. Non fa leva sulla bellezza; non vuole essere prigioniera di quel cliché. Asessuata; così la celebra l’iconografia ufficiale, basata sul ritratto di William Segar e sull’Armada Portrait, attribuito a George Gower. In entrambi colpisce l’incarnato diafano; più che il fascino, viene esaltato il distacco dai canoni di bellezza classica. I tratti sono irregolari, la postura troppo immobile; Elisabetta vuole respingere da sé ogni parvenza di femminilità. La sua mitologia è fondata su tutto ciò che esclude la bellezza; e sul rigore con cui esercita il potere. Governa come un uomo; per farlo, deve essere meno donna possibile. Il primo tributo post mortem le viene dedicato da Shakespeare; nell’Ottocento a farla rivivere sono Friedrich Schiller e Gioacchino Rossini. Entrambi rovesciano il mito asessuato; quella che calca la scena non è Elisabetta I, ma una donna innamorata e debole.

Abbiamo nominato Shakespeare; torniamo a lui per parlare di Ofelia. Bella; perfetta; ancora più che bella e perfetta, secondo John Everett Millais. Il tormento interiore di Ofelia rappresenta in pieno lo spirito dei preraffaelliti; una diffusa sensazione di privazione interiore pervade la loro arte. Nel 1851 Millais fissa un’immagine che resterà inalterata; una giovane donna morta portata dalla corrente. Il viso e le mani ben definiti; e una postura da santa. Nella tragedia shakespeariana, Ofelia, uscita di senno, si suicida; si lascia annegare nel fiume vicino Elsinore. Millais la coglie in questo momento; ne enfatizza il gesto. Perché Ofelia si uccide? Spesso in Shakespeare l’amore è opportunità di crescita, di libertà; con il matrimonio, le donne hanno la possibilità di vedere allentati i condizionamenti sociali o paterni. Ofelia vive in un mondo di maschi possessivi; il padre e il fratello incarnano un potere immobile, monolitico. Amleto non è solo un amante; rappresenta un modello di vita in cui i sentimenti non valgono meno delle gerarchie. Il principe impazzisce per ragioni a lei ignote; con lui Ofelia perde anche se stessa, dopo aver perso la propria rivolta individuale. Le restano solo due modi per ribellarsi; la pazzia, il suicidio. È bella Ofelia? Shakespeare dice che è the most beautified; Eugenio Montale traduce con “arcibellissima”. Abbellita dalla sorte, dalla cosmesi, dalla vita virtuosa; la bellezza di Ofelia è totalizzante. Con il suicidio, ella rovescia il proprio destino; infierisce sul proprio corpo. Deliberatamente, uccide la propria bellezza; ciò che gli uomini hanno sempre usato contro di lei. Quella di Millais non è Ofelia; bellissima nonostante la morte, è piuttosto Giulietta.

Passiamo a una donna in carne e ossa; con un salto temporale arriviamo all’inizio dell’Ottocento.

Esiste la bellezza etica? Rose Montmasson ci risponde con la sua stessa storia; essere bella o meno, non è un suo problema. L’aspetto esteriore, semmai, le crea fastidi; sono i maschi a cucirle addosso etichette. Ostinata, cerca di strapparsele via. Rose nasce nel 1823 in Alta Savoia; all’epoca una terra di coltivatori e povertà. È la quarta figlia di una coppia di contadini di montagna; una condizione ingrata, tanto più dopo la morte della mamma. Tra il 1848 e il 1849 si rincorrono follie, illusioni, trasformazioni; in una manciata di mesi anche nella vita di Rose si affaccia il cambiamento. Se ne va di casa; o forse viene cacciata. Finisce nella capitale, a Torino, in cerca di fortuna; si offre come lavandaia e stiratrice. Non si impiega a tutto servizio; inquieta e ribelle, prende alloggio in libertà. Sceglie di non impegnarsi con un solo padrone; e lavora per tanti. Intanto la “primavera dei popoli” sembra sul punto di sbocciare; il sogno di un futuro giusto è a portata di mano. Ma il risveglio è brusco; e durissimo, per tutti. Anche per Rose, la quale si ritrova sola; abbandonata dal suo uomo. Chi è il fedifrago? Uno dei datori di lavoro; il più importante. È Francesco Crispi; siciliano, intellettuale, avviato a una parabola che lo vedrà capo del governo. Un tipo discusso; e bugiardo e corrotto. Si innamora della sua stiratrice nell’inverno tra il 1848 e il 1849; la loro è una vera storia d’amore. Non conta la differenza di ceto; né il divario culturale; non importa nemmeno che egli abbia già un figlio. Sulle prime, le cose vanno bene; nel 1850 Rose e Francesco iniziano a convivere. Crispi non ha lavoro, si limita a scribacchiare per qualche giornale progressista; tanto lo mantiene Rose a suon di biancheria e camicie. Nel 1853 gli eventi precipitano; la rivoluzione promessa da Mazzini fallisce. Crispi raggiunge Malta insieme a Rose; sull’isola la coppia si sposa, in fretta e furia. Il rito viene celebrato nel sottoscala di una chiesa; a officiarlo è Luigi Marchetti, un gesuita girovago dalle idee rivoluzionarie. Gli sposi sono costretti a scappare ancora; Crispi si imbarca per Londra. Rose aspetta la trascrizione del matrimonio, porta le carte a Genova; da lì riparte per raggiungere lo sposo. L’ambiente degli esuli italiani a Londra è difficile; Crispi riesce a inserirsi con l’aiuto di Rose. La donna parla quattro lingue, tra cui l’inglese; il marito parla il siciliano e scrive in italiano, niente di più. Rose accetta anche di farsi staffetta della rivoluzione; vestita da contadina, gira l’Europa per portare i messaggi di Mazzini. Nel 1856 la coppia si trasferisce a Parigi; Crispi cospira e scrive, Rose si rimette in viaggio. Continua a lavare e stirare; e a mantenere il marito. È una donna di origini contadine; ma forgiata dal lavoro e dalla responsabilità. Una donna che ha vissuto in tre capitali europee; che conosce le Alpi e il Mediterraneo. Il suo bagaglio è pieno; di esperienze, di persone, della vita e del mondo. Ma per Francesco è bella; e basta. Rose è l’unica donna dei Mille; per nascondere la bellezza e giustificare il coraggio si veste da soldato. Nel corso delle battaglie siciliane non si tira indietro; combatte, organizza presìdi medici per curare i feriti. In loro onore, cambia il proprio nome; diventa Rosalia Montmasson. Finita l’epopea dei Mille, Crispi si fa eleggere in Parlamento; per lui comincia un’altra vita. Le abitudini patrizie e i lussi prosciugano le sue finanze; l’aiuto della moglie non basta più. Non basta più quella moglie; prossima ai cinquant’anni, ha perso il fascino sensuale. La bellezza è sfiorita; solo un ricordo di gioventù che Crispi vuole cancellare da sé. Gli serve un’amante giovane, ricca, prestigiosa; dopo venticinque anni insieme, abbandona Rose. Nel 1878 è ministro dell’Interno del Regno d’Italia; sposa una aristocratica leccese che gli ha già dato un figlio. Rose non lo ostacola; ma rivendica l’autenticità del loro amore. Crispi è bigamo; processato, dimostra che il matrimonio maltese è falso. Viene scagionato; riprende la carriera politica. Rose gli sopravvive tre anni; muore in miseria nel 1904, a Roma. La bellezza è stata la sua prigione; ha cercato di liberarsi seguendo un ideale impossibile. La bellezza etica; la virtù interiore.

Troppo alta, troppo bella, troppo libera; le parole di Picasso suonano come un’accusa. Egli si rivolge così a Dora Maar, protagonista di una storia emblematica; è proprio Picasso a scriverne la parte più dolorosa. Dora nasce a Parigi nel 1907; figlia di un architetto croato e di una donna francese, giovanissima diventa un astro del movimento surrealista. Nel 1935 aderisce al gruppo Contre-Attaque, fondato da Breton e Bataille; una compagine rivoluzionaria, antiparlamentare e antiborghese. Dora e Picasso si conoscono nel 1936 in un caffè di Parigi; li presenta Paul Éluard, amico comune. L’una ha appena chiuso la relazione segreta con Bataille; l’altro, reduce da un divorzio, ha una storia con la modella del momento. La fine del matrimonio segna una profonda crisi stilistica; Picasso è tornato al cubismo ma non è appagato. Qualcosa in lui chiede di andare oltre; in questa fase di travaglio avviene l’incontro. Le vecchie armi della rivolta artistica non gli bastano più; deve trovare un altro modo per ritrarre il dolore del tempo. Lo trova in Dora Maar. Genio nell’arte, Picasso non brilla nei rapporti con le donne; ma con Dora supera se stesso. Le impone di abbandonare la fotografia, di misurarsi nella pittura; sicuro di essere inarrivabile. Ne fa la propria modella, segretaria, organizzatrice; in cambio ottiene devozione. E sottomissione; per lui Dora annulla se stessa. Il maestro le dedica numerose raffigurazioni; la donna appare sempre come la musa del dolore, dell’incompiutezza della vita. La rottura avviene nel 1943; Picasso inizia a tradirla. Con la scomparsa dei genitori, Dora è sola; inghiottita da una realtà terribile, finisce in una clinica psichiatrica. La terapia psicanalitica con Jacques Lacan la riporta in sé; dagli anni Cinquanta riprende a dipingere per sopravvivere. Tornerà dietro la macchina fotografica molto tempo dopo; ma la potenza delle invenzioni giovanili è ormai lontana. Muore nel 1997; in solitudine. Dora Maar era bella; lo testimoniano i ritratti di Man Ray, le immagini in bianco e nero, i ricordi di chi la conobbe. Solo nei ritratti di Picasso è “brutta”; il viso scomposto e multiforme. Il maestro ha rovesciato il senso dell’arte del ritratto; è il proprio stato d’animo che fissa sulla tela. Per lui Dora ha rinunciato a se stessa, alla propria bellezza; gli ha permesso di portare a termine una rivoluzione artistica. Picasso ha conquistato l’estetica del brutto; è giunto a sovvertire la millenaria tradizione di segno opposto.

Marilyn Monroe è indubbiamente una brava attrice; ma ciò che ne suggella la memoria è la bellezza. Ai suoi tempi essa deve essere capricciosa, magari tormentata, “chiacchierabile”; e, quanto più possibile, chiacchierata. La parabola di Marilyn segna nel Novecento un punto di non ritorno; il mito dell’armonia interiore cade sotto il peso delle apparenze. L’attrice nasce nel 1926 a Los Angeles; e a Los Angeles muore nel 1962. Il padre è incerto; Norma Jeane Baker Mortenson porta i cognomi dei mariti della madre. Una salute mentale instabile costringe la donna, Gladys Monroe, ad abbandonarla presto; Norma cresce tra orfanotrofi e famiglie adottive. Nessuno le dimostra affetto; solo violenza e umiliazioni. La conquista del successo è lenta; sarà l’incontro con alcuni maestri della regìa a consacrarla star indiscussa. Tre i suoi matrimoni; assai diversi, tutti clamorosi. Il primo viene celebrato quando ha diciotto anni; il marito è un meccanico. Ai tempi del secondo è già un’attrice affermata; quella con Joe Di Maggio è un’unione turbolenta. Il terzo matrimonio è il più eclatante; la star sposa il commediografo Arthur Miller. Le vengono attribuite altre dozzine di relazioni; il chiacchiericcio le cuce addosso brandelli di vita falsi e incongruenti. La contraddizione è l’impronta che si vuole dare alla sua immagine; essa segna la nascita del primo mito globale. Quella di Marilyn Monroe è una bellezza ormai svuotata di senso; culmine di un percorso millenario, da Elena al Novecento. Vincere perdendo; l’attribuzione del primato di bellezza giocava sulla spersonalizzazione dell’individuo femmina. Con Marilyn il meccanismo è andato oltre; si è spinto fino alla creazione di un soggetto altro dall’originale. Un prodotto di consumo, adatto a qualunque esigenza di mercato; proiezione dei sogni e dei bisogni di chi comprasse quella bellezza.

Nicola Fano citazioni
Nicola Fano citazioni

Femmine contro maschi? Meglio femmine contro femmine. Se l’unione fa la forza, quella femminile è un castello inespugnabile; allora poveri noi. Questo devono aver pensato gli uomini; che si sono ingegnati per minare quella unione fatale.

“Perché questo è il tema in discussione: come i maschi abbiano ingabbiato ciò che delle femmine ritenevano pericoloso. Ossia l’identità stessa di questo essere diverso. E così, per proteggersi, concedevano ad alcune di loro la patente della bellezza che non è un valore che possa misurarsi in modo oggettivo”.

Il mondo femminile come un ring; le donne vi si sfidano a colpi di belle forme, grazia, fascino. Gli uomini si sono posti al bordo; per secoli hanno dominato la sfida tra donne, tra modelli di donne. La bellezza non è un mezzo per cantarle; ma è l’arma per assoggettarle. Con quella etichetta, i maschi giudicano le femmine, le costringono in un cliché immobile; l’aggettivo “bella” è stato spesso accompagnato da altri, meno lusinghieri. Come “bella e lasciva”; ciò che il serpente sibila sul conto di Cleopatra.

 

Written by Tiziana Topa

 

Bibliografia

Nicola Fano, Cleopatra e il serpente, Elliot Edizioni, 2024

 

Note

[1]    Euripide, Medea, Feltrinelli, 1995 (a cura di Laura Correale), vv. 555-575.

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