“Gli incantesimi” di Carlo Castellaneta: quel misterioso io errante e narrante

Ogni tanto mi faccio cogliere da ricordi nebulosi e manchevoli che m’inducono a scrivere. Di certo era americano il critico che scrisse, svariati decenni fa, mi pare su L’Espresso, che si aspettava dagli autori italiani delle opere di letteratura media, prive di novità stilistiche. La mia memoria può aver mutato parte del suo discorso, ma temo che non potrò mai più verificarlo.

Gli incantesimi di Carlo Castellaneta
Gli incantesimi di Carlo Castellaneta

Carlo Castellaneta è senz’altro un buon scrittore ma, almeno in questo suo romanzo Gli incantesimi del ‘68, non si dimostra come un narratore né medio né normale.

È un po’ quello che scrive Carlo Bo nella sua Nota introduttiva che, a leggerla, a uno viene da dire che non ha ormai senso commentare un romanzo così ben analizzato. L’unica strada che egli vede percorribile è tentare di reagire alla stessa Nota.

“… Castellaneta non sfugge a questa norma…” – quella che prevede che “ogni scrittore possiede delle chiavi per entrare in quello che è il suo dominio preferito…” – il topos sine qua non gli è lecito scrivere.

“… per Castellaneta tutte le storie possibili hanno un teatro obbligatorio, Milano…” – nonché diversi luoghi di passaggio, ognuno diretto verso quell’ambita meta, così mi pare di aver capito, leggendo finora solo metà del romanzo.

“… le donne di Castallaneta sono lo specchio della sua fragilità e quindi della sua ostinazione, delle sue incertezze e delle sue tentazioni…” – mere immagini, o stimoli a ricercare il proprio umano percorso?

“Il suo è un amore perdente e lo è soprattutto nei momenti in cui esteriormente consegue le sue maggiori vittorie…” – forse, per lui, è come quando, su una mongolfiera, si getta al vento parte della zavorra, per salire fino ad Altrove?

“… il suo non è uno dei tanti modi di fare della letteratura ma è il suo, l’unico che gli è consentito…” – e già questa cogenza potrebbe smentire il ragionamento del suddetto critico.

“… obbedisce a un bisogno di verità e alla fine chi racconta la vicenda del giornalista dei nostri tempi si limita a raccontare una vicenda comune a tutti gli uomini…”italici, yankee, semiti, fenici, camiti, mongoli, etc.

“Non ci sono in fondo distinzioni fra protagonista e narratore…” – nonostante (e qui tento di sintetizzare il pensiero dell’acuto Carlo) che ogni particolare narrato sia continuamente aggiornato in quanto necessario in una sua nuova evoluzione.

Carlo Bo giunge all’agnizione finale: “… la vita si apre e si chiude nell’ambito dell’incantesimo…”.

Domanda che vorrei porti, Carlo. Rispondi solo se puoi: l’altro Carlo e il giornalista sono quasi la stessa persona? Credo di no, anche se tanto, mi pare, si assomigliano. O forse solo parenti?

Dice Giovanna, la dea ex machina della storia, che “c’è un errore, che fanno gli scrittori…” – e qualunque esso sia li conduce a errare su e giù per le pagine, riga dopo riga – “… credono che tutto quel che gli è successo sia importante, persino le malattie.” – e certo! È quello che t’impedisce di andare alla scrivania e a scrivere, ma ti stimola a uscire dalla tua vita, immaginandotene un’altra. La scrittura sarà il resoconto di tale conflitto.

Mentre l’io narrante parla di “stile”, lei “staccò il telefono e ordinò da bere.”

Quando si fa qualcosa d’importante, capita di ripensare a “venticinque anni fa”, quando la si era fatta per la prima o per l’ennesima volta. Fu con quello spirito che condussi due mie amate consanguinee a visitare la Grotta Gigante di Sgonico. La memoria adora i refresh.

“È la tua infanzia, vero, che continui a cercare.” – sarebbe bello che ognuno tacesse sui ricordi altrui, limitandosi a condividerli, strizzando l’occhio.

Lo scapestrato Castellaneta ogni tanto stupisce il lettore con dei vocaboli speciali: “cèntine”, “ribattini” – e infiniti altri incantesimi, e questo per tutto il fiume di discorsi, gonfi e non ancora esondati.

Quel monello letterario pensa a Giovanna, da cui si sente tanto preso, e subito dopo ad Aldina, che vive, si ipotizza, da tutt’altra parte, ammesso che ci sia ancora. Sono immagini in jpg che occupano parte della sua memoria di massa, nonché quella volatile. Non quella fissa, che contiene solo se medesimo. Il suo mestiere lo aiuta in tal senso: gira per il mondo, acquisendo scene e discorsi, che poi si tramutano in articoli, che non sempre lo deliziano, pur essendo professionalmente necessari.

“… aprendo la borsa e togliendone il dentifricio, ma già assente, per uno di quei prodigi della memoria che il passato restituiscono intatto…” – e si tratta di un incantesimo ammantato da fiction.

A fine pagina 19 egli enumera un tot di oggetti, di cui cito soltanto “la bottiglia dell’anisetta”, che mi fa andare su zio Google e che mi spingerà a chiedere a chi di dovere di prepararmela, se può. Per noi uomini, oltre il brugnolino, se non di più, c’è altro.

Ogni tanto, se provi una pur incerta passione, la paura è che ormai non sei vivo altrimenti”.

Tutto poi sembra risolversi, per un attimo, con “un bacio”, senza chiedersi null’altro, al momento e forse per sempre: “un nuovo modo di amare che insieme andavamo sperimentando”.

I due possono sbaciucchiarsi ovunque, anche “su quella panchina dove lui e ia madre non avrebbero osato…” – ed è significativo che il papà sia un lui, e la mamma sia dotata di quel materno titolo.

Verso sera l’io mi lascia con una specie di flusso di coscienza lungo una dozzina circa di righe.

Egli subisce la passione, assai più di lei, e così scrive: “Mi rassicura il suo abbraccio, impetuoso e brevissimo.” Ma ce la mette davvero tutta: “Era la prima volta che le mandavo dei fiori, una debolezza di cui ero stato immediatamente beffato.”

Lei gli impone di scrivere un reportage sulla sua avventura africana:Ti metto un tavolo davanti alla finestra e il pomeriggio lavorerai…” – per la notte, poi, ci si metterà d’accordo.

Lui si scusa: “… è una situazione troppo coniugale, vero?” – quando ci si pone la domanda non lo è ancora. Ma lui insiste, forse a sproposito: “Non hai risposto alla mia domanda. È troppo coniugale?”

Lei una cosa pretende: un’unica e cieca obbedienza “Adesso devi pensare al tuo libro.”

Ogni tanto l’io ha dei voli da cormorano, che mi ricordano un recente romanzo di Pier Bruno Cosso, per cui lei diventa “Giovanna la tua monaca di Monza”.

E annuncia: “Le dico Giovanna, bevo il suo fiato finché ha fiato, proprio lei, una guerriera…” – per un mio amico l’unica donna da amare è quella che sa respirare con una sua composta dignità.

Pensa ora al titolo del suo libercolo: “De Affrica, sebbene ignota in tal senso a Ser Francesco…” –ogni tanto ha di queste sortite letterarie, magari condendole con espressioni del tempo che fu e che mai più ritornò, come: “Se noi fussimo al principio della state io approverei quello che saviamente ha detto Ludovico…” – l’oriundo reggiano-ferrarese, I guess, e non più l’Aretino che finì i suoi giorni nella patavina Arquà.

La sua datrice di lavoro lo accoglie in casa con fare materno: “Sei tu? Mi hai fatto star male.” – essendosi l’io attardato a cazzeggiare qui e là. A volte nella passione si finsice per timbrare un cartellino. Ma ci sono anche i furbetti, disse una volta uno gnomo del bosco.

“Era quasi stravolta”.

I due si lasciano ogni tanto, avendo entrambi da fare e lei gli dice che domani: “… sarai a letto con qualche stupidina.” – forse una lavoratrice interinale, forse una qualche ex domina. Ironicamente, ma non troppo, l’io educatamente annuisce.

E poi scrive di “tessuto cicatriziale”, di “esplosioni” che devastano, di “postumi delle lesioni maligne, ai limiti del focolaio”, di “sifiloderma tubero-serpiginoso del tronco”, di “lampi luccicanti e straziati del connettivo.” – ma ha senso parlare di diagnosi, in assenza di un’anamnesi?

“INIMOU”, l’io legge senza capire. La verità è sempre un circolo che gira vorticosamente su di sé.

Lui le propose di fare qualcosa, ma lei “scosse la testa: e dovresti saperlo che non le va mai così di fretta.” Occorre tragica e improvvisa una banalità del tipo: “Niente. Sono incinta”. Dopo che, insieme, ma soprattutto lei, hanno fatto quel che si può fare in questi casi, lui le va a dire, amorevolmente: “Sei davvero una guerriera, lo sai?”io lo avrei preso a schiaffi. Ma forse lei era esausta.

A pagina 58, caro io, giri il mondo, da per te, a “Zagabria”, “o forse a Belgrado”, “Saragozza”, “Atene”, “Venezia”, “Marsiglia” e chi più ne visiti più ne metti. Scorrono infiniti oggetti fra le pagine 59 e 60, che con meno si riempirebbe un magazzino.

“Che cosa avresti dato perché lei tornasse, sartina generosa e dissoluta, a restituirti quella stagione di…” – a proposito, Giovanna… Dovrei cucire una cerniera di un jeans. Stoffa pesante… Ci puoi dare un occhio? Se te lo chiedo è perché ancora non ti amo (sono soltanto a pagina 63). L’io invece ti spara addosso un terribile: “Giovanna, sono felice che tu esisti.”ed è così sconvolto che è fallito il congiuntivo.

L’amata dice che “nessuno ha mai capito niente di te, amore mio.” – e lui non può considerare che anche lui stava “imparando a fatica”.

Ogni tanto, nel bel mezzo di una vacuità, lei sparisce: “Di lei era rimasto, in quel trambusto, la sola traccia del rossetto sull’orlo del bicchiere.”

Carlo Castellaneta
Carlo Castellaneta

E a lui non resta che pensare “che mia madre sta lì, senza osare sporgere il capo fuori dall’androne.”ovviamente illo tempore, che ogni tanto ancora si affaccia, hic et nunc. Meno male che ancora esistono “i baselli delle porte…”

Lui si avvede che non conosce i dati esatti di nascita dell’amata, non essenziali per un aborto clandestino: “… la donna di cui m’ero innamorato, macchè innamorato…” – un essere casuale con cui si è convissuto, macché convissuto. Si fa sempre per dire.

E tutto scorre, davanti e di dietro, su e purtroppo giù.

A pagina 78 ancora unisce le sorti di Aldina (che rivedrà, dopo anni, senza eccessiva emozione, temo) e di Giovanna nel medesimo capoverso. Povera Aldina, che ancora spera e a cui ancora, ogni tanto, lui dice di sì. E sempre ogni tanto il suo cuore vola dalla mamma, “che mi sollevava di tanto in tanto perché vedessi le maschere al di sopra della calca…” – che impediscono di scorgere l’anima. Anche in “un bar qualunque aperto da poco” riesce a intravedere “una marina degli anni di mio padre”. Quando torna il futuro dev’essere subito appeso al muro. E i ricordi si spingono fino all’oscura Yvette di Nairobi, con cui, al tempo di non si sa quale evento mondano, ebbe un rapporto che si concluse con una vana promessa di incontrarsi eventualmente a “Milano”.

A pagina 97 sono colto dall’impressione che l’io mi porti in giro, al fine di disorientarmi.

Una domanda al mio ipotetico lettore: fra un certo “Franchetti”, Giovanna e l’io, chi sa frantumare, sparando, il maggior numero di piattelli? La risposta è indicata poco prima di pagina 100.

L’autore è nato nel 1930. L’anno che precedette quel magico evento il padre dell’io aveva ricevuto una drammatica fregatura da un celebre crollo di borsa, che fu l’abbrivio di diversi, disastrosi inizi.

Non so perché, a pagina 111, mi viene in mente d’ipotizzare un Antonioni intento a dirigere un film su questa storia in-usuale, e in-comunicabile.

Poche pagine dopo la Parte prima finisce con un flusso di coscienza che non sarebbe spiaciuto né a James né a Virginia. Forse nemmeno a… a coso… come si chiama… sì… a quello! Lui si lamenta che lei ogni tanto sparisce, poi torna, poi ancora si dilegua… costringendolo a correrle “dietro per l’eternità!” Sul più bello, “Giovanna mi girava le spalle come in una commedia borghese.”

Di tanto in tanto colgo delle apparenti inesattezze stilistiche (certo che ho un bel coraggio, io). Giovanna le spara un “Bene: faremo questa prova. Porta qui la tua roba. Subito, prima di pentirmene.” – non essendo impegnato a ubbidire, ho il tempo di pensare che forse avrei detto: prima che me ne penta. Intuisco che la cosa più probabile è che Carlo, l’io e la Giovanna siano ormai una maschera, una persona sola. Al che, per discrezione, un po’ mi scosto. Vado a letto. Prima stavo pensando a… a Faulkner.

La mattina dopo Carlo mi risveglia con antichi ricordi: “E gli scarafaggi che uscivano dalle scarpe di mio padre nella camera di viale Piave sono gli stessi che tu avresti trovato, rincasando la sera, in un’altra pensione appena girata la chiavetta della luce, le nere blatte che sfidano guerre e rivoluzioni, dure a morire come gli untori sulla ruota.” – anch’io mi do spesso e volentieri del tu. Nel caso in parola non capisco se sia Carlo a darlo a quest’io innominato oppure sia il contrario.

“… spiavo le prime avvisaglie di ciò che poteva, d’ora in avanti, tradursi in abitudine, felice che nessun segno ne trapelasse, che lei custodisse, al pari di un’onda avvolta su se stessa, il suo inviolabile mistero.” – che, una volta svelato, diverrebbe mera banalità.

Tornando col viso chino a pagina II, leggo quanto Carlo Bo ancora aveva scritto: “lo scrittore non è ancora arrivato alla perfezione, alla sapienza di scansione di certi suoi ultimi racconti…” – e ignoro se certi refusi formali siano stati fortemente voluti: “ci furono una serie di scariche sulla linea”, che permette a ognuno di capire assai bene, e forse meglio, anche se qualcuno potrebbe storcere il naso.

L’io innominato cercauna tregua non solo con me stesso, al diavolo ogni sospetto, ma con il rapporto aggressivo che Giovanna mi imponeva, con quel continuo contendere, con la caccia furibonda di lei.

Dio mio, come sei inclito, mio buon amico: “… reggevo l’ombrello aperto in una mano e la valigia nell’altra ormai legato a Giovanna in teneri nodi, come gasse d’amanti, nodi d’amore entro l’occhiello della vela, a resistere insieme alle impennate del vento…”e chi non capisce s’attacchi al veliero di zio Google.

“… disse che dovevo smetterla di scrivere su cose che non mi interessavano, e finire presto il mio libro, e poi tanti altri libri…” – marxiana e marcusiana, ma forse non consapevole, beata lei, che occorre mantenersi economicamente, inseriti nella propria esistenza professionale, per poter desinare due volte al dì. Lei, pare, è una consorte mantenuta da un marito lontano e sbiadito.

“… il corpo di Giovanna mi apparve inedito e comunque pieno di incognite alla luce dei nostri mozziconi…” – che la metà avrebbe prodotto un sufficiente bagliore.

“… ancora ignoravo come Giovanna destasse di dormire con qualunque biancheria…”per non perdere in aulenza, a quanto ho capito.

“Non ero mai stato così vicino alla verità e insieme così incline ad allontarmene, secondando quella partre dell’istinto che rifugge da una certezza dolorosa.” – c’è chi afferma che in amor vince chi se la squaglia per primo.

Tra pagina 137 e 138 colgo un’inflorescenza di coscienza, mi si perdoni l’odiosa battuta, ricca di “papavero, oppio, mandragora”, “gangrena”, “pustole”, “lamenti”, “fetore della peste”, “vasi di bismuto, di zinco e d’antimonio”, che conducono l’innominato a una nuova possessione di quell’essere, che nel farsi pigliare ti prende, e ti frega l’energia necessaria per evadere: “… disse: subito, prendimi subito” – perché io sono qua e tu sei, per quest’attimo, mio.

Dopo di cui l’io pensa ancora a quella povera Aldina, il suo antico e negletto amore.

La nuova signora gli ordina di uscire, perché “è tutto il giorno che stai chiuso qua dentro”: una breve licenza che non si nega al più mediocre criminale.

Qualcosa sta mutando: “Mi levai dal letto e andai a baciarla come si va a chiudere una finestra.”

Mi fai pensare ora a Denis de Rougemont e al suo L’amore e l’occidente, quando scrivi: “… lo splendore di Giovanna non riuscivo a misurarlo che nella distanza.”

E il pensiero svolazza ogni volta Colà: “… adesso mio padre sapeva che non sarebbe mai morto.”

Il dado non è tratto, è frantumato ormai, quando lei dice: “Tu non sei fatto per vivere con una donna come me. Il tuo destino è questo: fare la valigia.” – e il mio sospetto, anzi, una quasi certezza è che entrambi vogliate stare ogn’ora in viaggio.

Le donne (pensiero sessista!) sanno essere sia più saporite e crude di noi maschiuncoli. Lei ancora dice: “Guardati: un ometto che insegue la sua infanzia, i suoi fantasmi.”: sarebbe come indicare a Leopardi la sua stramba gobbetta.

“Le cattive azioni degli altri illuminano di qualche merito la nostra mediocrità…” – quante ne hai accese, Carlo, di queste illuminazioni

“La solitudine ci vota ad alte imprese.” – l’eroico Messner, dalla regia, conferma.

La sensazione è “come l’amore non sia altro che questo, insicurezza, affanno, pazzia…” – anche quello di tua madre con te?

Confondere amore ed eros è gratuita schizofrenia, che scalda l’esistenza coi relativi incantesimi.

Infine, tu, caro il mio io, le porgi l’ultimo, ci si spera e ci si illude, affettuoso saluto: “Ciao, principessa.”

E s’ode, inevitabile, “il primo lontano fuoco della fucileria” – onde per cui: ciao e alla prossima sarabanda, mio per sempre Carlo!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Carlo Castellaneta, Gli incantesimi, BUR Rizzoli, 1979

 

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