“Patrimonio” di Philip Roth: perché parlare della morte fa male?
Matrimonio deriva dal latino mater con suffisso mònium, che significa atto, dovere: quel che deve fare una madre, partorire eredi.

Erede deriva dal sanscrito har, che significa prendere. Forse una simile origine ha anche la parola arpione: si tratta di una mia ipotesi.
Patrimonio, analogamente, significa quel che è il compito del padre: far ereditare.
Ogni parola trascina con sé, spesso inconsapevolmente, una tradizione che, giusta o infame che sia, ha fatto la nostra umana storia. Quando morì mio padre, mi chiamò dal suo paesino la zia di mia moglie per farmi le condoglianze. La ringraziai tantissimo, anche perché, le dissi, era lei a farmele, che aveva appena perso un figlio in un incidente automobilistico. La zia mi rispose così: se muore un genitore con lui scompare una parte importante di te. Se muore un figlio, tu muori insieme a lui.
Nel primo caso si è orfani, nel secondo si è deceduti, dilacerati da un’eterna sofferenza.
Non è per tutti avere figli. Non è per tutti vedere morire i genitori. Quest’ultimo, che pare un concetto insensato, è a volte una tragica realtà.
Perché parlare della morte fa male? Perché è importante? S., un mio amico scrittore, parlando della sua vita, liquidò in tre righe la descrizione della morte della madre. Quando gli espressi le mie perplessità, poiché altrove si dilungava in cose di assai minor importanza, lui mi rispose che non riusciva a scrivere di quel che ancora tanto gli doleva.
Hemingway, provocatoriamente, disse che scrivere è un fatto semplice: basta sedersi, prendere carta e penna (oggi si userebbe il computer, ma poco cambia) e cominciare a sanguinare. P., un’altra scrittrice di mia conoscenza, mi disse che tanto capiva S., perché anche a lei faceva troppo male scrivere delle proprie tragedie. Io confido che un doloroso giorno, per entrambi gli autori, quelle loro pur legittime determinazioni possano cambiare almeno un po’. Non riesco però a essere certo che la mia non sia una crudeltà non si sa quanto a fin di bene.
Tu non devi mai decidere contro la tua volontà, devi semplicemente ascoltare la tua gemente anima. Sintetizzo la mia posizione di orfano. Mio padre, a ottantasei anni, era vispo come un grillo. Accanito fumatore, grande divoratore di salumi reggiani, aveva il colesterolo a 139 e non accusava la presenza di nemmeno mezzo enfisema. Mentre stava attraversando la strada sulle strisce pedonali di via Adua, col sacchetto di pane appena comprato in mano, fu investito da una settantottenne che, come disse poi, era stata abbacinata dal sole. Dopo dieci giorni di semi-incoscienza, dopo una notte passata tenendomi stretta la mano, morì. Non lo vidi tirare le cuoia, perché a un certo punto era entrato un medico e mi fu chiesto di uscire. Dopo pochi minuti fui informato che era morto. Mia madre da un paio di decenni soffriva di una forma di demenza senile. Una sera mia sorella la imboccò per vari minuti e lei inghiottì il cibo come se fosse un automa. Faceva sempre così. Poi la portammo a letto. Dopo qualche minuto mia sorella andò a vedere se s’era addormentata. Mi chiamò all’improvviso, perché pareva che mamma non respirasse. Chiamammo il 118. Mamma fu portata d’urgenza al Pronto Soccorso. Morì o arrivo già morta. Mai lo sapemmo. Quando morì mio padre piansi mentre lo comunicai a mio figlio (mi ero preparato dicendo: ora sei calmo, vero?, dai che è il momento giusto di dirlo a Michelangelo; stai attento a non frignare!). Poi quell’orrore mi passò, anche se per un paio di giorni ogni tanto mi dicevo: quando lo vedo, devo dire a papà… e poi bloccavo il ragionamento, rendendomi conto che mio padre era morto. Nel caso di mamma, la sua morte mi parve una liberazione. Un anno prima aveva avuto la polmonite, da cui era sopravvissuta per miracolo. Ma tutto il giorno emetteva dei gemiti. Non ne poteva più. Morendo, fece la cosa più saggia. Io non piansi, ma per un po’ di tempo, quando comunicavo ad amici la sua scomparsa, la mia voce si metteva a tremare. Oggi queste due tragedie sono avvolte da una tenera malinconia, e non soffro più di tanto. Quando fisso le foto di mamma e papà, dico loro: Ciao mamma! Ciao papà!
Scusami, Philip Roth, per questo tuffo nel mio passato, ora parlerò di te e dei tuoi cari.
Nella prima frase del primo capitolo del libro Patrimonio scrivi: “A ottantasei anni mio padre aveva perso quasi per intero la vista dell’occhio destro, ma per tutto il resto sembrava godere di una salute fenomenale per un uomo della sua età quando fu colpito da quella che…” – da una malattia orribile in quanto misteriosa e fastidiosa, dall’esito incerto, dalla cura che variava a seconda del medico interpellato. Quell’enigma appassionante, in senso negativo, mutò tantissimo la vita del congiunto e di voi familiari, specie di te che, a quanto ho capito, avevi più tempo a disposizione per occuparti di lui, rispetto al fratello che era occupato altrove e che talvolta ti dava il cambio.
“Probabilmente non ci fu nulla di strano, dato il compito che mi ero assunto, nel fatto che, quando uscii dall’autostrada a Elizabeth, al bivio non presi la strada che mi avrebbe portato…” – dove ti avrebbe portato, se non là – “… andai a finire su un tratto della superstrada del New Jersey che, dopo un miglio o due, passava proprio di fianco al cimitero dove mia madre era stata sepolta sette anni prima.”
Quando si dice un lapsus… che c’è sempre stato, ma alcuni studiosi pensarono bene di affibbiargli il cognome di Freud. Da allora è diventata patrimonio dell’umanità e si chiama lapsus freudiano.
Tu, Philip, avevi la mente piena di un solo progetto: come dare a tuo padre la notizia che il suo problema non era da poco, che probabilmente avrebbe richiesto un’operazione difficile, dall’esito incerto. Ecco perché eri così distratto. Ecco perché appena entrato nella sua casa, dicesti che dovevi andar in bagno. Dovevi trovare le parole giuste. Ecco perché a un certo punto della narrazione, trascinasti il lettore da tutt’altra parte, e parlasti di come erano i rapporti fra i due genitori e di come era morta tua madre.
Dai quasi l’impressione che stai scrivendo il romanzo mentre lo stai vivendo. Un po’ come Henry Miller, con la differenza che lui alterna citazioni su Shakespeare o su Papini alla descrizione di alcuni suoi rapporti con un certo numero di donne più o meno disponibili, oppure con la sua Mara (poi detta Mona) che tanti lutti ha arrecato alle sue coronarie.
Ne esce fuori un ritratto di tuo padre come di un capo famiglia che sempre elargì consigli imperiosi, ordini non discutibili, direttive autorevoli, non perché fosse un dittatore nell’anima, ma perché considerava suo dovere svolgere le sue doverose funzioni. Tua madre morì perché era la sua ora, ma anche perché tuo padre non aveva capito che lei non stava bene e che non ce la faceva a tenere quel suo autorevole passo. Morì di crepacuore.
Dopo di cui egli si sentì in colpa, non so se per la prima volta della sua vita, o per l’ennesima. E capì di aver contribuito alla morte dell’amata consorte la quale, poco tempo prima, a oltre settant’anni, ti aveva confidato, tra le lacrime, le sue intenzioni di divorziare da quel marito imperante: “Se sto per dire qualcosa, mi tappa la bocca.” – ti disse, e questo per ogni persona è un fatto doloroso. L’opinione è un diritto che diventa un dovere verso se stessi. Se viene inibito a una persona, questa si sente in disaccordo con la vita. E vuole scappare.
Permettimi di sintetizzare la vita di tuo padre. Apparteneva a una famiglia ebrea molto povera, per cui non poté andare oltre la seconda media, dovendo andare a lavorare come tutti i suoi fratelli, alcuni dei quali morirono giovani. Egli sentì la sua carenza di cultura come una colpa non propria, ma che aveva ereditato dalla vita. Chissà quanto deve aver sofferto! Qualcosa di simile capitò a mio padre, che però decise di studiare per conto suo, e alla fine si fece una certa cultura. A quattordici anni leggeva di notte a lume di candela, dopo aver sgobbato in fabbrica una decina d’ore! Poi, come il tuo genitore, divenne un impiegato. O tempora o mores! Ognuno ha il ventennio di giovinezza che si merita! E questo varrà anche per i nostri posteri.
Che dire, Philip, della tua scrittura? Si beve! È una bevanda dal gusto raffinato e dal sapore che muta a ogni capoverso. È dolce, amara, acida, rinfrescante, toglie la sete e te la fa venire, è un cocktail, dove ogni gusto va assaporato da solo, tanto che il lettore arriva quasi a credere di avere un gusto assoluto (come l’orecchio di chi sa cogliere la singola nota). Ogni tanto egli sorride a una tua battuta, e subito dopo si duole, soffrendo con te, alla descrizione che fai delle reazioni emotive di tuo padre, che ogni tanto piange, pensando alla moglie e al proprio incerto destino. Di te il lettore ama tante cose, ma soprattutto le cose che per te sono importanti (in pratica), e per lui (in teoria) un po’ meno: per esempio “i tefillin” che tu ben descrivi a pagina 70 e i momenti dei match di baseball giocati dalla tua squadra: i New York Mets. Egli comincia quasi a tifare per loro, perché sente che tu tanto li ami, che tu li senti come parte di te.
Il tuo vedovo padre però non si decide di smettere di maltrattare la donna che ora gli sta accanto e che si occupa quotidianamente di lui. Dice: “Io non litigo con nessuno!” – e aggiunge: “Non litigo mai. Se le dico una cosa, glielo dico solo per il suo bene. Se non vuole ascoltare, vada al diavolo.” – senza acrimonia, come se l’ultima affermazione fosse semplicemente una fatalità a cui nessuno può farci nulla, men che meno lui, che ha ben altri problemi per la testa.
E nella stessa pagina (62) accade un miracolo: egli accetta un tuo ordine, per la prima volta in vita sua. Il che ti fa scrivere, dopo che l’hai impartito: “… e lui lo fa. La fine di un’era, l’inizio di un’altra.”
Anche se lui resta lui, e “Come il resto di noi, capiva solo quello che capiva, però quello lo capiva intensamente.” – chissà cosa Sartre avrebbe dedotto del suo in sé e del suo per sé.
“… non sta pensando al tumore ma alla città di Newark. È lui il bardo di Newark. Tutta quella roba su Newark, cosí avvincente, non è la mia storia: è la sua.” – una sola terra, un solo uomo.
“Per tutta la vita ho cercato di dirgli che le persone sono una diversa dall’altra. Questo, mia madre lo capiva come lui non ha mai fatto. Non poteva.” – lui era per l’uniformità sociale: “Dovevamo tutti lavorare allo stesso modo, volere le stesse cose, essere ligi al dovere nello stesso modo, e chi si comportava diversamente era meshugge… matto.” – anche mio padre era così, ma riuscii un po’ a cambiarlo. Era juventino, ma a furia di spaccare radio quando perdeva il Milan, riuscii a fargli cambiare squadra! Suo figlio era decisamente meshugge. Povero papà, quanto m’hai amato!
“… È sempre orribile, la morte di un genitore. Quando morí mia madre – disse lei, – non avevo idea che mi sarei sentita cosí. Se ne va metà della tua vita, o anche di piú. Ti senti piú povero, sai: una persona che mi ha conosciuto per tutti questi anni…” – questo che dice Claire è illuminante: con i nostri cari muore quella parte di noi che loro hanno conosciuto. Essa sparisce. Si annichila. Oh, Dio che non esisti! Perché consenti questo vile obbrobrio!
Tuo padre t’informa che il “tuo amico Wiesel” ha vinto il Nobel. Siamo nel 1986, zia Wiki parla di uno scrittore africano… chissà chi dei due ha ragione? Le due fonti concordano invece su “un certo Cohen e questa ragazza ebrea italiana, Levicomesichiama…”.
Tuo padre ha un più che aulente e invasivo inconveniente in bagno. Tu devi pulire e ramazzare escrementi e pensi: “Ecco il mio patrimonio: non il denaro, non i tefillin, non la tazza per farsi la barba, ma la merda.”
Poi vieni colto da un’ispirazione: “‘Devo ricordare con precisione, – mi dissi, – ricordare ogni cosa con precisione, in modo che quando se ne sarà andato io possa ricreare il padre che ha creato me’. Non devi dimenticare nulla.” – ti correggo, anche se non ce n’è, credo, bisogno: Non devi scordare alcunché!
Ora anche tu sei dall’altra parte dello schermo e magari, se te lo ritrovi in quel ceruleo bistrot, ne potete discutere fra voi, ma t’informo che, secondo Mario Rigoni Stern, Primo Levi non si è affatto tolto “la vita gettandosi dall’alto della scala del palazzo di Torino dove abitava: la stessa scala le cui cinque rampe di gradini avevo salito pregustando il nuovo incontro ogni giorno che ero andato là per le nostre chiacchierate.” – ha avuto un giramento di testa, ed è precipitato; poi magari mi farete sapere, che sono molto curioso di sapere la verità!

L’importante è che tu e Primo, come scrivi a pagina 166: “insieme eravamo diventati misteriosamente amici intimi.” – anch’io vorrei esserlo, di entrambi. Anche di Mario Rigoni Stern. Faccio in tempo? Credo di sì. Ma al momento non ci penso troppo. Non mi conviene ancora.
Torniamo a tuo papà: “… gli dissi cose di ogni genere che non era piú in grado di sentire. Per fortuna, di ciò che gli dissi quel mattino non c’era nulla che non sapesse già.” – bene!
Tuo padre, scrivi, era un: “… uomo solido e resistente che per tutta la vita aveva affondato le radici nella quotidianità, e al tempo stesso mi rendevo conto che proprio questo era l’idea.” – da proteggere per l’eternità.
Lo sogni. E ti svegli “urlando” – ora ti senti in colpa per una tua scelta (il mio e tuo lettore, per saperlo, è tenuto a leggere quel che c’è scritto a pagina 185), ma forse hai frainteso le sue parole. Infatti, “Al mattino mi resi conto che aveva inteso alludere a questo libro, che, in carattere con l’indecenza della mia professione, avevo continuato a scrivere, avevo continuato a scrivere mentre lui era malato e moriva.”
Philip, sappi che io ti amo proprio per questo tuo meraviglioso e salvifico peccato!
Ma ne riparleremo…
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Philip Roth, Patrimonio, Einaudi, 2013
Bellissimo articolo!