“Jazz Café” di Raffaele Simone: sei racconti sulla ricerca della felicità
Si tratta di una silloge di racconti, scritti con uno stile piano, tranquillo, senza (quasi) esagerazioni, così mi pare dopo avere letto il primo, che dà il titolo all’opera: Jazz Café (di Raffaele Simone).
Era, il tempo vale quel che vale, per cui posso dire che è “l’avvocato Cesare Stanti, uno dei più importanti di Roma” – e la sua descrizione continua per una decina di righe. Un pezzo grosso, uno che si crede… Che cosa? Forse nemmeno lui lo sa. La sua è una auto-credenza indefinibile. È, il suo, un problema, un ostacolo che si è visto proiettarsi sulla sua strada, piccolo. Che significa questa parola, quando la fisica moderna ci insegna che tutto è relativo? È un ostacolo esistenziale, cioè relativo alla sua storia personale. Egli non è in pericolo di morte, ma forse, mi si consenta, il paradosso: lo è di vita.
“Stava male, era matto?” – anche qui tutto è relativo. Non sono matto io che leggo e scrivo tanto, sicuramente più di quel che serve? Insegnava una nota letterata, nata il 13 giugno di circa un secolo fa, che scrivere è cercare la calma e forse lei si calmò scrivendolo; o forse no, non è detto, perché aggiunse: e qualche volta trovarla. E tornare a casa. Lo stesso che leggere. Per me leggere e scrivere sono fatiche infami, come per il bambino fare i suoi bisognini. I reggiani, gente che vale quel che vale, come tutti, hanno un detto: Alōra, l ē pasêda la maèstra?, allora, è passata la maestra? Lo chiedono all’infante quando quella fatica a evacuare una cacca troppo grossa. Questo per me è scrivere e leggere. Silverio, l’amico mio, dice che all’inizio si scoccia farlo, come quando deve fare la doccia, essendo dapprima una noia, ma poi diventa un’attività del tutto rilassante. Non lo invidio, come lui non invidia me. Il risultato è che, quando io leggo e scrivo, ne esco più puzzollente di prima.
Ogni tanto Raffaele (così mi permetto di chiamarlo non so perché; forse per non sbagliare) mi elargisce delle parole che non so se so (“casamatta”, “panoplia”, “diffratta), come se fossero dei tipi che si sono conosciuti incidentalmente nel passato, di cui non si rammenta più il nome, figuriamoci l’etimo e il codice fiscale; nonché dei termini che, se ci si pensa, forse si riesce a intuire parte del loro significato (“cociore”, “pallocca”, “menda”; oppure che ignoro completamente (uno per tutti: “paraffi”, che se avesse avuto una f sola forse avrei intuito qualcosa di più). Ogni volta è zio Google che mi consente di venirci in fondo. Ci sono delle espressioni di facile comprensione, a cui però mai uno penserebbe. Esempio: “alito cloacale”.
Quel tipo, Cesare, ha un nome che è tutto un programma: un aspirante dittatore, che rischia di essere trafitto enne volte. E ha un cognome che pare significare: ehi, sono qui, sono Stante, e con me tutti i miei io, le mie qualifiche.
La descrizione che Raffaele ne fa è di un anziano in gamba, anche se i suoi erano “capelli tutti bianchi”. In compenso “aveva un addome magnifico”: detto così mi fa venire in mente una figura retorica, che non so se l’autore conosce (piolata), un ossimoro: pare un giovane vecchio, un virtuoso “maligno”, un borghese terrorista. Uno dei suoi slogan è, infatti: “Puniscine uno e ne educherai mille!” – concetto che ben si adegua a qualsivoglia ideologia.
M’è stata appena elargita un’arguta definizione del potere: “infischiarsene della reazione degli altri”.
Questa la vorrei discutere: “i problemi sono tutti urgenti…” – sì, nel senso che sono collegati alla dinamica, anche alla termodinamica. Sarebbe un cocente problema finire in un buco nero, ma andrebbe forse peggio concludere la propria esistenza nella più gelida delle entropie. Conclusione della storia: il problema urgentemente cogente (ridondante pseudo-pleonasmo?) di Cesare pare risolto. Quello esistenziale no.
Una notizia curiosa, per concludere la mia tiepida disamina: assurdamente, mi sono in parte riconosciuto in quest’anti-patico anti-eroe. E, da certi piccoli particolari, ho dedotto che anche Raffaele è caduto nel proprio tranello.
Provo a reagire al secondo racconto che, da subito, mi pare tanto intrigante quanto scarsamente aggiungibile, essendo quasi perfetto. Ed è in quel quasi in cui mi fiondo come farebbe una poiana. Si intitola Santo subito, che è il grido popolare che nella Città semi-Eterna la massa sta lanciando, ora che è morto un amatissimo papa. In genere tutti lo sono, banalmente amati (dal latino medioevale bannus, da cui anche bando), come insegna nel suo Elogio della banalità il filosofo Salvatore Patriarca, e il fatto che il Sua Santità Sudamericana non lo sia tanto (né banale, né amato) depone forse a suo favore. Conto fino a 33 pagine senza alcuna sottolineatura: mio record stagionale. Mi devo solo ricordare di guardare ‘n coppa a zio Google il significato di “toboga”, che un po’ arguisco dal contesto. Lo zietto poi mi confermerà che trattasi di una specie di scivolo.
Il Kosmos, che vuol dire ordine è, per lo più, non solo, un Khaos, cioè un abisso, un precipitare verso non si sa dove: o una totalizzante e unificante singolarità, oppure una gelida e disordinatissima entropia. Il che è l’esatto contrario di un riavvolgere il nastro fino all’estremo, come indicherebbe l’etimo, essendo un dispiegarlo al massimo. Ma chi sa poi qual è la verità?! L’etimo è un meccanismo che serve a illuminare, una torcia, che a volte s’incendia e finisce per bruciare quel velo che avvolge una parola, che è sempre, a modo suo, maya-lesca.
“Cosa aveva più senso? Essere una sola persona, franca, inconsutile, dedita e ubriaca d’affetto per un’altra persona intera, o una sola moltitudine stipata a forza in un solo astuccio…” – (black come un hole) – “… tante persone delle quali nessuna, nessuna!, era quella vera?”
E ora una domandina beffarda: chi conosce il significato di inconsutile?
Poche righe sopra Raffaele (e “Gimmy”, il suo personaggio) si erano chiesti: “Cosa aveva trovato nella sua vita, al postutto…” – come se il postutto potesse davvero esistere, come se anche il tutto avesse un suo post… – “… parti del corpo, membra, sbrindelli?”.
Dico questo e poi chiudo provvisoriamente il mio commento da pôver nêsi, che in arşân vale per scemo, da pauper nesciens: la figura retorica che mi è balzata nelle orecchie, leggendo il racconto, è l’anacoluto: tipo il manzoniano: Quelli che muoiono, bisogna pregare Iddio per loro. Non mi si chieda perché, ché mi troverei in imbarazzo.
E non che il terzo racconto, Il coltello nell’ostrica, sia di più agevole lettura, avendo tra l’altro la colpa di farmi (in dose omeopatica, per fortuna) identificare con l’eccelso recensore di Pirandello, che da anni sta studiando I quaderni di Serafino Gubbio operatore, che divorai quarant’anni fa, poco prima di Giustino Roncella nato Boggiolo. Di entrambe le opere non ricordo, toscanamente, un atto onanistico (nel qual caso sarebbe stato di mia pertinenza).
“In verità a Rugnani commentare testi piaceva.” – a me fa schifo, reca dolore, non vedo l’ora di aver finito, hai capito, Raffaele? Non so perché lo faccio, forse perché sono quel nesciens e ardo dell’urgenza di sapere.
“A forza di spingere il coltello nell’ostrica, magari non era venuta fuori nessuna perla, ma miriadi di dettagli sì…” – quel che io getto nella (mia) latrina manco lo puoi immaginare!
Scrivere è per me un orrore, ancor peggio che leggere, pensa un po’…
Dice “l’editor” di Rugnani, il tuo personaggio: “Noi puntiamo all’eccellenza tipografica e editoriale, sa?” – e devo dire che questa tua opera, Raffaele, è la più bella dal punto di vista della snellezza fisica di lettura che ho incontrato negli ultimi 19 anni e mezzo: meno di 30 righe per pagina, meno di 50 caratteri (spazi esclusi) per riga, e una confezione cartacea di discreta larghezza e altezza, oltre che di acuta profondità, ovvio. A proposito, acuta profondità che è? Una siringa che punge più che una lama?
Scusami, ma io non faccio parte degli “esperti di bellettristica” – che è il termine più schifoso che abbia mai letto (e perciò me lo metto in saccoccia, non si sa mai).
Un tipo che non merita la mia simpatia, semmai la mia solidarietà, afferma: “Dalla vita scaturisce altra vita…” – un’altra ovvietà del tipo indicato dal solito Salvatore Patriarca. È come dire che un cogl**ne non cammina mai da solo. E che ognuno si appaia al suo simile. Per cui mi domando perché stia leggendo un tuo libro, allora. Forse perché, dopo un po’, ci si rifugia nel proprio opposto. Tu sei attualmente il mio (provvisorio) antagonista.
Rugnani da giovane, ammalato, ricevette l’assistenza di una persona cara che gli leggeva qualche romanzo: “ma non era una storia vissuta, erano letteratura, erano parole…” – ma solo quelle si fanno leggere. Poi, come qualcuno che conosco, quel metafisico (che strano aver usato questo termine!) critico si era dato a leggere migliaia di oggetti di cellulosa, senza saper mai smettere.
Un certo Condò (che mi fa pensare a condom) organizza un troviamoci tutti, un catòmes tót, così dalle mie parti son dette le rimpatriate. Sono happening orrendi, che ogni tanto sogno: un ritrovarsi con gli antichi compagni di classe, uno o due dei quali magari ti bullizzavano pure. Allora ci si incontrava poi tutti anche a dottrina, così allora si chiamava il catechismo erogato dalle cape ‘e pezza. Forse sono diventato un inclito ignorante di Dio in reazione a quegli ameni pomeriggi.
Dice un attuale giurista “che la colpa e la responsabilità esistono solo per le persone che stanno giù, per quelle che stanno su non c’è niente di simile, ma proprio niente… Legibus soluti!” – o al massimo si è tutti intrappolati quando si diventa vetusti e fiacchi, e fors’anche tumorati, quando la pietà finisce per annullare ogni forma di condanna e discriminazione.
Un altro dice “siamo gente che non hanno puntato ai soldi.” – sono i soldi che hanno puntato a loro.
Per scoprire che negli umani è celato un pizzico di Satana, mancando quel pizzico di Dio di cui si ama cianciare; ma poi non si sa mai se si parla di soggetti reali o da fiction, “basta spingere appena il coltello nel’ostrica e uno se ne accorge.” – non sono d’accordo, in quanto mi sento, per mia (s)fortuna, un ingenuo bisognoso di accompagnamento, che manco sa se sa.
A parte i deceduti, quei momentaneamente sopravvissuti sono persone realizzate, Condò-Preservativo e critico di Pirandello compresi, per cui penso sia cosa giusta donare a tutti loro, come attestato di presenza, un’elegante Maiuscola, la cui dimensione varia a secondo del merito, of course.
Infine mi dispiace per il “mignolo del piede”, minillu in pixuntiano, mamlèin, mammellino, in arşân, del protagonista, ma non mi va di dire perché in quanto non voglio essere tacciato di spoiler.
Ora sbarco sull’isola d’Elba, titolo del racconto che segue. Mai visitata de visu, purtroppo.
“… un dito da avvitare su chissà quante mani per trasmettere il sordido di palpare attraverso il didietro la pro…” – mi viene da dire l’arşâna sconcezza: precîş cme un dî in da’l… –
cosa non si farebbe per un augurio di salute!
Lucio, che si trova ora a Seccheto che, a onta del nome, è una zona umida, a differenza del piccolo caporale italiano (a cui l’orso Napo ha rubacchiato il nome), “non progettava di tornare in patria per far colpi di stato, alla larga! voleva restare nel fondo, nel fondo della sua vita, dove si conservano i ricordi che non vedono mai la luce…” – poiché ognuno ha l’imo che si merita.
E il mio imo chissà dov’è! Non l’IMU, l’imo ho detto!
Ecco finalmente uno spoiler: il noto linguista e accademico, autore della presente opera, scrive “sé stessa”, e io lo lascio libero, ovviamente, ché mi pare che da decenni La Farinacea Accademia, di cui mi pare lui faccia parte, lo consente, ma vorrei ricordargli che l’accento è inutile e in più costringe chi lo riporta a un fastidioso shift abbinato a é. Ah! Che pazienza ci vuole coi linguisti!
Per il resto non ho nulla da eccepire (e come potrei?).
A pagina 165 una tale, che decisamente sfigurerebbe in un’elezione di Miss Universo, ma che pare una Venere di Botticelli in quel miserabile contesto, differenzia psicologicamente e forse eticamente chi legge e chi non lo fa, preferendo cazzeggiare. Ho tradotto il tutto con parole mie. Chissà se sono stato corretto. Direi di no, ma penserei di sì.
“‘Non è questo il modello che è toccato a me.’ – pensò Lucio. La sua vita con Corinna era cresciuta come un legno storto.” – storto rispetto a cosa? Anche il cosmo lo è, stortamente geodetico.
“Mi mancava qualcuno a cui finire la mia storia.” – questo lo dice lei, la più sacra, giovane e bella fiorellina in quel mazzo di bruttarelli ed epicurei anzianotti.
Assai intrigante è quel che lei riporta del pensiero della figlia più o meno autistica, ma non lo riporto a mia volta: è scritto a pagina 177, per chi lo vuol leggere.
Lucio “dette gas con energia, la moto scattò fluida sul breve rettilineo. Formavano, tutti e tre, un corpo fisso, pieno di energia.”
Mi viene in mente qualcosa che c’entra come i cavoletti di Bruxelles a Rotterdam. Le particelle sono o fermioniche (materiche) o bosoniche (collegate all’energia): quark, elettroni, neutrini, etc, le prime; fotoni, gluoni, W, etc tutte le altre. Tertium non datur.
Una frase è composta da lettere, sillabe, parole etc… pezzi organici che sarebbero sconnessi fra loro se non ci fosse la punteggiatura. Punto. Ognuno di noi è un complesso sia fermionico che bosonico, come un’auto è sia motore che carburante. Eppure siamo orientati più l’uno o più verso l’altro, a seconda dei casi, un po’ massa e un po’ energia. Chissà se e quanto tu, Raffaele, pensi al fatto che se uno ti dà un pugno, oltre che denunciare quel violento, dovresti prendertela con i vostri rispettivi fotoni, responsabili dell’energia elettromagnetica, la quale crea la dolorosa illusione della densità della sostanza. In realtà gran parte di te, di me, e di Lucio, nonché della sua bella, è un vano vuoto (angosciante, eh?) in cui starnazzano le particelle virtuali, senza di cui le reali funzionerebbero a carbonella.
Lucio è sia fotonico che fermionico ma, rispetto alla media, più la prima che ho detto. È più punteggiatura che vocabolo, una specie di hollow man di Eliot, in cui il quasi nulla gli sta brulicando intorno!
Il lieto fine scorre “sempre più giù nel precipizio, fino a che il mare fu sopra lui richiuso.” – full stop.
Passo a Nuit Blanche e poi vado a letto (non sono mai stato un nottambulo).
“Si sentiva pericoloso e insieme in pericolo…” – solo richiando e raschiando qualcosa di sé si può sperimentare un quid di nuovo. Un tipo che mi ricorda, alla lontana, uno stagnino romanesco interpretato da Salvo Randone in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, per una giusta vendetta ha compiuto un immane orrore, massacrando un suo simile, non vedendolo più tale, però.
Quel che quasi disgusta il lettore (e forse anche te che lo andavi scrivendo) è che questo tipo alterna una vociazza da sporco, brutto e mica tanto buono, a “una strana voce di donna, e a tratti di bambina…” – e chiudiamola qui, per decenza. Anzi, aggiungiamo: sa di aver sbagliato, di meritare la massima pena detentiva ma non crede che nessuno, men che meno il giudice, sia in grado di capire cosa sia giusto e cosa non lo sia: “Cosa ne volete capire voi…” – dice.
Ogni giudice, e forse ogni uomo, leggo fra pagina 211 e 212, è affetto da “superbia, perché pretende di giudicare i suoi simile” – nonché da “empietà, perché si carica di un compito scandaloso…” – inammissibile per la bestia umana.
Intanto il nostro eroe, con un collega franco-italiano, sta girando come un esaurito in una città forestiera, globalmente più folle di lui, zeppa di “ombre musicanti”, da aspiranti zombie.
“… il giudice deve fingere per forza di aver tout compris: cause, sfondi, moventi, impulsi…” – e chi più ne ha più ne rigetti…
La voce che esce dall’ugola di quel “cantante aveva voce pienamente di donna, una voce di mezzosoprano, penetrante, corposa, appena acida, che saliva e scendeva con falsetti e filati sottilissimi…” – leggendo mi viene in mente il compianto Andrea Parodi, ma pure l’orrido omicida borgataro di cui scrissi sopra: “… la voce di bambina che emanava dalla bocca di quell’uomo al momento di raccontare i passaggi più…”.
Sto arrivando a cogliere un’amenità: “Ecco in luce l’orrore cangiato…”.
I giudici, non so se tutti, ma alcuni, forse, si reputano “i terzi perfetti”. Se una cosa è giusta, non è ingiusta, e viceversa: ancora il terribile e inumano tertium non datur. E non credo che basti una laurea in legge e la nomina dopo un concorso per cambiare la logica aristotelica. Ognuno ha però la metafisica che si crede di meritare.
“… Potresti metterli dentro tutti o lasciarli tutti assolti, senza eccezione: non farebbe differenza.” – per la giustiza assoluta, non per quegli innocenti rei, per quegli ignavi eroi.
Dice il solidale franco-italico: “Anche noi, io e te, i terzi perfetti, siamo tutt’altro che al riparo del rischio di commettere cose indicibili.” Come l’ambiguo commissario interpretato da Volontè.
Soggetti, oggetti, predicati. E poi tutto il resto (a me basterebbe rivestire la qualifica di pronome clitico: mé, a sûn fin trôp vîv!
Il manicheismo è connaturato all’uomo? Lo è lo 0/1 che fa funzionare la cibernetica?
“… le context est oublié… ” – e chi se lo ricorda più, tanti ne abbiamo avuti, ce ne abbiamo tra le mani uno ora, ma presto ce lo scorderemo, e tanti, quasi infiniti ne avremo ancora.
“… puntare al centro…” – potrebbe essere una soluzione, che però, a quanto pare, non esiste nel cosmo, il quale non è infinito ma illimitato. Ma che vor dì?
Benediciamo, finché possiamo, la “… fatale incertezza nel giudizio…” – ma come mi piace ‘sta quantistica, che fa dell’indeterminazione la sua amena grandezza! L’importante è il “contesto”, e come tentare di scapparne. È scorrere: Panta rhei, con la r che non è mai dura a sufficienza.
Il ritorno: il demoniaco girone dove si decide il campionato della vita.
“Bianca”, il cui lo stesso nome è recettivo, “si diresse verso gli ascensori tirandosi dietro il trolley. Il valigiotto la seguiva sculettando svogliato come un cane pigro tirato per il guinzaglio.” – io ne conosco uno, anzi, una, di nome Phoebe, che all’inizio tenta sempre, con le quattro zampe, ogni possibile attrito sul pavimento, pur di negare la passeggiata alla padrona. E solo dopo che ogni sua speranza è svanita, inizia a trotterellare allegramente. Perché l’ho scritto? Che c’entra col racconto? Non so, si tratta di un’enorme minimalità. Mi chiedo altresì cosa accada realmente a un trolley tirato da una signorinetta sculettante.
Che fine fa la verità una volta che un fenomeno è accaduto realmente? Va bene! Adesso ripeto alla gentile scolaresca l’idea che Julian Barbour ha sul tempo. Secondo il fisico britannico, quel fenomeno apparentemente fluidificante è paragonabile a una serie infinita di cartoline appese a un filo che non si sa se e come possa esistere. O almeno io non so se lui lo sa. In ogni immagine vige, per l’eternità, uno stato onnicomprensivo. Quello che stai vivendo è tuo e del resto del Kosmos. Da cui deduco che il tuo destino è nel Kosmos, da cui puoi de-stinarti da qui a là e poi dove capita. Il Fato, come diceva un poeta per la parte migliore, non esiste. Oppure è un film, tipo Matrix, una pellicola che scorre in un’affannosa ricerca del suo Regista. Ora mi risiedo sul banco dello studente, oppure dietro la lavagna a sbirciare. Prima di assettarmi, sparo a caso il nome di un filosofo: Hilary Putnam, ipotizzando una vaga immagine: un cervello immerso in una vasca.
“Quel ‘davvero vero’ s’era ormai ridotto a un fischio, un acufene..” – e qui colgo il terzo o quarto accenno a questo disturbo, che una volta accusò il mio figlioletto dopo aver assistito a un concerto un po’ troppo appresso alla band. E che poi gli passò. Fin da piccolo lo chiamavo il rumore del silenzio. Non ne sono mai guarito ma, per lo più, a n gh stâgh brîsa a pensêr.
“… in noi di stabile c’è soltanto qualche brandello di storia che tutti conoscono e che non può essere negata…” – infatti si rileva non dalla storia, ma dalla reale sceneggiatura, per cui ognuno intende imporre la propria.
La tua, Raffaele, lo ammetto, mi lascia come sospeso…
Non so, forse l’anima di quella Candida donna è fatta di tanti puntini (di sospensione): …
“Bianca! Here you are, at last! Great!” – grida quel fedele traditore di Mick, alla fine, momentanea (in attesa di quella definitiva) della suddetta storia.
Ho notato che, prima di iniziare a scrivere un racconto (è solo una mia disonesta illazione), tu ti metti a individuare quale potrebbe essere il nome dei principali personaggi. E credo che questo capiti normalmente a ciascun story-teller. A te ho impressione che capiti un a-normalmente. Il protagonista è tale “Carlo Emilio D’Adda” che, per gran parte del racconto, verrà turlupinato da una certa Ita che si diletta a chiamarlo Benjamin, come il suo dichiarato coniuge morto, che di nome faceva Walter. A parere di lei, ma anche di lui, i loro tratti del viso sono pressoché coincidenti: “… il naso e la fronte, e perfino il leggero broncio, somigliavano davvero!” – boh…
Le dice la sua spiritosa aguzzina: “… il requisito fondamentale è che non ti importi nulla di nessuno!” – che è un consiglio valido a metà. Pare che nello scrivere di un Altro, tu ti debba appassionarti a lui, scordarlo, appassionarti a lui, scordarlo, appassionarti a lui etc etc.
Dice Carlo Emilio: “Io voglio solo dare una svolta, sfangare da qualcosa.” – emergere dalla melma che t’impedisce di correre. Ha però le idee confuse quando dice all’amico saccente che di nome non a caso fa Ugo, spirito acuto: “Non è come dici: il destino non c’è.” – secondo me, finché c’è doxa c’è speranza. Prima muoriamo noi, poi loro due.
Si parla della “parola che non squadra come un laser” – e il testo è condito da mille e una citazione, per lo più mutate ad hoc. Ho un mezzo ricordo di quando in un saggio parlasti di riporti e di citazioni, come se fossero gemelli separati alla nascita. Se ricordo bene, riportare significa prendere di peso un algoritmo verbale e de-stinarlo da là a qui. La citazione può (a volte deve) essere manipolata. Correggimi pure se erro.
Ora mi viene in mente che anch’io raccolgo citazioni a man bassa: detti di mia madre, pensieri di Krishnamurti, versi di Rimbaud, la teoria di Barbour etc. Penso però che l’autore che più prediligo e cito sia sempre lui: me medesimo. Un giorno dissi a un mio amato consanguineo che avrei voluto diventare ingegnere dell’anima, al che l’anziano scosse la testa, poveretto. Chissà che avrebbe detto a proposito Marcel, il re del ready-made. E chi dovette studiare per anni all’ateneo per conseguire la laurea.
Ugo propone due ipotetici destini a Carlo Alberto: diventare un monolitico “monaco”, oppure un folle “maniaco”.
L’infida donnetta gli fa (crede di fargli) un complimento: “Il suo libro è un montaggio di citazioni, complicato come un congegno…” – non per nulla Carlo Alberto, come l’omonimo predecessore, è un sapido ingegnere.
E poi continua, imperterrita: “Lo sa che… Walter Benjamin teorizzava un romanzo fatto solo di citazioni?” – non posso al momento confermare avendo finora letto solo un suo libretto di memorie infantili. Ma che sia davvero lui, poi? Giuro che non l’ho mica capito!
Vorrei finire il mio secco resoconto con una citazione di Rosalinda Borghi: tu fa’ finta di non aver capito qualcosa, che subito qualcuno ti donerà la sua interpretazione, e poi fa’ un po’ come ti pare (mamma usò altre parole, più semplici, ma il concetto era quello). Se vuoi migliorare la tua condizione, ascolta tutti, ma dimentica quel che non ti serve. Era una fedele krishnamurtiana senza manco saperlo.
Le storie che ho appena finito di leggere sono assai semplici, almeno come idea, ma poi è stato Raffaele (adiuvato da io-me) a stravolgerle a gogò. Raf, ho inteso la lettura del tuo bel libro come una fresca seppur acida passeggiata in bicicletta, fatta s-ciflando. Fresca perché è ricca di vita, acida perché presuppone la morte. Ed è vero se lo rapporto a quello che ho iniziato da qualche giorno: Guerra di Celine, opera così disastrosamente entropica! Egli non cita che se stesso, fraintendendo di continuo se stesso e la realtà che gli sta bombardando il paesaggio. L’importante, e ti sta parlando il più pavido degli alpinisti, è non fossilizzarsi su una singola propaggine, per non rischiare un rigurgito da mal di mare.
Perché il miglior autore è sempre lui; 1, 0 o 100.000. In altre parole 0/0, con valore indefinito.
E che è autore sei tu, Raffaele? Ancora lo sto tentando di scoprire. Non sei né alto, né basso, né di media altezza. E questo è un buon segno.
Hai capito? La tua non è “letteratura minore”, né maggiore, né mezzana: è Letteratura.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Raffaele Simone, Jazz Café, La nave di Teseo, 2023
Info
Leggi la recensione de “Il software del linguaggio” libro di Raffaele Simone