“Che fine ha fatto Matteo Savona?” di Tommaso Volpi: alla ricerca del delitto perduto
Ora che ho terminato di leggere il romanzo “Che fine ha fatto Matteo Savona?”, finalmente riesco a capire l’immagine che è in copertina: un uomo, apparentemente giovane e in forma, ben vestito, è appoggiato con la testa al muro di un edificio, con le mani sospese nel (suo) vuoto, intento a produrre un’ombra che pare più massiva di lui.

To thrill significa emozionare. Questo di Tommaso Volpi è un thriller. Riscrivo la frase: questo di Tommaso Volpi è un thriller? E ne aggiungo un’altra: esistono libri che non lo siano almeno in parte? Ho appena concluso il romanzo di Achille Campanile, In campagna è un’altra cosa, che è un thriller del tipo faceto; mentre Rayuela di Julio Cortázar è un thriller di tipo soffocante.
Conosco soprattutto tre autori della versione classica di questo genere di romanzi.
Agatha Christie, variando ogni volta il momento, descrive, in uno dei primi capitoli, dei comportamenti da parte di un personaggio, tanto che per il lettore l’assassino non può essere che lui; poi intorno a pagina 57 (ma anche qui il momento varia) qualcosa fa arguire che l’acuta intuizione del lettore era campata in aria. Alla fine, invece… Chi conosce l’autrice inglese mi sa capire.
A Cornell Woolrich poco importa che il lettore scopra chi è l’assassino, ma che, mentre l’infame opera, quello si senta in parte vittima e in parte carnefice. L’importante, per il grande Cornell, è mantenere alta la tensione (e anche il senso di colpa).
Infine c’è il nostro Valerio Varesi che si diletta talvolta di non far trovare al suo commissario né l’assassino, né il movente esatto dell’omicidio. In genere gli arcani sono risolti intorno al 92% dei casi. L’8% sarà eventualmente utilizzato in un eventuale prosieguo della serie. Il mistero, come qualsiasi risorsa, va seminato, piantato, allevato, ma mai consumato del tutto: bisogna pensare anche al futuro, questo parzialmente sconosciuto. Quel che conta per l’autore, ma anche per il personaggio principale, e di conseguenza per il lettore, è acquisire una nuova coscienza di quel che è (probabilmente) accaduto. In genere le loro menti formano una congrega di delinquenti.
Solo allorché la particella viene attestata, dice Niels Bohr, essa esiste. Così è per la soluzione di un thriller. Fino a quel momento l’assassino è sia innocente che colpevole, similmente al gatto di Schrodinger.
Nel caso dell’io narrante, che non è Tommaso Volpi, ma un suo horcrux di nome Alessandro Albertazzi, si comincia ancora prima: dalle cellule staminali, che sono delle parti della nostra natura che sono in continua e necessaria evoluzione. Non possono evitare di mutare, essendo notoriamente incomplete, ma capaci di trasformarsi in un qualcosa che non esiste ancora, oppure ha cessato di dire la sua da tempo. Chiamala, se vuoi autocoscienza, fenomeno che necessita di una continua mutazione. Fra i tre esempi citati, mi è naturale che quello di Varesi sia il metodo meno dissimile a quello utilizzato da Volpi.
In genere, ma soprattutto in Che fine ha fatto Matteo Savona?, a me non interessa sapere chi è l’assassino, anche perché nella fattispecie s’ignora persino se ci sia stato un delitto. Non ho colto, nella sua narrazione, il crescere della tensione, che ogni tanto tende verso l’alto, per poi diminuire, quasi cessando di colpo, a volte, per poi aumentare con una nuova intensità, per poi addolcirsi. Costante è l’ansia che l’io narrante sa trasmettere al lettore, dopo aver già infettato l’autore, credo.
Il Capitolo primo comincia così: “Ho fretta. Ho molta fretta. Ho fretta come se un treno dovesse sbucare all’improvviso da questa galleria e spappolarmi le gambe. Ho fretta di raccontarvi una storia che potrebbe evaporare da un momento all’altro…” – i puntini sono miei. Da notare che siamo coinvolti tutti noi lettori. Che siano lettori reali oppure impliciti, tanto per prendere a prestito un’idea da Che cos’è un testo letterario di Loredana Chine e Carlo Varotti, cioè, per intenderci, uno dei 25 a cui Alessandro Manzoni talvolta si rivolgeva, è sì importante determinarlo, ma questo può essere verificato/falsificato solo allorché l’opera è letta.
Nel mio caso mi definirei un lettore solidale, disposto anche a condividere l’ansia che spesso rasenta l’angoscia che attanaglia Alessandro e che sicuramente ha rubato diverse ore di sonno all’autore.
Essendo io un tipo fin troppo sincero, avverto chi di dovere che ho letto il romanzo, sospendendo per un giorno o due La paga del soldato di William Faulkner, o meglio, diradandone con saggezza la lettura. Diciamo che mi è andata bene, in quanto sono cascato dalla brace alla padella, ustionandomi di meno. Sia per Tommaso Volpi che per William Faulkner si tratta di un’opera prima. Mi permetto di augurare a Tommaso di peggiorare gradualmente, in quanto a effetti comminati al lettore, come capitò al grande romanziere di New Albany. Egli è giovane e ha davanti a sé una lunga vita di artistiche dolenze.
Col tempo, sia l’autore che il lettore imparano a convivere con il loro problema esistenziale, anzi, a darlo per scontato e quasi benedetto dalla sorte. Diversamente non si capirebbe come tanti lettori siano alla sempiterna ricerca del nuovo tormento del Commissario Soneri. Provare (a chiedere a Valerio Varesi) per credere.
Per stemperare il pessimismo che immagino sia scaturito dalle righe precedenti, va detto che lo stile di Volpi è ben curato, simpatico, accattivante, leggero, quasi dolciastro, solo a volte, e a fin di bene, irritante al punto giusto, nonché dotato di un suo retrogusto amaro, se non addirittura acidulo.
“Allo psicologo non racconti la verità. Racconti una storia, una storia qualsiasi. Spetta a lui guardarci dentro e scoprire la verità.” – identico compito spetta sia all’autore che al lettore, specie se quest’ultimo si autodefinisce un reagente, più che un recensore. Io tento di far mia la storia, identificandomi con tutti i personaggi. E con l’autore, con cui amo talvolta dialogare. Nel caso di io narranti, la cosa diventa più complicata, quasi bipolare. Vedremo…
Chissà chi l’ha scritto, Tommaso o Alessandro?: “Una cosa c’è. Come le ho già detto ho una fervida immaginazione. Tendo a immaginare lo sviluppo di qualsiasi fatto. Di solito le cose prendono una piega negativa.” – finalmente una nota allegra (Alessandro sta chiacchierando con un atarassico psicologo).
Le prime tre righe del Capitolo secondo non le riporto perché basta pigliare le prime tre del Capitolo primo, adattandole un po’, ma si fa prima a prendere in mano il romanzo di Volpi e leggerlo d’un fiato. Ognuno ha le sue premure, dicono.
L’intero capitolo è farcito da espressioni di autocommiserazione, che si possono sintetizzare nell’espressione “sono patetico”. Si tenga presente che andare dallo psicologo non è un fatto gratuito, è un lusso da borghesi, e in più è ricondotto a un numero esatto di minuti, dopo di cui… È finito il suo tempo. Esca, la prego, e Avanti un altro! Se avessi mai avuto il minimo desiderio di iniziare un trattamento psicoterapico, il romanzo che sto leggendo m’avrebbe demotivato. Lo psicologo di Alessandro non è del tutto glaciale, ma non brilla mai di attitudine empatica.
“La mia incapacità di focalizzarmi su un obiettivo e portarlo avanti è stata confermata ancora una volta. Come la sceneggiatura che non scriverò mai.” – così l’io narrante mostra com’è messo a pagina 32.
A pagina 38 non gli va molto meglio: “Non sono capace di entusiasmarmi, non me l’hanno mai insegnato in famiglia. Per questo mi innervosisce: non lo capisco.” – amico mio, permettimi di chiamarmi così, essendo ormai compagni di cella, devi cercare il Theòs che è in te, che se poi non esiste non fa niente. Se lo trovi, poi lo presti a me, e io poi te lo rendo, non so se con interessi, ma farò del mio meglio per correlarmi a te: saremo, tu io narrante e io tuo lettore, uniti in quell’entanglement quantistico di cui tutti parlano (come me, anche a sproposito).
La tua donna, Chiara, ha un “progetto di vita”, beata lei, tu no, oppure non lo capisci quale possa essere. Sembra che tu stia attendendo gli eventi, come se appartenessero a un tuo personaggio.
Tu con Chiara sai essere onestamente bugiardo, perché le dici le bugie solo allorché sono diventate cogenti. Diversamente, al massimo, le sottaci parti essenziali della tua vita.
Un tuo alter ego, almeno nel senso che si chiama Alessandro come te (e non può essere un caso) è normalmente una persona sbagliata al punto inverso che, nel tuo caso, è apparso al momento giusto, per aiutarti in quella che potrebbe essere la tua disfatta. Con lui affronterai un compito importante: scoprire se in una data galleria ferroviaria ci siano o no delle nicchie.
A volte dimentico di dire delle cose importanti, essendo preso da tutte questa psiche, quest’anima, che tende a mischiarsi, confondendosi, l’una nell’altra. Tu lavori nel campo del cinema, sogni di diventare sceneggiatore se non anche regista, ma ora ti occupi di produzione, cioé devi cercare di risolvere i problemi del sedicente grande regista, anche se questo è basso, ma non di statura.
Nel frattempo questo Alessandro ex ferroviere, amante dell’alcol e delle canne saporite, è la persona a te più vicina, in quanto, ma questo accadrà ancora tante volte, la tua Chiara è svolazzata via, in preda a dei fumi che le uscivano dal naso nonché dal cervello, dopo aver aspramente discusso con te. Quando t’arrabbi sputi in faccia (simbolicamente) al prossimo come un vero vajasso.
Le donne, quando te ne farai una ragione?, anche le più care, sono delle kangaroo (delle non capisco) per noi, come noi per loro. Geneticamente noi abbiamo un po’ di y che si scornano con le loro x.
Ogni capitolo contiene un pezzo della tua esistenza. L’ordine cronologico non è sempre mantenuto, di questo ti ho ringraziato con un’impalpabile ironia solo dopo averlo compreso a fatica. Colpa mia, in effetti. La tua è una ricerca di tempo non solo perduto, ma anche dubbio, inventato, manomesso, trasformato, accertato, falsificato: sempre irreale al punto giusto. Tu poi dissemini il testo di così tante, sfiziose, similitudini che a volte diventa complicato badare all’essenziale.
La storia è intrigante, per cui cercherò, furbescamente, di tacerne vari particolari. Diversamente dal thriller classico, il delitto forse non è mai avvenuto, se non nel tuo cervello. Tu stesso hai dei vuoti di memoria a riguardo, e questo ti reca dolore. La tua è una Recherche del tempo che non è stato perduto, ma infilato sotto un tappeto, come tu talvolta fai con le bugie. I fatti che vai cercando di far riemergere si riferiscono al periodo delle elementari, quando avevi circa otto anni. Il tuo scopo è cercare quel tuo coetaneo di nome Matteo. Lo troverai? Ti troverai? Scoprirai la verità, qualunque essa sia? Ma esiste sul serio, la verità? O è un’illusione come si dice sia lo spazio-tempo?
“Chiara è un coacervo di contraddizioni…” – in quanto ha parecchie idee per nulla confuse, ma contraddittorie, e non le sto a enumerare (alcune di esse sono, per chi è eventualmente interessato, elencate a pagina 61). Tu ne hai due, tre o al massimo quattro, però fisse, sempre osmoticamente immerse l’una nell’altra. È come una fitta serie di fiumi che convergono nel medesimo mare, solo che alla fine lo stesso oceano pare un rivo strozzato che gorgoglia, di montaliana memoria. Il luogo dove la coppia vive, si lascia per sempre, si ricongiunge, strillando ogni volta le parole più offensive che si possono concepire, e alla fine può riconciliarsi, è detto, affettuosamente il “nostro appartamento giocattolo” – dove il gioco è consentito solo in taluni attimi fuggenti.
“La vita è così, penso, in uno stallo precari, pronta a sbilanciarsi verso la felicità o verso un futuro poco promettente.” – il dado è ogni volta tratto ma poi è così rapido nel ri-trarsi, che ben poco si può coglierne l’esatta traiettoria.
“Et voilà! Un’altra piccola bugia per Chiara, un altro segreto, altro sporco che metto sotto il tappeto, sperando che nessuno lo smuova.” – c.v.d., le tue sono verità virtuali che, come le particelle che pullulano nel vuoto cosmico, pur non riuscendo a esistere, creano l’ambiente ideale perché, non più meritevole, anzi, più banale, si formi una particella quantica, che durerà l’espace d’un matin.
A pagina 104 ti accusi di un delitto orrendo e occorre leggere tutto il resto del romanzo per scoprire se il fatto risponda al vero e, in questo, assomigli alla Christie, di cui rammento solo un testo, Dalle nove alle dieci, con un io narrante e, a occhio, quel tipo era assai più prudente e consapevole di te.
A pagine 112 ti chiedi, tra l’altro: “È morto Diego o no?” – questo è il problema. Uno dei tre o quattro più importanti del tuo, personalissimo, momento storico. La tua consapevolezza è in costante decrescita, come intorno a pagina 121 e seguenti, lo è la carica del tuo cellulare.
“Permettetemi una digressione. Me lo dovete. Finora vi ho intrattenuti onestamente, senza perdermi in tanti fronzoli, andando dritto al sodo ma ora ho bisogno di…” – scusa se ti interrompo, caro, ma tu e Tommaso Volpi siete i Domini della situazione. Fate come se foste in un racconto vostro.
I due Alessandro si piaciucchiano psicologicamente: “A vederci da fuori potrebbero scambiarci per i personaggi di una pièce teatrale dell’assurdo, ma in realtà nessuno dei due sta mentendo.” – perché siete, anche voi, ormai correlati, e io con voi. Ti avverto che quei due, Valdimiro ed Estragone, stanno ancora aspettando l’amico Godot, per cui voi due, datevi una mossa! Scantatevi: uscite dall’incanto! – tipiche espressioni arşâne. Non ho scritto Svegliatevi!, per non essere frainteso.
Nell’attesa riporto una delle numerose perle di Volpi, che non le sta a lesinare, in effetti: “La serata è talmente carica che ci sono anche gli indiani che vendono le rose e gli egiziani con gli accendini a forma di bidet.” – che io avrei accattato anche se non ho (quasi) mai fumacchiato.
Colgo una frase che pretende (forse anche a diritto) di passare alla storia: “La vaghezza dell’orazione è quella sostanza che alimenta il mistero della narrazione. Non lo sapevate? L’ha detto quel gran coglione di Alessandro Albertazzi.” – e occorre essere sempre coerenti con la propria incoerenza: questo l’ha detto tuo fratello Stefano Pioli.
Finalmente mi sta sfuggendo un atroce spoiler, di cui non so se mi sarai grato: alla fine della favola, per una serie ingarbugliata di elementi che s’incrociano assurdamente e misteriosamente, come accade a quella particella che, per l’effetto tunnel quantistico, riesce a superare una barriera che pareva quasi impenetrabile, perché è sempre quel quasi che ci fa sperare nel miracolo finale, tu riesci a dare una risposta a quasi tutte le domande. Ti consiglio vivamente di salvaguardare per sempre quel salvifico quasi, anzi, di benedirlo. E tutto questo accade grazie a una mezza agnizione finale che, per sette ottavi, permette al lettore di ammettere: beh, in fondo qualcosa è stato recepito. Avevo un amico che quando si andava in pizzeria e qualcuno di noi gli chiedeva se la pizza gli era piaciuta, rispondeva, di volta in volta, Sì, per otto noni, per dodici quindicesimi, per sei settimi etc. Era il più soddisfatto di tutti, perché era, o credeva d’essere, il più consapevole.

Alla fine te la prendi ancora un po’ con noi, ma ormai ci siamo abituati: “… e non dite niente? Come? Ah già, voi non parlate, voi leggete e basta…” – beh, non proprio. Però, se vuoi, ti do ragione, ma sai a chi la diamo a Rèş la ragione? Al cajo…
“Ma io sono fatto così, non rifletto ma sono costretto ad andare avanti e indietro, continuamente…” – a pagina 203, credi di andare in quiescenza come uomo libero, ma ora una nuova serie di obblighi ti attende, dietro l’angolo! Auguri, mio consanguineo! Ricordati che a renderci più complicata la vita sono le persone che ci amano.
E grazie di tutto. Anche per essere stato, fino in fondo, te stesso!
Dimenticavo una sciocchezza. Non so se scriverai mai la sceneggiatura che ti sta attendendo, laggiù, sulla tastiera, ma questo romanzo può diventare un film, anche un bel film.
Ma non sarà per niente facile realizzarlo.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Tommaso Volpi, Che fine ha fatto Matteo Savona?, BookTribu, Marzo 2023