“Fuga senza fine” di Joseph Roth: una storia vera

Leggo nella Presentazione di Giorgio Manacorda del racconto Fuga senza fine” che quando Joseph Roth scrive questo romanzo “ha trentatré anni” e che è già “un autore con una grande etica della letteratura, non foss’altro perché un errante deraciné come lui è nella scrittura che aveva la propria patria.” – forse, in quanto sradicati, siamo virtualmente connazionali.

Fuga senza fine di Joseph Roth
Fuga senza fine di Joseph Roth

La scrittura, essendo umana, può creare conflitti e causare lutti, ma mai quanto il patriottismo, specie quando assume le mostruose sembianze dell’imperialismo. La patria è però ficcata in fondo all’anima.

Nella Premessa, l’autore assicura il lettore che quella che seguirà sarà il “racconto” della “storia del mio amico, compagno d’armi e di fede Franz Tuda. Ripercorro in parte i suoi diari, in parte i suoi racconti.” – giungendo a dichiarare ufficialmente di non aver inventato nulla, ben sapendo che ogni fiction è realtà, e viceversa. Ed è una maliziosa osservazione, che sorge in me allorché leggo il finale della Premessa: “Ormai non si tratta più di ‘poetare’. Ciò che più conta è quel che si è osservato.” – in quale delle infinite realtà, beh, dipende…

Etimologicamente, ogni racconto è un rinnovare un conato di conoscenza. Nessuno, nemmeno Hilary Putnam, è finora riuscito a raggiungere la certezza che il kosmos non sia che un immenso acquario, dove le nostre menti galleggiano fra infinite pene, nel folle tentativo d’esistere.

Il protagonista, “Tunda”, “figlio di un maggiore austriaco e di un’ebrea polacca, era nato per caso in una piccola città della Galizia, luogo di presidio del padre. Parlava polacco, aveva prestato servizio in un reggimento galiziano…” – motivo per cui “gli riuscì facile spacciarsi per il fratello minore del polacco, questi si chiamava Baranowicz. Tunda si chiamò così.” – chissà che nome avrebbe scelto nel 2023, e per conto di chi oggi avrebbe combattuto!

“… Il polacco contava le parole come se fossero perle, una barba nera l’induceva al silenzio…” – e nella sua vita non lesinava né esperienze né conoscenze, così numerose che non posso riportare che la più (per me) significativa: “amava i suoi cani come fratelli e venerava tigri e serpenti.”

Provava un certo sentimento per una meretrice che, giunta alla serena quiescenza, cominciò anche lei ad amarlo con passione. In fondo, la vita, sarà una porcheria, ma va vissuta con animo lieve, col cuore disteso, gioendo per l’abbraccio di chi ti sta accanto: “Ogni anno Baranowicz le portava le stesse collane cinesi e i piccoli flauti che intagliava lui stesso e con i quali imitava le voci degli uccelli.” – fenomeno naturale che pare abbiano spinto i primi ominidi a sviluppare il loro scimmiesco idioma, con la conseguente cultura prima orale e poi scritta.

Tunda, “per tutto il viaggio fu felice, la speranza o la nostalgia di casa, non avrebbe saputo rispondere. Nell’animo di alcune persone il dolore genera esaltazione maggiore che la gioia. Di tutte le lacrime che si ingoiano le più care sono quelle che si piangono per se stessi.” – in effetti il riporto è lungo ma con un tipo come Joseph Roth si fatica a smettere di attingere da quel mero Khaos che è una narrazione. Egli è un narratore puro, dice Giorgio Manacorda, per cui leggerlo finisce per diventare un atto catartico.

Tunda incontra Natasha, una donna combattente 24 ore al dì, anche nel fare sesso, che di notte “restava sveglia e controllava i suoi piaceri come una sentinella.” – brrr! Poi quella sparacchia al povero amante frasi terribili, fra cui: “Di te possiamo fare un rivoluzionario, ma resterai sempre un borghese.” – e anche un ex ufficiale, essendo stato “lo strumento più letale nelle mani della classe dominante.” – Natasha è una rivoluzionaria assolutamente e definitivamente comunista. Lui non si sa ancora cosa intende essere. E questo è il problema.

Lei gli urla, tra l’altro:Se sei con noi soltanto per me ti fucilo.” – e quando lui ammette che è davvero così, “Natasha inspirava profondamente e lo lasciava in vita” – un bel peperino, eh?

A un certo punto tutto nel paese diventa “rosso”: la rivoluzione ha avuto il successo che si meritava!

Le cose fra i due non possono continuare e così lui, rivolgendosi altrove, conosce “Alja, figlia di un georgiano e di una tartara.” – e in questa confusione di etnie il concetto di patria finisce per inacidirsi e cadere per terra come un frutto tendente al marcio. Non si sa più per chi si deve combattere e perché. Meglio, no?

“La ragazza era bella e silenziosa.”infinitamente meno invadente di Natasha, una che non chiacchiera manco a strappargli le unghiette.

“… diceva Kudrinski, un marinaio, che era stato espulso dal partito, perché un anno aveva…” – compiuto un’azione assai criticabile: la guerra è la guerra: “Ma una rivoluzione non cade.” – si evolve al fine di banalizzarsi, diventando ragion di stato e, presto, prostituzione legalizzata. È come “un grande fuoco, grande e sconfinato come l’oceano, forse sotto terra – ma anche in cielo – un grande fuoco, che non ha confini.” – e io amo e odio la constatazione che ne fa derivare: “Noi non siamo altro che gocce nell’acqua o scintille nel fuoco, non possiamo uscirne.” – … vivi. Dopo di cui sopraggiunge l’impietosa entropia.

L’ultimo incontro fra Tunda e quella sua guerriera permanente, la fa piangere (finalmente!), e quella poi così si giustifica con la compagna Anna: “Piango perché tutto è così inutile, così vano…”.

Il capitolo VII inizia col l’io narrante (Joseph Roth) che dice: “Ho già raccontato di quella ragazza silenziosa del Caucaso…” – come se l’avesse conosciuta personalmente e potrebbe anche essere.

Il capitolo IX riporta alcune pagine del “diario di Franz Tunda” – come un documento storico ritrovato per caso (e per necessità) dall’autore.

Il capitolo XI riporta la lunga lettera che Tunda ha inviato al “Caro amico Roth”.

Leggo del rapporto tra Franz e il fratello Georg Tunda, che mi paiono due estranei consanguinei.

Dopo di cui esco con l’amico Onorio a sentire sua figlia Chiara cantare al Cafè del Sol, a Sassuolo.

Domani si vedrà quel che colà succederà. Il titolo del romanzo però non promette granché.

“Cosa direbbe la legge a proposito?” – di solito è promulgata da gente seria, che conosce la legislazione precedente, per cui tenta di perfezionarle, ma talvolta a scriverla sono dei gaudenti parassiti: ma sempre, alla fine, la legge è ciò che è – “Chi gli vieta di dire ciò a cui sta pensando? La legge.” – che dovrebbe inibire il male, non la coscienza che ne deriva.

“… come se tenesse un righello davanti al corpo, come se ci fosse una determinata legge che le imponesse di mostrare soltanto un determinato numero di denti per sorriso.”: dura lex sed lex. La legge può danneggiare anche te, ma non puoi dirgli di smettere!

“… Ognuno ha due metà. La metà superiore si vergogna di quella inferiore. Tutti considerano le proprie mani arti migliori dei piedi. Hanno due vite. Mangiare, bere e amare è compito delle parti inferiori…”dal basso ventre in giù“… deteriori, il lavoro di quelle superiori.” – ma in ogni civiltà che si rispetta esistono gli antipodisti.

Klara è la moglie (assai funzionale) del fratello negletto, seppure utile (in quanto lo mantiene per un po’): “Natasha si è sacrificata in nome dell’idea rivoluzionaria. Klara in parte alla cultura, in parte alle idee sociali.” – nella maggior parte a reggere lo statu quo.

Anche se “mangio il suo pane imburrato…”“… non potrei mai avere nessun lavoro in questo mondo, a meno che non mi pagassero per essere adirato con esso. Non sono adatto a nessuna delle opinioni dominanti.” e cercane di nuove, se vuoi sopravvivere economicamente!

“In quell’ordine cosmico non è importante che io lavori, ma è ancora più necessario prendere denaro.”che sarà anche l’aulente sterco di Satana, ma come concima lui…

Roth incontra Tunda a Berlino, il primo dice: “Meglio uno scopo…”qualunque esso sia?“che un cosiddetto ideale.” – e il secondo gli risponde: “Meglio ancora…” – che cosa – “uno scopo vero.” Giuro che non capisco dove a volte finisca la retorica e inizi la dialettica.

A Tunda “venne l’idea di far pubblicare le sue menzogne siberiane. Quel libro non era finito. Scrissi la postfazione, nella quale comunicavo…” l’ennesima, inclita balla.

Tunda definisce Berlino “capitale di se stessa” – essendo “fuori” da tutto, “non ha religione. Ha le chiese più brutte del mondo. Non ha società. Ma ha tutto quello che nelle altre città viene generato dalla società…”è moderna senza essere di alcun tempo?

Roth dice tre volte “Mostrai a Tunda…” – varie cose, ma sempre alludendo alla fauna umana “che si accalcava”, in una specie di rito obbligato ma non sentito. Un esempio fra i tre offerti da Roth: “Mostrai a Tunda tutti coloro che mi disprezzavano e che ero tenuto a salutare perché vivevo di scrittura.” – e questa era l’ombrosa e umida Germania che era sbucata dalla Prima guerra mondiale.

“Lo rividi soltanto il 27 agosto a Parigi.” – e qui si conclude il XXIII. Il successivo inizia così: “Arrivò a Parigi il 16 maggio alle sette di mattina.”

Qualcuno o qualcosa comunica a Joseph Roth che: “era come se Tunda avesse visto l’alba per la prima volta…” – e un tot di banali, favolosi accadimenti – “Davanti alle botteghe sedevano gatti, che muovevano la coda come se fosse una bandiera.”eroici e baffuti patrioti.

“… i camerieri sembravano muoversi come giardinieri che, quando versavano latte e caffè in una tazza, era come se stessero innaffiando bianche aiuole.” – gli avventori buoni bisogna saperli far crescere.

“Quando tuttavia si apprestò a scrivere, ebbe la sensazione che proprio la lingua francese fosse fatta per le confessioni…” – come quella tedesca si dice sia la più adatta a impartire imperiosi comandi: due probabili bazzecole.

“Faceva parte di quella tipologia di uomini mitteleuropei che prendono sottobraccio il proprio interlocutore e ad ogni angolo di strada si fermano e si vedono costretti a smettere di parlare.” – le vie della comunicazione sono quasi infinite, l’importante è saperle percorrere una alla volta.

“Ma c’è una povertà alla quale si devono mille esperienze, oltre che la vita stessa, e una ricchezza che uccide, morti e belli, morti e incantevoli, morti, felici e perfetti.” – realizzati dal punto di vista socio-economico.

Un “diplomatico”, poveretto, “viveva da anni in Germania e la odiava sinceramente. Ma cosa poteva quest’odio contro il suo amor proprio?” – poteva annullarsi quotidianamente per poi riprodursi il giorno appresso. E questo forse gli accadeva.

“In quel mondo la povertà era mancanza di virilità, era debolezza, stoltezza, vigliaccheria, e un vizio.” – anche assurdo, magari.

“Ma nessun ricordo gli fu di aiuto…”ma quanti ma! – “… Poiché il presente è mille volte più forte del passato.” – duole di più un mal di dente attuale che un tumore pregresso. Ma ci sono troppi “ma” in questa città, ma chi dice ma il cuor contento non ha. Qualcosa mai cambierà? Certamente. Ma al male può subentrare il peggio.

Come altri romanzi di Joseph Roth, Fuga senza fine descrive un disperato tentativo di rinascita dopo la fine dell’impero austroungarico, che avrà ogni volta fine, come la Storia, poveretta lei, c’insegna.

“I possidenti…” – questi figli di un dio menefreghista – “… fiutano la disperazione con quella sicurezza che è propria degli animali della prateria prima di un incendio…” – che è scoppiato da quel po’ e l’impero austro-ungarico si è ormai bruciato da sé.

“Tunda andava in giro per le strade allegre con un grande vuoto nel cuore, come quello che prova un detenuto rilasciato quando compie i suoi primi passi in libertà.” – senza arte, né parte, né risorse.

“In questo mondo non si sentiva a casa. E dove si sentiva a casa? Nelle fosse comuni.”allegrie, riposi in una pace forzata dalle comuni necessità.

L’opimo Cardilac lo invita a casa e “una casa più grande non l’aveva mai vista. Gli sembrò ancora più spaziosa di quello che era perché non la conosceva nella sua interezza, perché vedeva sempre soltanto parti, frammenti della casa.”assai vitali, come le singole voci della Treccani. Se vedi tutta intera quell’immane Enciclopedia, ti senti oppresso dai suoi innumerevoli volumi.

“La maggior parte delle donne sono belle – esattamente come la maggior parte degli uomini non sono storpi.”ma a me mi piace tanto l’anomalia…

Se una donna s’allontana, un’altra ne può pigliare il posto e quando si chiama “Pauline” la storia può iniziare di nuovo.

Joseph Roth
Joseph Roth

Al simulato fratello Baranowicz fa visita Alja e una frase o due che quello dice fa pensare che abbia raggiunto, in fatto di femmine, il vero socialismo: “Posso darle del denaro se vuoi che venga da te. Ma posso anche tenerla con me. Per me fa lo stesso!” – lei parla poco e sporca ancor di meno.

Nel capitolo XXXIV, “era il 27 agosto 1926, alle quattro di pomeriggio…”la fuga ha quella fine adombrata e poi negata, e infine concessa.

Conto cinque “non aveva” e colgo un’estrema considerazione: “Così superfluo come lui non c’era nessuno al mondo.” – nemmeno chi ne ha scritto l’epopea, standosene comodamente seduto alla scrivania. E chi ne ha tratto una risibile reazione, fischiettando, al sicuro, vitto e alloggio assicurati. E che ora sta per uscire, avvilito, a respirare un po’ d’infausta aria cittadina.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Joseph Roth, Fuga senza fine, Newton Compton editori, 2012

 

 

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