“Aimer, boire et chanter” di Alain Resnais: il cinema, i generi, il teatro
Aimer, boire et chanter è stato l’ultimo film di Alain Resnais, credo mai arrivato nei cinema italiani, presentato al Festival di Berlino nel 2014 poche settimane prima della morte del suo autore.
Tratto dalla pièce teatrale di Alan Ayckbourn Life of Riley, è il terzo film di Resnais nato dalle opere del commediografo inglese, dopo il dittico Smoking/No Smoking del 1993 (tratto da Intimate Exchanges) e Coeurs del 2006 (da Private Fears in Public Places).
La parabola creativa di Alain Resnais – forse il mio regista preferito assieme a Stanley Kubrick e Bernardo Bertolucci – era cominciata, dopo una lunga esperienza da documentarista, dalle decostruzioni narrative di Hiroshima mon amour (scritto da Marguerite Duras, 1959), L’anno scorso a Marienbad (sceneggiatura di Alain Robbe-Grillet, 1961) e Muriel, il tempo di un ritorno del 1963, nel pieno quindi dell’affermazione del Nouveau Roman in Francia, iscrivendosi allo stesso tempo nel movimento cinematografico della Nouvelle Vague.
Come per molti autori della sua generazione, dalla metà degli anni Sessanta era subentrato l’impegno politico, meno acceso tuttavia – almeno a livello cinematografico – di quello ad esempio di un Godard. Se già Muriel aveva riferimenti alla Guerra d’Algeria, La guerra è finita (1966), su sceneggiatura di Jorge Semprún, scrittore spagnolo esule in Francia, affrontava il tema della resistenza nella Spagna franchista, ma con un’ottica piuttosto “dialettica” che rese il film non del tutto gradito sia alla “destra”, per il tema trattato, che alla “sinistra”, per la lucida rappresentazione tanto dell’ambiguità delle posizioni dei partiti tradizionali che dell’estremismo idealista giovanile. Resnais partecipò anche al film collettivo Lontano dal Vietnam (1967), assieme a Godard, Joris Ivens, William Klein, Claude Lelouch, Chris Marker e Agnès Varda.
Poi, dopo alcune opere di transizione e un ritorno alla decostruzione narrativa con Providence del 1977, Resnais approdò a una ricerca sui “generi” cinematografici, che avrebbe visto tanto uno spietato ritratto in forma semidocumentaristica dell’animale-Uomo dal punto di vista biologico-comportamentista – Mon Oncle d’Amerique, 1980: capolavoro ispirato alle teorie di Henri Laborit – quanto un’inaspettata vocazione alla commedia (romantica e non), per arrivare persino al genere musicale con Parole, parole, parole… e Mai sulla bocca, rispettivamente del 1997 e del 2003.
Nel 1986 Resnais aveva rispolverato una pièce della fine degli anni Venti del Novecento di Henri Bernstein, Mélo, realizzando un film sull’ambiguità dei rapporti umani e iniziando così una serie di rivisitazioni cinematografiche di testi teatrali in qualche modo attinenti alla sua poetica. È da sottolineare come il regista francese, pur non firmando mai le sceneggiature dei propri film (se non qualche volta attribuendosi l’“adattamento” di un testo preesistente), abbia avuto per tutta la sua carriera un inconfondibile marchio autoriale, pur nell’evoluzione del proprio stile.
In Aimer, boire et chanter il vero protagonista, George Riley, non compare mai ma è il cardine di tutta la trama, sparigliando gli equilibri instabili dei rapporti di tre coppie di suoi amici che, grazie alle sue mosse inaspettate, sono costretti a rivedere i loro ménage e a scoprire le carte tenute vicendevolmente segrete (alcune scene sono terribilmente esilaranti).
L’impostazione generale è la stessa degli altri film che Resnais aveva tratto da testi di Ayckbourn: scenografie teatrali palesemente “finte”, cartelli disegnati in uno stile un po’ fumettistico a separare le diverse scene, e pochi, eleganti tocchi cinematografici sempre al momento giusto.
Eccezionale sestetto di attori, tra cui i resnaisiani Sabine Azéma e André Dussolier, con una piccola predilezione – da parte di chi scrive – per Michel Vuillermoz nel ruolo di Jack.
La morte fa la sua comparsa alla fine di questo film, come in tante altre opere di Resnais, il quale però nei suoi ultimi anni sempre più ci ha invitato a considerare che “Tutto nel mondo è burla”, come recita il finale del Falstaff di Verdi, il quale pure ci lasciò un “testamento spirituale” beffardo e divertito.
Il titolo del film viene dalla versione francese cantata di un valzer di Johann Strauss jr.: Wein, Weib und Gesang, accennato nel corso della storia da uno dei protagonisti, e presentato infine sui titoli di coda cantato dal grande Georges Thill.
Written by Sandro Naglia