Freaks: l’attrazione verso l’anormale da Schlitzie a Frank Zappa

“Mostri o mutanti, scherzi di natura, incubi viventi, incarnazione delle nostre paure, caricatura delle nostre illusioni.” ‒ da “Freaks” di Leslie Fiedler, 1978

Freaks - Schlitzie - Frank Zappa
Freaks – Schlitzie – Frank Zappa

“Si racconta che il 6 gennaio 1898, cinque membri di una compagnia in tournée del Circo Barnum e Bailey tennero a Londra un comizio di protesta. Indetto da Annie Jones, la donna barbuta, fu presieduto da Sol Stone, la calcolatrice umana, e ne stese il verbale, con i piedi, la Meraviglia senza braccia. Il motivo era quello di sbarazzarsi del nome ingiurioso di freaks (fenomeni), chiedendo al pubblico presente possibili alternative. Vennero proposti circa trecento nomi, nessuno dei quali piacque ai dimostranti, finché il vescovo di Winchester li esortò a farsi presentare come “prodigi”, nome da loro approvato quasi all’unanimità”.

Esattamente quarant’anni dopo, mentre l’Europa si prepara alla Seconda guerra mondiale, al Congresso mondiale di Budapest i freaks si definiscono “minoranza oppressa” e reclamano pieni diritti civili.

Che quella raccontata da Leslie Fiedler nel suo “Freaks” sia verità o invenzione, il termine non viene bandito. Charles Dickens ne è ossessionato e lo utilizza spesso nei suoi romanzi, e oltre Atlantico Mark Twain si fa motivo di vanto nel farsi vedere a spasso con alcuni freaks, nani, per l’occasione.

Negli anni Sessanta del secolo scorso, 75 milioni di americani frequentano annualmente gli spettacoli del Freak Show, particolare declinazione dello spettacolo circense, molto popolare negli Stati Uniti fin dalla sua nascita, intorno alla seconda metà dell’Ottocento. Luogo provilegiato per rappresentare il grottesco, lo zoo umano dei cosiddetti “scherzi della natura” rappresenta uno degli elementi fondanti del Gotico Americano oltre che simbolo della cultura popolare, specie in quegli stati in cui è più profonda la tradizione rurale.

Dal Museo delle Cose Impossibili di P.T.Barnum (nella sua autobiografia, il famoso imbonitore quando parla di bizzarrie umane, non le chiama mai freaks, ma sempre “curiosità”), trasformato poi in circo itinerante, al fumetto di Gilbert Shelton “The Faboluos Furry Freak Brothers”, passando per Tod Browning e la sua scandalosa pellicola “Freaks” (1932) fino ad arrivare alle stagioni della serie televisiva “American Horror Story”, nell’immaginario iconografico dell’americano il diverso, l’anormale, sono il perturbante che affascina ma destabilizza, lo stigma e il prodotto bacato della società, in un processo di attrazione e repulsione che è anche rigetto inconscio di ciò che è anormale.

Relegati nello spazio geografico circolare del Freak Show, spesso con la formula del “dieci per uno”, dove l’imbonitore invita i clienti ad ammirare dieci meraviglie della natura con lo stesso biglietto che dà accesso al circo, la donna barbuta, le sorelle siamesi, l’uomo lupo, il gigante, i giovani vecchi prima di essere fenomeno clinico-medico sono altrettante manifestazioni del mostruoso, l’osceno che si inscena a beneficio dei cosiddetti normali.

Il pinhead che sorride, divertendosi con un giocattolo e cantilenando una nenia, è l’innocenza oltraggiosa che inquieta, la cosa fuori dalla norma che suggerisce il pensiero di cosa sia la stessa norma.

I pinhead come Schlitzie, forse l’uomo dalla testa a spillo più conosciuto, una di quelle storie da recuperare dalle pieghe del tempo, al secolo Simon Metz, presentato al pubblico come “L’ultimo degli Aztechi”, forse nato a Brooklyn da genitori che poi lo vendono al circo, oppure figlio di immigrati cubani, o magari originario di Santa Fe, chissà, le notizie sono contraddittorie a riguardo; Schlitzie, affetto da microcefalia, con lo sviluppo mentale di un bambino di tre anni, il piccolo uomo dalla testa a spillo che durante le riprese di “Freaks” sviluppa un attaccamento morboso per il regista, Tod Browning, diventandone l’inseparabile e fedele ombra, e che in seguito si esibisce nel freak show di Clyde Beatty e poi in quello losangelino di Pete Kortes.

“A un livello personale Freaking out è un processo mediante il quale un individuo si sbarazza di modi antiquati e restrittivi di pensiero, di abbigliamento e di etichetta sociale per esprimere creativamente il proprio rapporto con l’ambiente immediato e con la struttura sociale nel suo insieme… noi vorremmo che chiunque ascolti questa musica si unisse a noi… Freak out!”. ‒ dall’interno della copertina di “Freak Out” del gruppo musicale Mothers of Invention, 1966

Un potere potenzialmente sovversivo, quello del grottesco; l’esibizione del “diverso” che risveglia la paura primordiale incentrata sulle proporzioni e la sessualità, gli scherzi della natura mostrati in passerella, altrettante provocazioni alle convenzioni sociali e che proprio negli anni Sessanta vengono messe in ridicolo da un altro sedicente freak, Frank Zappa, talentuoso chitarrista ma anche “re dei matti”, pure lui, come Schlitzie, attivo sulla scena di Los Angeles. Anche le sue esibizioni sceniche sono “oscene”, e lo sguardo sarcastico che rivolge sull’America nel suo primo 33 giri Freak Out, è quello del cappellaio matto che lancia una pernacchia elettronica al sistema, e che dal sistema si vede restituire uno sguardo scandalizzato di ribrezzo.

Più che chitarrista e arrangiatore, Frank Zappa è l’agitatore musicale di un sound che viene rifiutato dal mondo adulto, il padre, anzi la “madre dell’invezione” di una musica freak, per cui abnorme, che ha la mostruosa ambizione di fondere generi e stili, in un Helzapoppin parodistico che guarda e si fa guardare dall’establishment artistico da dietro gabbie immaginarie, le stesse gabbie che ospitano gli artisti nel freak show.

Una musica  da rifiutare, così come vengono rifiutati gli scherzi della natura. Le sue stupid songs, i suoi paradossi, sono gli stessi che i cosiddetti normali leggono negli sguardi degli scherzi della natura, e il suo “absolutely free” è forse ancora più disturbante, perché per Frank Zappa essere freak non è più solo un destino, una condizione in cui si nasce, ma diventa un obiettivo, una porta laterale per smascherare l’american dream e portare in scena la caricatura delle nostre illusioni; uno stato che si può raggiungere con l’ausilio della droga e, perché no, della musica, e in questo molti musicisti incarnano quella sorta di freakismo postmoderno che, da Frank Zappa in poi, caratterizza la carriera di molti di loro, nel loro essere eccessivi, anticonformisti, o addirittura scandalosamente mostruosi, come quando Alice Cooper macella un pitone sul palco, come se non ci fosse una distinzione fra il reale e l’immaginario.

Ma è con la pubblicazione di “The Geek” (termine derivante dall’alto tedesco medio, utilizzato in alcune commedie di Shakespeare per indicare un tipo strano, anormale, carnevalesco, prima che l’esplosione della web mania, a metà degli anni ’90, gli faccia assumere una connotazione positiva, a indicare chi fa parte della comunità on line, differenziandosi da tutti gli altri off line) di Craig Nova, avvenuta nel 1976, che il freak è proposto come modello alternativo e il suo essere geek come una maniera di vivere preferibile a quella mainstream della maggior parte di noi (il protagonista del romanzo abbandona il mondo non più sopportabile di contrabbando e droga per un baraccone circense in un’isola della Grecia, invitato a farne parte da un vero geek, un mezzo mostro che mangia merda umana e polli vivi, sicché imitarlo nella sua degradazione, apre al protagonista le porte per un “distacco” simile a quello sperimentato con l’uso delle droghe allucinogene).

È il freak-out supremo, l’assumere un ruolo mostruoso alterando la propria consapevolezza, perché nessun normale può diventare un gigante, un nano o un fratello siamese, ma chiunque può diventare per gli altri quel freak che ha sempre sentito di essere.

Bizzarrie di artisti che si identificano con i freaks, distorsioni melodiche che sono altrettante distorsioni cognitive, gente che gode a stare sul lato naif dell’esistenza, fottendose delle convenzioni e del sistema tout court.

Dopo una vita trascorsa nel freakshow di Pete Cortes, Schlitzie viene adottato da George Surtees, un ex addestratore di scimpanzé ritiratosi dall’ambiente circense. Quando Surtees muore, il pinhead cade in un una profonda depressione. Gli manca lo show, gli manca il senso di comunità con gli altri come lui, e dopo un ricovero al Country General Hospital di Los Angeles, vive gli ultimi anni in solitudine, facendo divertire i bambini e dando da mangiare ai piccioni su una panchina del MacArthur Park, dove lo trovano privo di vita una mattina del 1971.

No so se Frank Zappa sia mai venuto a conoscenza della storia del pinhead.

Tuttavia, mi piace immaginarlo con la donna cannone, l’uomo lupo, il gigante, le sorelle siamesi, lui, il cappellaio magico del rock, insieme a tutti gli altri freaks, tutti lì, in pedi, davanti alla piccola bara azzurra, per rendere l’ultimo saluto a Schlitzie e a rappresentare la gente indifesa dalla verità del mondo, dalla mostruosità dei normali, consapevole che può esserci un’altra verità; che loro possano essere un’altra verità.

 

Written by Maurizio Fierro

 

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