Le métier de la critique: Piero Ravasenga, l’opera narrativa ed il Ventennio
Piero Ravasenga nacque il 7 luglio 1907 a Borgo San Martino (AL), un comune di circa 1500 abitanti, situato nelle vicinanze di Casale Monferrato, nella pianura sulla riva destra del Po dominata da pioppeti e da colture cerealicole.
Suo padre era il medico condotto della zona; sua madre, Agostina Vigliani, nipote di Onorato Vigliani, figura di spicco della Destra storica piemontese, era imparentata con famiglie del notabilato monferrino che si distingueranno nel Ventennio fascista (il quadrumviro casalese Cesare De Vecchi di Val Cismon; Corinna Teresa Ubertis, la Térésah notissima scrittrice e poetessa del primo Novecento, coniugata con il giornalista novarese Ezio Maria Gray, figura di primo piano del Ventennio fascista, poi della Repubblica di Salò e infine dell’MSI). Agostina Vigliani fu anche scrittrice e poetessa, animatrice nella sua casa durante i primi anni del Novecento di un vivace salotto frequentato da intellettuali di rilievo come il futurista Filippo Tommaso Marinetti, il pittore Giuseppe Pelizza da Volpedo, lo scrittore Salvator Gotta, il poeta crepuscolare Guido Gozzano (che recensì un suo romanzo, Il superstite, uscito nel 1911 per le edizioni Lattes, sotto pseudonimo di “Iacopo Vigliani”).
Piero Ravasenga studia nel Collegio Salesiano del suo paese, legge molto, ha come modelli culturali d’Annunzio e Nietzsche. A sedici anni consegue la maturità al Liceo classico di Casale Monferrato; nel 1927 si laurea in Giurisprudenza all’Università di Genova: a soli vent’anni è il più giovane avvocato d’Italia e come lo cita la “Domenica del Corriere”, che pubblica anche una sua foto. Inizia a collaborare con diversi giornali locali; per il resto, grazie all’agiatezza della famiglia e alla madre che lo adora e lo supporta economicamente, passa senza problemi il suo tempo tra amici, amori, osterie, bordelli e cascine del Monferrato.
A ventitré anni, nel 1930, dà alle stampe il suo primo libro di racconti, Morte della Sensitiva, presso le Edizioni Fratelli Buratti di Torino che pubblicavano scrittori e poeti già affermati come Eugenio Montale e Corrado Alvaro.
Così di lui scrisse Ferdinando Palazzi, poligrafo e direttore editoriale un tempo assai noto, autore del Novissimo Dizionario della lingua italiana (1939): «Uno dei migliori di questi giovani scrittori è il Ravasenga. Non per quel che è riuscito a realizzare in questo libro, ma per quello che potrà fare quando avrà trovato l’equilibrio che ora gli manca. Forse il Ravasenga è un poeta che non ha saputo trovare il verso; forse invece è un prosatore a cui manca la fiducia nella prosa…»[1]
Successivamente Piero Ravasenga pubblicò un altro libro di racconti, Memorie di Primavera (1933), le prose brevi Sacramentale (1938), Crea (1941), Cacàmero (1942); i romanzi Magnolie per Siglinda (1963) e Le nevi di una volta (1964, editore Vallecchi, presentazione di Cesare Garboli). Il libro di memorie Roma divina fu pubblicato postumo, nel 2001; a tutt’oggi restano inediti i romanzi Premio letterario e Cronaca del secondo fieno che, come Roma divina, risalgono agli anni Sessanta.
Ricorda Olimpio Musso: «Una volta Pietro Chiara gli chiese che cosa facesse; e il Nostro, con serietà e convinzione, dopo un attimo di riflessione, rispose: “Faccio dei giri”».[2] E Mario Soldati, conquistato dalla lettura delle Nevi di una volta, racconterà di avere invano inseguito le tracce di Ravasenga in un’afosa giornata di agosto, senza riuscire a incontrarlo.[3]
Partendo da questi dati di fatto, Giuseppe Zaccaria intuì che «proprio in questa presenza, che ci si illude di raggiungere ma che continuamente si allontana, è il fascino inconfondibile della scrittura di Ravasenga. I suoi racconti e i romanzi sono autobiografici, ma il dato materiale viene trasceso nella creazione di un mito esistenziale».[4]
Nel saggio di filosofia e di poetica Dioniso (1933) Ravasenga, in linea con le più aggiornate tendenze della riflessione estetica europea (Nietzsche, ma anche Henri Bergson e Sigmund Freud), esplicita la sua teoria sul mito (autonomamente, ma in contemporanea con Cesare Pavese): concepisce il tempo alla maniera di Bergson, come un flusso vitale che esiste «dentro di noi» e che, attraverso la scrittura, trasforma la realtà in immagini nelle quali si fondono e si annullano tempi e spazi, gesti e sensazioni in un eterno ritorno di figure archetipiche sostanziate di «desiderio» e di «sogno» (dato che, freudianamente, il sogno è un’allucinata ma euforizzante soddisfazione del desiderio).
Sulla base della poetica novecentesca che rifiuta trame d’impianto naturalistico, con il crono-logico susseguirsi di sequenze narrative, nelle prose ravasenghiane gli elementi della trama si dissolvono in quello che può essere considerato un continuo, ininterrotto di-gredire, fare divagazioni.
È una ripresa, da parte del Ravasenga, di moduli narrativi risalenti alla scrittura digressiva di Laurence Stern, il cui Viaggio sentimentale fu ammirato e preso a modello da alcuni autori della Scapigliatura, come il monferrino Igino Ugo Tarchetti.[5]
Giuseppe Zaccaria definì il Ravasenga un viaggiatore flâneur, che vaga o staziona qua e là senza uno scopo preciso, salvo quello di osservare criticando oppure compatendo (nel senso del “patire insieme”) persone e ambienti. Del viaggio restano i simboli, sempre diversi e uguali (le stazioni, i treni, le camere ammobiliate e poi la bicicletta, le strade di collina, i cascinali), in racconti in cui l’inizio e la fine diventano intercambiabili: il narratore è già arrivato, oppure è di nuovo partito, nello spazio di un eterno presente[6].
Nei testi del Ravasenga sono rinvenibili due costanti formali, spie di due antitetici poli ideologici. Da una parte, l’alto stile che l’autore riserva alla contemplazione estatica e cosmica della natura. Si legga questo passo di Crea, una breve prosa pubblicata nel 1941sulla rivista letteraria “Il maestrale”, che racconta una sua ascesa al Sacro Monte di Crea, luogo di culto che si trova su una delle più alte colline del Monferrato e si snoda lungo la salita che porta al santuario mariano (la chiesa-basilica di Santa Maria); da lì procede lungo un sentiero che, in un bosco di querce e frassini, si inerpica tra le ventitré cappelle e i cinque romitori, in un percorso devozionale che conduce alla cappella del Paradiso, posta alla sommità della collina:
“Apparve la via come un itinerario, diritta, rilucente quasi di veli freschi come il bordo dei fossati dove l’ultima gioia dell’erba antecedeva lo squallore degli autunni da noi lunghi e le nevi. Il sole elargiva un’esatta luce, donde si drizzavano strade, colli, cascine, ferrovie. Per la strada chiara, l’ascesa fu rapida e non sentita. Era la terra dei vigneti, delle fornaci: ora il sentiero sassoso e scosceso, fra piante che precipitavano per tutto il clivo a racchiuderlo in orto, tratteneva per pochi attimi il paesaggio, premio all’ascesa. E la visione fu: sfumavano le lievi vallate dense di vita agreste, ingombre di verde; i castelli del Monferrato luccicavano: San Giorgio, Camino; il Po era visibile come una lama, il colle era una dimensione d’amore fra cielo e campagna, una saggia follia. Si potevano raccogliere le ore mattinali dal coro delle figure collinose quasi clipei adorni e la vegetazione sfuggiva come uno specchio fluido, e fresco, per cui brulicava un silenzio di cose, un silenzio terrestre senza possibilità d’intesa, un silenzio più immediato e pastoso del buio delle cappelle, un sordo silenzio di madre assente ma non perduta confortato da un effuso rosolio ancora di aurora che fissava la qualità terrestre e soprannaturale dello spirito pur nella labile vita.
Splendente, ombrosa, uguale, silenziosa a malgrado dei pellegrini, la collina si umiliava sotto il cielo, si adergeva materna e sottile nel giro spaziale, si apriva di vie dolci come una giostra, mostrava nella zolla incolta, polverosa e nel sasso, nella vegetazione e nel sentiero, l’ultima e sana purità della vita.”
Ecco: siamo di fronte a uno dei tanti possibili esempi di “poesia in prosa”, un genere di scrittura in cui Ravasenga è maestro. Si noti la frequenza di non ovvie similitudini (nelle poche righe succitate si possono contare cinque «come» che introducono altrettanti paragoni), la presenza di una metafora genitiva («un rosolio di aurora»), il ricorso a termini che denotano o connotano una natura umanizzata («la gioia dell’erba», «il sole elargiva», «la collina si umiliava», «il sentiero tratteneva»), la quadruplice poetica reiterazione del termine «silenzio», il poetismo «clipei» (invece di “scudo”), di dannunziana memoria.[7]
E per contro, si legga questo passo tratto da Roma divina:
“Alla pensione Verzelli arrivò una danzatrice: una squinzia. Nulla di speciale in quella donna, se non fosse stata una squinzia, ossia il massimo dell’espressione raggiunta con poca carne: magalda e pepata e stupida e capace di accendere una dolce ossessione con quel suo fare inquietante. Le squinzie, si sa, e non le bellezze muliebri, sono da sempre le “donne fatali”. E fu un altro rimpianto per me, perché trovandomi a corto di quattrini non avrei combinato nulla di buono: quei tipi vanesi, scioccherelli, sono pure capaci di rifiutare il denaro per un capriccio, ma questa pacchia non mi sarebbe toccata. Infatti divenne immediatamente l’amante del guitto.[8]
Intanto la Thea, che colà si venerava come virtuosa a rovescio, come donna inaccessibile se non entravano i quattrini, e come tutte le mantenute fisse rifiutava la sporadica marchetta, non foss’altro per ragioni di decoro, divenne anch’essa l’amante del guitto. Tutti lo sapevano, tranne naturalmente Gigino [l’amante “ufficiale” che manteneva la Thea], cui nessuno diceva mai nulla. Quante volte al mondo accade che noi siamo i soli a non saperci cornuti, o lo sappiamo in ritardo di molti anni. E si sta bene, e fanno malissimo quelli che vanno a fare la spia e riferire. Per fortuna la forza dei cornuti è spesso tale che non credono nemmeno a vedere. E ciò fa bene all’equilibrio sociale.”[9]
È uno tra i tantissimi esempi della ravasenghiana ironia, fatta di giudizi taglienti, di ciniche sentenze, di termini peregrini («magalda»); dialettali («squinzia»), volgari («marchetta»).[10]
La morte della madre, nel 1931, è un evento che Piero non dimenticherà mai, e che rifiuta: inizia a perdersi peggiorando la sua situazione morale ed economica, e per il resto della vita non riuscirà a trovare un equilibrio che gli consenta di vivere serenamente e decorosamente. Incominceranno le peregrinazioni in diverse città, Roma, Milano, Torino, Parigi, in squallide pensioncine e ricoveri in ospizi, alle prese con saltuarie e poco durature occupazioni: impiegato in Enti fascisti a Novara, a Roma e a Torino, soldato in Africa Orientale, novizio nei conventi dei Cappuccini a Viterbo e a Bracciano, attivista nel gruppo comunista internazionalista di Luigi Danielis[11] a Torino, manovale sindacalizzato nelle miniere Talco-Grafite Val Chisone, uomo di fatica e portinaio presso il torinese “Rifugio del giovane” di don Orione, banditore di aste a Salsomaggiore…
Frequenti i ritorni a Borgo San Martino e a Casale Monferrato, per trovare ospitalità presso la sorella benestante o in qualche cascina, girovago in bicicletta per le campagne o coricato, la notte, sulle panchine della stazione.
Ravasenga ha amato soprattutto la madre e i gatti: “Mia madre che in un dagherrotipo di quand’era sposa aveva una vita da vespa fu invece corpulenta dopo avermi partorito; l’amavo come fosse un elemento, o fieno, o mare, la riconosco nelle vesti sbrigative di lanetta, seduta nel breve giardino, con nelle braccia innocenti e tonde un gatto come fosse una ostensione. La passione e il culto per i gatti li ho ereditati da lei e finché visse ne spartimmo insieme l’attaccamento […], così che credo di essere il terzo, ma soltanto in ordine di tempo, grande amico dei gatti: dopo Maometto e Baudelaire.”[12]
Ma con gli esseri umani, com’era, il Ravasenga? A suo modo misantropo, dal carattere difficile, se la prendeva persino con i suoi benefattori, se convinto di aver subìto da loro un torto, una mancanza di interesse o di riguardo o una non adeguata risposta alle sue insistenti e continue richieste di denaro. Nei confronti delle personalità politiche e della dominante ideologia fascista il suo atteggiamento fu complesso e contorto, ma del tutto in linea con il proprio carattere idealista, insofferente di vincoli e compromessi. Apparteneva a una famiglia di notabili del fascismo piemontese, che non riuscirono a trasmettergli un minimo di disciplina e di obbedienza ai superiori: non riuscì a tenere né il lavoro novarese avuto grazie al quadrumviro Cesare De Vecchi di Val Cismon, suo cugino per parte di madre; né l’impiego romano ottenuto col favore del gerarca Ezio Maria Gray (che Ravasenga definiva sarcasticamente “la Patria”)[13], marito di sua zia Corinna Teresa Ubertis, la Térésah allora autrice di gran successo; né l’impiego presso l’ENPI[14] di Milano, procuratogli dallo zio commendator Vigliani.
È d’altra parte noto (come appare fin dai primi due racconti del suo secondo libro, Memorie di primavera) che il Ravasenga trasfigurò in figure epiche gli squadristi monferrini Carletto Spagna e Giovanni Passerone, e per tutto il Ventennio esaltò Mussolini, e amò di amore sviscerato sia il nazionalista Gabriele d’Annunzio frettolosamente assimilato ai fascisti, sia il filosofo Friedrich Nietzsche a quei tempi gabellato precursore dell’ideologia nazista.
Le sue idee sono apparentabili al cosiddetto “fascismo di sinistra”, che lo storico Giuseppe Parlato definì «un insieme, a volte discorde e contraddittorio, di sentimenti, di posizioni, di prospettive e di progetti che si fondavano sulla persuasione di vivere, nel fascismo e attraverso il fascismo, una sorta di palingenesi rivoluzionaria, la prima vera rivoluzione italiana dall’unità»: quel “fascismo di sinistra” che nei primi tempi si tradusse essenzialmente nello squadrismo, ma che «verso la metà degli anni Trenta, aggregando soprattutto i giovani universitari, gli intellettuali e i sindacalisti, si fece portatore di un “secondo fascismo” teso a superare la società borghese».[15]
In questa prospettiva si possono collocare i suoi scritti a favore del razzismo nazista, fatto proprio dal fascismo dopo l’alleanza con Hitler. Scritti rintracciati e inseriti nel contesto della pubblicistica fascista alessandrina da Alberto Ballerino, che riporta tra l’altro questo assunto ravasenghiano, tratto dall’articolo “Antidemocrazia”, apparso sulla prima pagina del “Corriere di Alessandria” del 15 ottobre 1937: «… tra una dittatura che cerca i consanguinei dappertutto e una che tiene calcolo della sola razza, quest’ultima è certo più onesta, più giusta, più congrua: sta nei confini». Insomma, commenta Alberto Ballerino, «l’intellettuale monferrino individuava proprio nel razzismo e nella sua “modernità” lo spartiacque definitivo tra le “vecchie” democrazie liberali e i nuovi stati rivoluzionari di destra.»[16]
Secondo Giuseppe Zaccaria, «Ravasenga con la politica non ha nulla a che vedere, se non riciclando sfoghi e risentimenti personali»[17]. Di parere opposto è Piero Flecchia: nella sua introduzione all’opera inedita Roma divina. Che cosa fu il fascismo, sostiene che Ravasenga “non ha per formazione il culto del capo. E non lo ha in quanto la sua coscienza si è modellata sui valori del Risorgimento, dove al centro stava la lotta contro il capo dei capi, l’ungitore dei re: il papa. Inizia dopo la firma del Concordato con la Chiesa cattolica nel 1929, la sua lunga riflessione sul fascismo e sul duce, la cui magistrale sintesi è Roma divina. Di capitolo in capitolo, attraverso il caffè Aragno,[18] la bettola e il postribolo, il sistema dello scrocco reciproco di una società di parassiti porta il picaro pitocco Ravasenga al grande parassita: il duce.”[19]
Ecco come “l’avucàt dal Burgh” racconta la storica udienza a Palazzo Venezia, nella “sala del mappamondo” scelta da Benito Mussolini per stabilirvi il proprio quartiere generale:
“Correva il mese di luglio, mi pare, del ’34. Non ricorderei dove ci trovammo: mi resta presente Ricci, con gli occhi metallici, dritto e grigio; Montanelli, come una volpe che lascia la tana; un ricco ebreo [seguono i nomi di altre sette persone], Alberto Luchini decorato della prima guerra […]. Con una bandiera andammo a piedi a palazzo Venezia. Ci fecero attendere un poco prima di entrare nella storica “sala” o meglio salone dove lavorava il duce. Era il momento buono per fare carriera: il destino non volle. Perbacco, non avrei dovuto lasciare i miei libri rilegati nel mio ufficio al ministero, ma anch’io omaggiarli al duce e chiedere un impiego. Tutto mi andava invece a rovescio. Mussolini restava al tavolino su certi fogli; non si scomponeva. Finché non ci disponemmo in fila e Ricci portava la bandiera; io mi trovavo il primo a sinistra.
−Avete qualcosa da dirmi? – Sull’attenti feci per primo il mio cognome e lui lo corresse col nominarmi, per intero, nome e cognome, poi Berto [Ricci] profferì qualche frase di omaggio.
Il duce si complimentò con Luchini per i “segni di valore” e aggiunse un discorsetto di politica estera, piuttosto vago, così che non si sarebbe previsto una caduta in seno alla Germania hitleriana. Terminò con una esortazione altrettanto vaga a “potenziarci”, poi venne fra noi ad accogliere gli omaggi libreschi che ciascuno gli offriva. Non che lo facessi di proposito, anzi non me ne accorsi, ma mentre tutti indietreggiavano col braccio teso nel saluto romano verso di lui, io indietreggiavo da tergo. Subito richiamato per questo mio comportamento scorretto, lì sul posto, davanti a Mussolini, esclamai: “Non pensavo che l’uomo fosse un gambero!”. E così la storica udienza ebbe fine.”[20]
Conclude Piero Flecchia: «Il testo di Roma divina è di grande complessità: la scrittura mira al realismo attraverso il simbolo e l’allegoria». Un palese esempio sono le pagine conclusive. A pochi passi da Villa Torlonia, la residenza del duce, c’è una bottega di fabbro ferraio, individuabile per un lume e un ramo di alloro. Ravasenga la scorge prima di vedere la villa del duce e di scagliarsi in una calcolata invettiva contro il tiranno, accusato della più falsa delle onestà: quella dell’attore che recita sulla scena, immedesimandosi nel personaggio che si è cucito addosso.
Presso Villa Torlonia abita la famosa zia di Ravasenga, quella Térésah, pseudonimo di Corinna Teresa Ubertis moglie del gerarca Ezio Maria Gray. Una scrittrice di buoni talenti, ma caduta nella più assoluta banalità per aver aderito ai deliri menzogneri del duce: anche all’ultimo delirio menzognero, quello delle armi segrete hitleriane, tragico sintomo del non voler vedere la verità, cioè che la guerra è ormai destinata alla sconfitta. Ravasenga si è recato dalla parente a chiedere un aiuto perché è povero e affamato. Potrebbe ottenerlo se fingesse, se assecondasse la follia fascista della zia. E invece le dichiara la verità: la guerra è perduta. E non ottiene nulla: lascia l’abitazione della parente, povero e affamato come quando vi è entrato, e inveisce contro gli stupidi (com’è lui stesso!) che dicono la verità. Procede nella notte, rivede la bottega del fabbro e l’alloro. E poco dopo incontra uno stremato, irriconoscibile compagno di bevute, reduce dalla Russia: il verniciatore Pettirossi.
Questa l’interpretazione di Piero Flecchia: «il fabbro è l’emblema di Dante: lo ribadisce l’alloro, simbolo della visione profonda, e il lume, guida alla verità. Solo dopo esser passato davanti al fabbro, ossia dopo aver assimilato la poesia di Dante voce del Vero, scatta l’invettiva contro il tiranno».
Così Ravasenga, illuminato dal maggior Fabbro [ossia da Dante Alighieri], può giudicare il tiranno, mostrato nella sua menzogna.
Ma perché si accetta l’inganno? Perché ci si sottomette al gioco corruttore della retorica, della quale lui non rimane vittima, sapendo scorgere la verità, che sta nella bottega del Fabbro, [allegoria del poema dantesco], sta nella coscienza del vero derivatagli dal culto di Dante.[21] E ottiene un premio, minimo eppure altissimo. Incontra un vecchio compagno di bevute, il verniciatore Pettirossi, reduce dalla Russia: «Sembrava già tanto che ci fossimo riconosciuti. E fu una breve ma piacevolissima sosta presso i panini umili e il fiasco di un’osteria». Così si conclude Roma divina: contro il regime dittatoriale che sta crollando ha vinto la resistenza praticata dai “santi bevitori” dell’Osteria del Cane Nero.
Commenta Piero Flecchia: “C’è un’organizzazione calcolata dei luoghi e degli incontri: la bottega del fabbro, villa Torlonia residenza del duce, la palazzina della zia ultra fascista sono accostate ad arte, e l’incontro con il reduce è emblematico già nel cognome di fantasia: Pettirossi. Il pettirosso è il piccolo passeraceo con tracce di rosso sul mantello: e chi è più ferito dell’operaio sotto il fascismo? Ma il pettirosso è anche un volatile di straordinario coraggio: e solo per un grande coraggio il verniciatore ha saputo tornare dalla Russia a Roma, e la Russia staliniana è per Ravasenga il luogo e l’emblema di un altro grande inganno. Infine, c’è l’osteria, lo spazio di uomini che abitano una realtà scampata alla logica del dominio: attraverso il vino la comunità dei bevitori uccide la fedeltà al padrone fascista e transita nel sogno paradisiaco di libertà. Questa organizzazione simbolica della scrittura non ammette improvvisazioni, esige un ragionato rapporto tra le parti, sia al livello del disegno complessivo, sia nei rapporti dentro i capitoli e tra le frasi.”
Proprio partendo dalle due aggiornate proposte critiche, quella di Giuseppe Zaccaria, di un Ravasenga scrittore mitopoietico, e quella di Piero Flecchia, di un Ravasenga costruttore di calcolate allegorie, si potrebbero intraprendere nuovi studi, per indagare le architetture compositive e le intenzioni simboliche della narrativa del nostro Avucàt dal Burgh. Un autore che, forse, ha ancora parecchio da dirci.
Written by Vincenzo Moretti
Note
[1] Cfr. Teresio Malpassuto, Portrait d’un pauvre homme. Piero Ravasenga: la vita e le opere di un poeta da non dimenticare, Comuni di Casale Monferrato e di Borgo San Martino, 2001. Questo libro sviluppa quanto il pubblicista e poeta Teresio Malpassuto (Murisengo, 1932 – Casale Monferrato 2013) aveva presentato nel precedente più sintetico L’“avucat dal Burg”: nel ventennale della scomparsa di Piero Ravasenga (Casale Monferrato,1998). L’avucàt dal Burgh (“l’avvocato di Borgo San Martino”) era l’appellativo dialettale con cui i Monferrini si riferivano allo scrittore, che effettivamente si laureò in Giurisprudenza, ma non esercitò mai la professione forense, da lui addirittura disdegnata e irrisa.
[2] Olimpio Musso, Ricordo di Piero, preposto a Teresio Malpassuto, op. cit. Olimpio Musso (Casale Monferrato 1941 – Colle Val D’Elsa 2022), grecista, curatore per la UTET dell’opera omnia di Euripide, insegnò Storia del Teatro greco e latino all’Università di Firenze, dopo aver presieduto gli Istituti italiani di cultura di Monaco di Baviera e di Barcellona. Piero Chiara (Luino, 1913 – Varese,1986) fu un prolifico e dovizioso autore di romanzi a cui si ispirarono alcuni film degli anni Settanta: Venga a prendere il caffè… da noi, 1970 (dal romanzo La spartizione), regia di Alberto Lattuada; La stanza del Vescovo, 1977, regia di Dino Risi; Il cappotto di astrakan, 1980, regia di Marco Vicario.
[3] Mario Soldati, Un prato di papaveri. Diario (1947-1964), Milano, Mondadori 1973.
[4] Giuseppe Zaccaria, La signora ritrovata, in “Tutto libri”, 1° febbraio 2003.
[5] Cfr. Rita Severi, Tarchetti e Sterne: considerazioni sui viaggi sentimentali, in “Rivista di letterature moderne e comparate”, 1984, n.1.
[6] Giuseppe Zaccaria, “Poetica e scrittura del mito: Piero Ravasenga”, in Per una letteratura di confine. Autori, opere e riviste del Piemonte orientale, Novara, Interlinea 2007.
[7] Gabriele d’Annunzio, Laus vitae. Il canto amebèo della Guerra, versi 5387-5392: «Ah! Ah! Udite, udite/ lo scalpito dei cavalli/ dietro la polve messaggera/ di morte, lo stridor degli assi/ nei mozzi, l’urto dei clipei/e delle gambiere di bronzo».
[8]Un pensionante, mai citato dal Ravasenga con nome o cognome: un attore saltuario collaboratore dell’EIAR (“Ente italiano per le audizioni radiofoniche”, RAI dal 1944), che ha qualche lira da spendere e gode di una certa ammirazione fra i (e soprattutto le) pensionanti. Il termine “guitto” ha un’evidente connotazione negativa, poiché si confà ad attori di infimo ordine, scadenti, che conducono una misera esistenza.
[9] Piero Ravasenga, Roma divina – che cosa fu il fascismo, a cura e con introduzione di Piero Flecchia, Viterbo, Edizioni Stampa Alternativa, 2001.
[10] “Magalda”, sinonimo di “meretrice”, in Gabriele d’Annunzio, La figlia di Iorio: «o svergognata, ti sanno/ ti sanno le prode dei fossi./ sotto di te mille volte/ è bruciata la stoppia, magalda». “Squinzia”: ragazza smorfiosa, pretenziosa e civetta. In Dino Buzzati, Le notti difficili: «l’ho già intravista, la squinzia, in un ridotto del giardino, dietro una piramide di bosso che si lascia tampinare da uno». “Marchetta”: «il gettone che le prostitute di una casa di tolleranza ricevevano dalla tenutaria ad ogni prestazione, come riscontro ai fini del compenso cui avevano diritto. Per estensione, in frasi gergali, la prestazione stessa: fare marchette, fornire prestazioni sessuali dietro pagamento; per metonimia, prostituta…»; in Dino Buzzati, Un amore: «ha portato le valige al deposito bagagli ed è subito corsa dalla Ersilia, la mia amica, lei la conosce no? in fretta e furia una marchetta».
[11] Luigi Danielis detto Gigi (1901-1968) aderì al Partito Comunista d’Italia fin dalla sua costituzione, nel ‘21. Costretto a emigrare, si trasferisce in Francia, dove continuò il lavoro politico nell’ambito dei gruppi comunisti. Tornato in Italia nel 1945, fu un instancabile propagandista e oratore, responsabile della sezione torinese e membro del Comitato Centrale del Partito Comunista Internazionalista, fieramente avverso al PCI filostalinista di Palmiro Togliatti.
[12] Riportato da Teresio Malpassuto, op. cit.
[13] Riportato da Teresio Malpassuto, op.cit.
[14] L’E.N.P.I. (acronimo di Ente Nazionale Prevenzione Infortuni), fu fondato nel 1938 per divulgare e sviluppare i mezzi di prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali; nel 1975 fu sciolto e le sue funzioni furono attribuite alle USL (ASL dal 1992).
[15] Giuseppe Parlato, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino, 2008.
[16] Alberto Ballerino, Anni rimossi. Intellettuali, cinema e teatro ad Alessandria dal 1925 al 1943, Alessandria, Le mani Isral 2008.
[17] Giuseppe Zaccaria, Poetica e scrittura del mito: Piero Ravasenga, cit.
[18] Il Caffè Aragno fu uno dei più famosi ritrovi artistici romani; ebbe sede in via del Corso dal 1886 al 1955, anno nel quale prese il nome di Alemagna e poi di Roma Corso. Raggiunse il massimo della fama nei primi trent’anni del Novecento, quando i letterati si ritrovavano nella “terza saletta”. L’8 giugno 2014 il locale fu definitivamente chiuso e dal maggio 2021 la storica sede del Caffè Aragno ospita un Apple Store.
[19] Piero Flecchia, Un provinciale nella Roma fascista, introduzione a Piero Ravasenga, Roma divina – che cosa fu il fascismo, cit. A questo stimolante saggio ci riferiamo anche per le prossime citazioni.
[20] Roberto Ricci (1905-1941), detto Berto fu un intellettuale fascista che fondò e diresse la rivista “L’universale”, pubblicata dal 1931 al 1935. Indro Montanelli (1909-2001), fu corrispondente e inviato speciale di varie testate; redattore del “Corriere della Sera (1938-73); fondò e diresse “Il Giornale” (1974-94) e poi “La Voce” (1994-95). Pubblicò numerose e fortunate opere divulgative di argomento storico. Il giornalista Alberto Luchini fu uno dei teorici del “razzismo spiritualista ariano”, secondo cui era esistita una razza italica “pura”, accomunabile agli ariani e non ai mediterranei, che si era “imbastardita” nel corso del tempo a causa soprattutto degli ebrei, e che occorreva “ripulire” per rendere grande l’Italia. Fu da Mussolini messo a capo dell’“Ufficio razziale italiano” nel maggio del 1941. Scriveva nel 1942: «Carta canta e fascista non dorme. A noialtri italiani, anche sulla faccenda degli ebrei, gli occhi ce li ha aperti, a tempo e bene, Mussolini. E all’offensiva antifascista, antiromana, anticristiana di Giuda, si dà la risposta italiana d’oggi. Tener duro e picchiar sodo.» (AAVV, Gli ebrei hanno voluto la guerra, Roma 1942, pag. 11).
[21] Di un “Dante cosmico”, poeta degli astri e dei fiori, degli animali e dei fenomeni naturali, Ravasenga scrisse con antiaccademico entusiasmo in pagine edite (Antologia di poeti veri, 1959) e inedite (I commenti alla Divina Comedia, 1960), come documenta Teresio Malpassuto, op.cit.