“Il fuoco che ti porti dentro” di Antonio Franchini: scrivere è aspirazione o dilazione?
Il fuoco che ti porti dentro di Antonio Franchini m’ispira una tesi che non so definire se scientifica o religiosa. Diciamo che è di tipo letterario: mezzo e mezzo.

Uno scrive perché c’è in lui un combustibile che tende a farlo ex-agerare, a farlo uscire dagli argini e questo spiegherebbe perché un attento critico come Gino Ruozzi sia tanto interessato alla scrittura che si forma a ridosso dei fiumi, tra gli stessi e le golene… Oppure ho solo sognato di averlo sentito dire qualcosa del genere… Mi capita ogni tanto di fraintendere il prossimo. Forse se non avessi ‘sta disgraziata tendenza a distrarmi non leggerei tanti libri, ma praticherei la meditazione trascendentale, causando meno danni.
Se può sembrare che la stia prendendo comoda e un po’ in ridere è perché questo romanzo Il fuoco che ti porti dentro m’ha inquietato non poco. L’ho finito di leggere stamattina e ne ho iniziato subito dopo un altro.
Non appena la luce del giorno si spegne, contrariamente a quanto faccio abitualmente, decido di non aspettare l’indomani e di iniziare a scrivere la mia, pur di togliermi il dente entro sera.
Rimango come annichilito dalla prima frase de Il fuoco che ti porti dentro, che non riporto perché mi disturba. Gabriele D’Annunzio amava l’aggettivo aulente (ricordo le coccole aulenti, che per gioco chiamavo caccole). Chi non lo è mai stato, aulente, getti il primo effluvio… L’odore è un segno di vita che lentamente se ne scorre via o che improvvisamente sta risorgendo. È un fenomeno fisico che indica un movimento, un’energia in eccesso. Mia madre, che ci teneva a a sdrammatizzare qualsiasi situazione, quando sentiva qualcuno emettere una loffa, garantiva ai presenti che era un segno di salute, per cui erano poi tutti contenti.
Mi domando, qualora le due genitrici s’incontrassero Chissà Quando e Dove, che sorta di rapporti mia mamma potrebbe stabilire con Angela, protagonista indiscussa del romanzo di Antonio, donna intelligente e studiata, avendo fatto il liceo (mia madre la licenza elementare). E ricca di saggezza, che ella, in ogni suo scetarsi la mattina, destina a un ardente sacrificio rituale (tipo lo yajña vedico) al nume su cui più confida: se stessa. Che non è affatto l’unico, ma il più brillante di luce propria.
Angela è un prototipo di presunzione, che va per nominato, essendo paradigmatico. Lei dice e disdice, afferma e rinnega, ma che l’unico ente che ha valore per lei è la sua attuale voce, emessa in quel fuggente attimo, opportunamente modulata secondo il mistico caso (e l’arcana necessità).
In gergo sportivo, si potrebbe dire che Angela è una costante presenza sotto canestro, sempre pronta a schiacciare la palla nel cesto. Oltre trent’anni fa conobbi una persona del genere, ma non è il momento di ampliare il discorso. Ora chi ha diritto a esibirsi in scena è lei, e solo lei, Angela. Mi limito a dire che dalle sue parti cominciai a riscoprire il tempo remoto, io che avevo passato la mia vita sospeso fra il passato prossimo e il conseguente futuro.
“Mia madre si chiama Angela e fra le infinite cose che non ama la prima è il suo nome.” – un nome delimita un corpo, segnandone i confini. Per cui Angela ne aggiunge altri due: “Carmela, Candida!” – e lo scopo palesemente è distrarre l’uditore, annichilirgli la parola, impedirgli di chiamarla all’ordine ed eventualmente sancirla. Lei non deve essere attestata da alcuno, ma rimanere onda probabilistica: così avrebbe suggerito Niels Bohr.
Caro il mio Antonio, a pagina 9 de Il fuoco che ti porti dentro scrivi: “La detesto da sempre…” – etimologicamente rigetti ogni sua testimonianza, in quanto persona coinvolta nei fatti e inattendibile.
“Non so se la odio, anche se spesso ho pensato di odiarla…”: allorché la respingi da te, non sempre, ma in modo intermittente. In diversi casi ti presti invece alle sue cogenti necessità.
Quanto inizi a narrare a pagina 14 spiega la ragione per cui la domitilla (casalinga) media campana dedica tanto tempo al catartico lavaggio dei pavimenti, rito di stampo religioso e sociale. La casa deve rifulgere come uno specchio, essendo costumanza che la vicina bussi, un paio di volte al dì.
E, alla stessa, inevitabilmente, dovrai offrire un caffè con le tre C (Corto, Caldo e la terza non mi viene in mente mai, per cui anch’io finisco per riportare la versione che indichi tu). E confermo quel che dici: una campana verace non si degna di sorbire un caffè riscaldato, che equivale a ingurgitare un’ostia consacrata ai tempi di Carlo Magno.
“E allora vò dicere ca nun te vò bene!” – lo sai che anche nel mio dialetto non esiste il verbo amare, bensì vrèir bèin? Il legame che ti lega all’Altro, se non è affidato all’etica del tempo, non vale granché.
“.. .sento il sangue ribollire e torcersi i visceri, quando penso: ma io che c’entro con questa donna.” – non ci sei mai entrato, ma ne sei uscito. Ed è giusto che tu ora te ne vada per i fatti tuoi.
“È la vergogna, perché da sempre io mi vergogno di mia madre.” – termine che contiene il termine verèri, riverire. Stai semplicemente cercando il tuo nuovo culto. Che gli Dei ti stiano appresso!
“Mi ha reso come lei, incapace di opposizioni costruttive…” – un conflitto che mira a distruggere l’Antagonista, un dramma che è diffuso ovunque, oppure no?
“… non ci si confronta, si grida e si aggredisce…” – è il male che sorge dall’insana passione per sé.
“Divorati nella notte da giovani come il corpo di un’amante, da vecchi i libri ci servono soprattutto a questo, a chiudere gli occhi.” – e a pensare a quel che si potrebbe scrivere l’indomani.
Ora ti comunico il mio preferito detto arşân: tót i cajòun a gh ân la só pasiòun – ognuno a rincorrere i suoi guai, canterebbe Vasco Rossi.
“La sola idea di morte che accarezzo è quella in battaglia, e tutto questo è ancora più assurdo perché mi considero razionale e descrivo lei come una pazza.” – sei in grado di ragionare, quanto non si sa.
Inutile dire che la parola che Angela usa più di frequente è “zoccola” – se ci pensi non è un fatto negativo. I roditori in genere sono più intelligenti di altri animali. Una volta lessi che, in caso di tramonto della civiltà umana, sarà un branco di zoccoloni a regnare sulla Terra. Prima o poi anche loro impareranno a camminare su due zampe. E a leggere e a scrivere libri.
“… nonostante la presenza di Angela elevi sempre il rischio di scontro a percentuali altissime.” – è una specie di catalizzatore, grazie a quel fuoco che le arde nell’alveo di sé, in modalità sempiterna.
“… mi avvento su di lei perché mi hanno insegnato che dal pericolo non ti devi allontanare ma, se vuoi diminuire il danno, devi andargli incontro.” – dopo di cui senti bum! e vada come deve andare!
“Io so che è da qui che nasce il male di Angela e forse del mondo.” – e di te, di me e dei nostri consanguinei, che un giorno cesseranno d’essere innocenti, come capitò a noi.
“Ha sempre candidamente ammesso, anche quando era più giovane, di non avere mai ascoltato le parole degli altri.” – una volta mi sentii dire da Chi so io: mi confondi con la tua logica!
“… parla. Non fa altro, parla, di continuo.” – è il suo mestiere, la sua alchimia.
“… in estate, la stagione più propizia alle liti familiari…” – quando c’è una più intensa luce: E = mc2, dove c è il valore della velocità della luce nel vuoto.
Chi so io, allorché gridava, si recava a esibirsi in terrazzo, sotto il sole energeticamente cocente.
“No, ma che dici? È troppo forte tua madre, troppo simpatica. Che donna! Che vitalità…” – dicevano così anche di Chi so io.
“… scrivo perché voglio scrivere e non perché abbia qualcosa da raccontare, una velleità che posso arrivare a capire da dove viene e anche, purtroppo, dove va: da nessuna parte.” – è arrivata qui… e sta andando oltre, sempre più ex-agerando.
“Scrivere di solito è aspirazione o dilazione, più raramente è atto: come l’amore e molte altre cose importanti nella vita, del resto.” – mero caso e pura necessità.
Che spettacolo dev’essere stata quando ansimava: “Eeeeh… lo sai e lo strasai… S’arrobbano ‘o respiro! S’arrobbano ‘o respiro mio e ‘o danno a quella vecchia là… e se credono ca io nun me n’accorgo…” – omissis…!
“Aggia fà ‘a pazza? Io ‘a pazza ‘a saccio fà bona…” – un’incommensurabile artista!
“… Secondo te è bello? È una bella cosa?” – è il suo abituale modo di recitare, fare continue domande, senza mai dare ascolto alle conseguenti risposte…
La sua modalità preferita è però l’affermazione, del tipo: “Io sapevo che l’avevano arrestato.” – seguito da un retorico: “Sì, vabbè.” – prendiamo la doxa ufficiale per la fésseria ca vale.
“… non siamo fatti per la verità…” – noi siamo illusori come la verità in cui diciamo di credere.
“… ha sempre perseguito la sua idea di diversità…” – e l’ha quasi raggiunta: ma quel quasi è stato per lei certamente doloroso.

Mi rallegra il timore che ha il tuo affine buddista, quando prospetta una triste reincarnazione della suocera Angela… che tu non chiami mai, nel romanzo almeno, mamma!
A pagina 198 de Il fuoco che ti porti dentro ti diverti a riportare le sue esternazioni. Più di altre, più funeree, esse sanno destare in me una folle ilarità.
La retorica di mamma tua è un patrimonio dell’umanità, meritevole d’essere eternata. Tu lo stai facendo. Pure tuo padre è un tesoro da salvare, anche se le sue creazioni sono più sporadiche. Ma che dire di questo suo pensiero: “… il mare guarisce perché è acqua che brucia…” – nulla è più salvifico!
Pensando a loro due e al rapporto che ebbi con Chi so io, sarei portato a dire che si passa da un amore sbagliato all’altro e il peggiore lo si sposa, essendo quello forse inevitabile.
Sai cosa ho amato maggiormente del tuo romanzo Il fuoco che ti porti dentro? Il tuo andare avanti e indietro nel tempo, come sicuramente capita a tutti, quando si è in dormiveglia e si cogita al bel tempo che fu e che sarà.
Le migliori idee sorgono tra un sonno e l’altro, ma poi, in genere, si scordano.
A pagina 210 una tua bella similitudine descrive il “pronto soccorso”. Me la ricorderò quando avrò occasione eventualmente di tornarci.
“Ho capito che questa era la sua forma d’amore. Una forma sbagliata, ma temo che tutti gli amori siano in qualche modo sbagliati.” – solo uno è quello giusto, ma non è stato ancora rinvenuto.
Il padre di Angela era “un costruttore” – come anche il nonno di Chi so io.
“… la letteratura sfiora la verità solo quando lo scrittore dice, alla fine, il contrario di quello che voleva dire all’inizio.” – e se si fosse scordato il fine iniziale? Che null’altro è se non un aspro ossimoro?
Sono abituato a ringraziare l’autore allorché m’insegna un termine che ignoro. Ti sono aulentemente grato per quel “vuommeche” che colgo, a pagina 221, come un fiorellino da campo. Mamma toia te l’ha imparato! O’ vero!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Antonio Franchini, Il fuoco che ti porti dentro, Marsilio, 2024