Psicopatici in letteratura: nei labirinti di una mente diabolica
“Coloro che pensano di dover togliere il peggiore dal mondo, eliminano insieme la stessa Provvidenza.” ‒ Plotino

Psicopatici in letteratura. Da sempre, in letteratura, l’immersione nel cuore di tenebra e nelle pulsioni più inconfessabili dell’animo umano, oltre a rappresentare un viaggio interiore alla ricerca della propria ombra, consente allo scrittore una sublimazione estetica del male.
Da Iago a Faust, da Milady a Mister Hyde, fino a Stavrogin, Moosbrugger e Marsault (per citarne alcuni), l’universo letterario è costellato di antieroi paradigmatici, con un male talmente connaturato da farli diventare una sorta di personaggi sub specie aeternitatis, ideali capri espiatori da additare, per allontanare le paure legate alla parte più oscura che alberga in ognuno di noi.
Nell’“Otello”, Shakespeare ci presenta Iago e, con lui, “la figura del malvagio giunge ad altezze sublimi” (Nadia Fusini da “Di vita si muore, lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare”). Accompagnandoci nei labirinti di una mente diabolica, il Bardo rappresenta il tipico ritratto di uno psicopatico privo di coscienza e di rimorsi, con innata propensione alla menzogna e al raggiro.
È un istinto machiavellico e manipolatorio, il suo, ben corroborato da volontà e intelletto. “Per sua stessa ammissione, Iago è quel che non è: “I am not what I am”, e in queste parole si coglie la negazione di un’altra frase assai più fondativa: “Io sono colui che sono”, quella con cui Dio si manifesta a Mosè (Esodo 3,14). Con blasfema improntitudine, Iago rifà il verso a Dio e, nella negazione dell’affermazione biblica, lascia affiorare in controluce la presenza del Demonio. Iago, l’“onesto Iago, è una maschera del diavolo” (Nadia Fusini, ibidem) che, mentre si mostra gentile in presenza d’altri, svela la sua vera natura nei soliloqui: “Come, come? Vediamo, potrei insinuare nell’orecchio di Otello che Cassio è troppo in confidenza con sua moglie. Costui ha un aspetto e gentilezza di modi da far nascere il sospetto: è fatto apposta per rendere le donne infedeli. Il Moro ha un carattere franco e aperto: pensa che siano onesti tutti quel che sembrano, e si farà menare per il naso docile come un asino”.
Johannes Georg Faust, nato intorno al 1480 nel Wurttenberg, è un intelligente ciarlatano che, affermando di possedere i poteri della magia a seguito di un patto con il Diavolo, convince i creduloni di poter fare miracoli simili a quelli di Cristo. Astrologo itinerante e abile impostore, il Faust storico è uno psicopatico che, grazie al suo fascino distorto, si prende gioco dei suoi contemporanei. Dalla sua vita avventurosa fiorisce la leggenda che si impadronisce di lui eternandolo in un simbolo supremo della forza del male e, da Marlowe a Goethe, da Valery a Mann, il suo mito ha affascinato grandi intelligenze, un mito legato al peccato dell’hybris, la tracotanza, l’inestinguibile fuoco interiore che spinge a voler conoscere quanto all’uomo è precluso: il mistero della vita e della morte e, nel far ciò, “ad allearsi con le forze del male” (Aldo Carotenuto “La forza del male”: senso e valore del mito di Faust).
Nel “Faust” di Goethe, opera che impegna il genio tedesco per quasi tutta l’esistenza, Faust riconosce che le forze diaboliche e malvagie che agiscono sull’individuo, pur turbandone l’armonia, sono fonti di imprese grandiose, e “Più che un diavolo, Mefistotele rappresenta un aspetto complementare di Faust e dell’animo umano” (Ladislao Mittner: “Storia della letteratura tedesca”). L’ombra, il male, è in noi e tra noi, la sua evidenza, che potrebbe anche chiamarsi Diavolo, si manifesta ovunque e cercare di eliminarlo non è che un vano tentativo (Aldo Carotenuto, ibidem).
Se allora, come sosteneva Bertrand Russell, “il male sta nel nesso fra la sofferenza e l’intenzione consapevole di provocarla”, lo psicopatico, privo di livelli elementari di empatia, rimorso e coscienza, è l’agente perfetto per la sua diffusione.
Se nei “Tre Moschettieri” il cardinale de Richelieu presenta i tratti di una psicopatia caratterizzata da sottile capacità manipolatoria, al pari di un altro personaggio con attitudini similari, il Visconte di Valmont, descritto da Laclos ne “Le Relazioni Pericolose”, è Milady a rappresentare un’autentica invenzione letteraria, spingendo il personaggio descritto da Alexandre Dumas verso le vette più inesplorate della cattiveria umana. In lei, la patologia si manifesta attraverso una mente tenebrosa e labirintica che rivela un’anima ibernata in un corpo ostinatamente attratto e protratto verso il male. Più che un essere umano, Milady sembra una forma di vita, e anche la sua misteriosa sopravvivenza alla prima esecuzione conferma l’intenzione di Dumas: rappresentare una sorta di quintessenza della malvagità, quasi oltre il reale, in cui ridondano i vuoti, le assenze di compassione, moralità e pietas.
È un’alienazione che atterrisce, la sua, accompagnata da un fascino sinistro che induce in coloro che vengono in contatto con lei un atteggiamento di naturale sottomissione, se non di autentico servilismo.
Uno dei volti classici dell’insanità, il disturbo dissociativo della personalità, trova nel Mr. Hyde di Stevenson una perfetta trasposizione all’interno di un noir vittoriano precursore di tanta letteratura di genere. Il conflitto fra l’Io e l’Ombra, manifestazione del doppio tenebroso nella successiva prospettiva junghiana, è aspetto molto studiato nell’Ottocento. A tal proposito, Gilbert Keith Chesterton rivela lo scandalo che ci obbliga a riconoscere “non tanto che sotto la pelle di un uomo ce ne sono due, quanto che due uomini sono la stessa persona”.
La tematica preannuncia una costante crescita di indagini e approfondimenti, con conseguente e successivo proliferare di personalità doppie e plurime pronte a prendere vita su pagina, e una folta schiera di perversi di successivo conio delegheranno al proprio “doppelgänger”, al proprio alter ego malvagio, il compito di dar sfogo ai più reconditi istinti disumani.
È una Londra tenebrosa e inquietante, quella che fa da teatro alle continue trasformazioni del dottor Jekyll, metonimia di un personaggio che assume fattezze sub-umane che risentono dell’influenza delle teorie di Cesare Lombroso, per le quali i criminali possiedono innate caratteristiche anatomiche e morfologiche che li contraddistinguono fin dalla nascita. Ne consegue che la rappresentazione antropomorfa dell’ombra, del male, non può che essere caricaturale, dis-tintiva, rispetto alla normale rispettabilità personificata dal dottor Henry Jekill; un male che incombe prendendo carne in Edward Hyde, un uomo piccolo, gobbo, con braccia corte e pelose, in definitiva dalle fattezze semi animalesche.
“Quando ero di ritorno da certe escursioni, rimanevo a lungo inebriato da una sorte di stupore per la depravazione dell’altro me stesso. Questa creatura familiare che evocavo dalla mia stessa anima e che mandavo in giro per soddisfare i suoi impulsi, era malvagia e perversa di natura; ogni suo atto ed ogni suo pensiero erano di assoluto egoismo; godeva di una bramosia animalesca di ogni forma dell’altrui sofferenza; pur rimanendo gelida come una statua,” ‒ da “Lo strano caso del Dr. Jekill e di Mr. Hyde”
La ripugnanza, piena di disgusto, con cui viene respinta la sua figura semi-animalesca, riflesso degli istinti più oscuri presenti nella natura umana, necessita di una tranquillizzante opera di proiezione e, in tal senso, mister Hyde è un ideale capro espiatorio.
Un altro indimenticabile volto del male è Nikolaj Vsevolodovic Stavrogin. Dostoevskij ci descrive un uomo gentile e di bell’aspetto, ma dall’animo gelido: tranquillo, ma imperturbabile e spietato calcolatore; una figura affascinante, quindi, come solo il male sa esserlo. In “Tichon”, il nono capitolo del romanzo “I demoni”, ricordato anche come “La confessione di Stavrogin”, viene descritta la visita del protagonista a un vescovo che vive ritirato in una cella di un antico monastero. Stavrogin gli consegna una confessione scritta che elenca una serie di crimini commessi nel passato, fra i quali spicca per depravazione la violazione di una bambina, e ciò che atterrisce, in lui, è l’assoluta mancanza di vergogna, un’afasia morale che, nonostante i tentativi del vescovo Tichon, non lascia trapelare alcuna luce redentrice. Non c’è salvezza, neppure nella fede.
“A proposito, Cristo mi perdonerà? domanda Stavrogin cambiando rapidamente tono, mentre il sorriso gli si muta in una smorfia; e nel tono della domanda si sentì una leggera sfumatura d’ironia.” ‒ da “I Demoni”
Troppo forte è il sentimento di odio verso l’umanità: “vedo, vedo come se fosse realtà, ‒ esclama Tichon con una voce che penetra nell’anima e con una espressione di intensa amarezza, ‒ che voi, povero giovane perduto, non siete mai stato così vicino a un nuovo e ancora maggiore delitto come in questo momento: Stavrogin si mise addirittura a tremare dalla collera e dallo spavento. – maledetto psicologo – esclamò con furore, tagliando corto, e, senza voltarsi indietro, uscì dalla cella.” ‒ da “I Demoni”
Perché quando ci si sente smascherati nella propria, autentica, natura, l’istinto di ribellione emerge come la pinna di uno squalo dalle acque, quello stesso istinto che, nel prendere la scena, spinge Stavrogin a imprecare contro l’intento psicologico del vescovo, colpevole, ai suoi occhi, di non avergli creduto e di non aver ceduto, come tutti gli altri, al suo fascino manipolatorio, rivelando, invece, il suo effettivo e reale sentire. È un odio inestinguibile, quello che si impadronisce del protagonista, un odio che divora Stavrogin dall’interno, portandolo a implodere nel suicidio.

Nel romanzo di Robert Musil “L’uomo senza qualità”, Ulrich, il protagonista, è attratto dalla storia di un solitario falegname di nome Moosbrugger. “In quel tempo il pubblico si appassionava per il caso Moosbrugger. Perché Moosbrugger aveva ammazzato una donna, una prostituta d’infimo grado, in modo raccapricciante. Di simili atrocità i cronisti non sapevano come ritornare al viso bonario di Moosbrugger.” (da “L’uomo senza qualità”).
Moosbrugger è un omicida seriale colpevole di orribili delitti a sfondo sessuale. Le sue vittime sono prostitute brutalizzate e, in quanto ai suoi occhi rappresentanti degradate di genere, non considerate, anzi, odiate, come lui stesso afferma durante il processo che gli viene intentato. La peculiarità nella scelta delle vittime, sintomo di un disturbo nella sfera sessuale e affettiva, spesso causato da traumi infantili conseguenti a violenze, e l’accanimento sugli organi sessuali, simboleggia un’ambivalenza nella sfera del desiderio che porta l’assassino a indirizzare la sua punizione verso l’oggetto che scatena il suo tormento.
Pur non avendo notizie precise sulla sua infanzia, si deduce che Moosbrugger abbia sviluppato una personalità con attitudine alla violenza fin da ragazzo, quando spezza le dita al suo datore di lavoro che cerca di ridurre alla ragione il suo spirito ribelle, insanità che emerge anche nel corso del processo, quando alla mancanza di rimorso e di vergogna per quanto commesso si unisce un algido autocontrollo.
In “Lo Straniero” di Albert Camus, facciamo la conoscenza di Marsault, un laconico impiegato di Algeri. In un quadro di riferimento caratterizzato da un sentimento di indifferenza esistenziale ‒ ça m’était égal ‒ per me è lo stesso, è la locuzione più ricorrente espressa dal protagonista del romanzo – l’indifferenza emotiva, la costante privazione empatica verso l’umanità che lo circonda, come l’assoluta mancanza di rimorso per il delitto compiuto ‒ l’assassinio, dopo un banale litigio, di un arabo ‒ sono aspetti che connotano l’evidenza di psicopatia caratteriale, e già l’incipit del romanzo contraddistingue una natura deprivata di un normale sentire empatico: “Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non lo so. Ho ricevuto un telegramma dall’Ospizio: “madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti.” Questo non dice nulla: è stato forse ieri” (da “Lo Straniero”).
Iago, Faust, Milady, Mr. Hyde, Stavrogin, Moosbrugger, Marsault. Come fantasmi provenienti da un irriducibile altrove, rappresentano su pagina lo specchio dei nostri desideri più inconfessabili, offrendoci lo spettacolo di quello che non siamo ma che potremmo diventare perché, come afferma Elisabeth Roudinesco, psicanalista e storica: “Tutti dobbiamo fare i conti con la crudeltà e il piacere del male che agiscono in noi in maniera più o meno latente”.
Written by Maurizio Fierro