“Dialoghi con Leucò” di Cesare Pavese: Le Muse, parlano Mnemòsine ed Esiodo
“Le Muse”
Immenso tema. Chi scrive sa bene di aver osato non poco avvistando un solo nume nelle nove, o tre per tre, o soltanto tre, o anche due, Muse e Càriti. Ma è convinto di questa come di molte altre cose. In questo mondo che trattiamo, le madri sono sovente le figlie – e viceversa. Si potrebbe anche dimostrarlo. È necessario? Preferiamo invitare chi legge, a godersi il fatto che secondo i Greci le feste della fantasia e della memoria furono quasi sempre situate su monti, anzi su colline, rinnovate via via che questo popolo scendeva nella penisola.
(Parlano Mnemòsine ed Esiodo)
Mnemòsine: In conclusione, tu non sei contento.
Esiodo: Ti dico che, se penso a una cosa passata, alle stagioni già concluse, mi pare di esserlo stato. Ma nei giorni è diverso. Provo un fastidio delle cose e dei lavori come lo sente l’ubriaco. Allora smetto e salgo qui sulla montagna. Ma ecco che a ripensarci mi par di nuovo di esser stato contento.
Mnemòsine: Così sarà sempre.
Esiodo: Tu che sai tutto i nomi, qual è il nome di questo mio stato?
Mnemòsine: Puoi chiamarlo col mio, o col tuo nome.
Esiodo: Il mio nome di uomo, Melete, non è nulla. Ma tu come vuoi essere chiamata? Ogni volta è diversa la parola che t’invoca. Tu sei come una madre il cui nome si perde negli anni. Nelle case e sui viottoli donde si scorge la montagna, si parla molto di te. Si dice che un tempo tu stavi su monti più impervi, dove sono nevi, alberi neri e mostri, nella Tracia o in Tessaglia, e ti chiamavo Musa. Altri dice Calliòpe o Cliò. Qual è il nome vero?
Mnemòsine: Vengo infatti di là. E ho molti nomi. Altri ne avrò quando sarò discesa ancora… Aglaia, Egemòne, Faenna, secondo il capriccio dei luoghi.
Esiodo: Anche a te il fastidio caccia per il mondo? Non sei dunque una dea?
Mnemòsine: Né fastidio, né dea, mio caro. Oggi mi piace questo monte, l’Elicona, forse perché tu lo frequenti. Amo stare dove sono gli uomini, ma un poco in disparte. Io non cerco nessuno, e discorro con chi sa parlare.
Esiodo: O Melete, io non so parlare. E mi pare di sapere qualcosa soltanto con te. Nella tua voce e nei tuoi nomi c’è il passato, ogni stagione che ricordo.
Mnemòsine: In Tessaglia il mio nome era Mneme.
Esiodo: Qualcuno che parla di te ti dice vecchia come la tartaruga, decrepita e dura. Altri ti fanno ninfa acerba, come il boccio o la nuvola…
Mnemòsine: Tu che dici?
Esiodo: Non so. Sei Calliòpe e sei Mneme. Hai la voce e lo sguardo immortali. Sei come un colle o un corso d’acqua, cui non si chiede se son giovani o vecchi, perché per loro non c’è il tempo. Esistono. Non si sa altro.
Mnemòsine: Ma anche tu, caro, esisti, e per te l’esistenza vuol dire fastidio e scontento. Come t’immagini la vita di noialtri immortali?
Esiodo: Non me la immagino, Melete, la venero, come posso, con cuore puro.
Mnemòsine: Continua, mi piaci.
Esiodo: Ho detto tutto.
Mnemòsine: Vi conosco, voi uomini, voi parlare a bocca stretta.
Esiodo: Non possiamo far altro, davanti agli dèi, che inchinarci.
Mnemòsine: Lascia stare gli dèi. Io esistevo che non c’erano dèi. Puoi parlare, con me. Tutto mi dicono gli uomini. Adoraci pure se vuoi, ma dimmi come t’immagini ch’io viva.
Esiodo: Come posso saperlo? Nessuna dea mi ha degnato del suo letto.
Mnemòsine: Sciocco, il mondo ha stagioni, e quel tempo è finito.
Esiodo: Io conosco soltanto la campagna che ho lavorato.
Mnemòsine: Sei superbo, pastore. Hai la superbia del mortale. Ma sarà tuo destino sapere altre cose. Dimmi perché quando mi parli ti credi contento?
Esiodo: Qui posso risponderti. Le cose che tu dici non hanno in sé quel fastidio di ciò che avviene tutti i giorni. Tu dài nomi alle cose che le fanno diverse, inaudite, eppure care e familiari come una voce che da tempo taceva. O come il vedersi improvviso in uno specchio d’acqua, che ci fa dire «Chi è quest’uomo?»
Mnemòsine: Mio caro, ti è mai accaduto di vedere una pianta, un sasso, un gesto, e provare la stessa passione?
Esiodo: Mi è accaduto.
Mnemòsine: E hai trovato il perché?
Esiodo: È solo un attimo, Melete. Come posso fermarlo?
Mnemòsine: Non ti sei chiesto perché un attimo, simile a tanti del passato, debba farti d’un tratto felice, felice come un dio? Tu guardavi l’ulivo, l’ulivo sul viottolo che hai percorso ogni giorno per anni, e viene il giorno che il fastidio ti lascia, e tu carezzi il vecchio tronco con lo sguardo, quasi fosse un amico ritrovato e ti dicesse proprio la sola parola che il tuo cuore attendeva. Altre volte è l’occhiata di un passante qualunque. Altre volte la pioggia che insiste da giorni. O lo strido strepitoso di un uccello. O una nube che diresti di aver già veduto. Per un attimo il tempo si ferma, e la cosa banale te la senti nel cuore come se il prima e il dopo non esistessero più. Non ti sei chiesto il suo perché?
Esiodo: Tu stessa lo dici. Quell’attimo ha reso la cosa un ricordo, un modello.
Mnemòsine: Non puoi pensarla un’esistenza tutta fatta di questi attimi?
Esiodo: Posso pensarla sì.
Mnemòsine: Dunque sai come vivo.
Esiodo: Io ti credo, Melete, perché tutto tu porti negli occhi. E il nome di Euterpe che molti ti dànno non mi può più stupire. Ma gli istanti mortali non sono una vita. Se io volessi ripeterli perderebbero il fiore. Torna sempre il fastidio.
Mnemòsine: Eppure hai detto che quell’attimo è un ricordo. E cos’altro è il ricordo se non passione ripetuta? Capiscimi bene.
Esiodo: Che vuoi dire?
Mnemòsine: Voglio dire che tu sai cos’è vita immortale.
Esiodo: Quando parlo con te è difficile resisterti. Tu hai veduto le cose all’inizio. Tu sei l’ulivo, l’occhiata e la nube. Dici un nome, e la cosa è per sempre.
Mnemòsine: Esiodo, ogni giorno io ti trovo quassù. Altri prima di te ne trovai su quei monti, sui fiumi brulli della Tracia e della Pieria. Tu mi piaci più di loro. Tu sai che le cose immortali le avete a due passi.
Esiodo: Non è difficile saperlo. Toccarle, è difficile.
Mnemòsine: Bisogna vivere per loro, Esiodo. Questo vuol dire, il cuore puro.
Esiodo: Ascoltandoti, certo. Ma la vita dell’uomo si svolge laggiù tra le case, nei campi. Davanti al fuoco e in un letto. E ogni giorno che spunta ti mette davanti la stessa fatica e le stesse mancanze. È un fastidio alla fine, Melete. C’è una burrasca che rinnova le campagne – né la morte né i grossi dolori scoraggiano. Ma la fatica interminabile, lo sforzo per star vivi d’ora in ora, la notizia del male degli altri, del male meschino, fastidioso come mosche d’estate – quest’è il vivere che taglia le gambe, Melete.
Mnemòsine: Io vengo dai luoghi più brulli, da burroni brumosi e inumani, dove pure si è aperta la vita. Tra questi ulivi e sotto il cielo voi non sapete quella sorte. Mai sentito cos’è la palude Boibeide?
Esiodo: No.
Mnemòsine: Una landa nebbiosa di fango e di canne, com’era al principio dei tempi, in silenzio gorgogliante. Generò mostri e dèi di escremento e di sangue. Oggi anche i Téssali ne parlano appena. Non la mutano né tempo né stagioni. Nessuna voce vi giunge.
Esiodo: Ma intanto ne parli, Melete, e le hai fatto una sorte divina. La tua voce l’ha raggiunta. Ora p un luogo terribile e sacro. Gli ulivi e il cielo d’Elicona non sono tutta la vita.
Mnemòsine: Ma nemmeno il fastidio, nemmeno il ritorno alle case. Non capisci che l’uomo, ogni uomo, nasce in quella palude di sangue? E che il sacro e il divino accompagnano anche voi, dentro il letto, sul campo, davanti alla fiamma? Ogni gesto che fate ripete un modello divino. Giorno e notte, non avete un istante, nemmeno il più futile, che non sgorghi dal silenzio delle origini.
Esiodo: Tu parli, Melete, e non posso resisterti. Bastasse almeno venerarti.
Mnemòsine: C’è un altro modo, mio caro.
Esiodo: E quale?
Mnemòsine: Prova a dire ai mortali queste cose che sai.
“Dialoghi con Leucò” di Cesare Pavese fu pubblicato dalla casa editrice Einaudi nel 1947. Il libro si presenta in forma dialogica e consta di ventisette brevi racconti. Pavese si muove nell’Antica Grecia nelle grandi braccia del mito che, ancora oggi, consiglia ad ognuno di noi nell’inconscio ed è espresso dall’unicità, dalla sensibilità di udire il canto.
“Io non cerco nessuno, e discorro con chi sa parlare. […] E mi pare di sapere qualcosa soltanto con te. […] per loro non c’è il tempo. Esistono. […] Io esistevo che non c’erano dèi. […] ti è mai accaduto di vedere una pianta, un sasso, un gesto, e provare la stessa passione? […] E cos’altro è il ricordo se non passione ripetuta? […] Tu sai che le cose immortali le avete a due passi. […] Ogni gesto che fate ripete un modello divino. […] Prova a dire ai mortali queste cose che sai.”
Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto 1950) ha avuto una vita solcata dal lutto sin dalla tenera età con la morte del padre, di una sorella, di due fratelli e di un compagno di scuola che si era tolto la vita con una rivoltella. Sin da giovane fu attratto dalla lingua inglese ed i suoi primi lavori furono proprio delle traduzioni: il “Moby Dick” di Herman Melville e “Riso nero” di Sherwood Anderson (clicca QUI per approfondire la biografia).
L’autore, nella prima edizione de “Dialoghi con Leucò”, scrisse la seguente presentazione:
“Cesare Pavese, che molti si ostinano a considerare un testardo realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi, ci scopre in questi Dialoghi un nuovo aspetto del suo temperamento. Non c’è scrittore autentico, il quale non abbia i suoi quarti di luna, il suo capriccio, la musa nascosta, che a un tratto lo inducono a farsi eremita. Pavese si è ricordato di quand’era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge. Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, che i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po’ straccamente e ci sbadigliano un sorriso. E ne sono nati questi Dialoghi.”
Ogni dialogo presenta due interlocutori, personaggi della mitologia greca e così si possono incontrare Tiresia ed Edipo (“I ciechi”), Ippòloco e Sarpedonte (“La Chimera”), la Nube ed Issione (“La nube”), Ermete ctonio ed il centauro Chirone (“Le cavalle”), Eros e Tànatos (“Il fiore”), Endimione ed uno straniero (“La belva”), Saffo e Britomarti (“Schiuma d’onda”), Meleagro ed Ermete (“La madre”), Achille e Patroclo (“I due”), Edipo ed un mendicante (“La strada”), Eracle e Prometeo (“La rupe”), Orfeo e Bacca (“L’inconsolabile”), due cacciatori (“L’uomo-lupo”), Litierse ed Eracle (“L’ospite”), due pastori (“I fuochi”), Calipso ed Odisseo (“L’isola”), Virbio e Diana (“Il lago”), Circe e Leucotea (“Le streghe”), Lelego e Teseo (“Il toro”), Castore e Polideute (“In famiglia”), Iasone e Mélita (“Gli Argonauti”), Leucotea ed Ariadne (“La vigna”), Cratos e Bia (“Gli uomini”), Dioniso e Demetra (“Il mistero”), un satiro ed un’amadriade (“Il diluvio”), Mnemòsine ed Esiodo (“Le Muse”), due voci (“Gli dèi”).
Ne “Le Muse” siamo nel monte Elicona (Ἑλικών, che significa “il tortuoso” da ἕλιξ “spirale”) il monte più alto della regione di Tespie (oggi chiamata Beozia) sulle cui pendici era situato Ascra, il villaggio dove probabilmente nacque Esiodo (Ἡσίοδος, metà VIII secolo a.C. – VII secolo a.C.). Il poeta greco nella sua “Teogonia” racconta che amava vagare per la montagna e sin da giovane ebbe l’incontro con le Muse: Clio, Euterpe, Talia, Melpomene, Tersicore, Erato, Polimnia, Urania, Calliope. L’etimo della parola “musa” (in eolico Μοῖσαι) potrebbe far riferimento alla radice μεν-μαν (coloro che creano con la fantasia, meditano) con il richiamo alla madre delle Muse: Mnemòsine.
“Lascia stare gli dèi. Io esistevo che non c’erano dèi.”
Mnemòsine (Μνημοσύνη) è figlia del titano Urano e di Gea ed è la personificazione della Memoria, sua sorella Rea si sposò con il fratello Crono dando alla luce Estia, Demetra, Era, Ade, Poseidone e Zeus. E con quest’ultimo sotto forma di pastore Mnemòsine generò le Muse. Sul numero e sui nomi delle Muse ci sono discordanze, le tre originarie sono Melete (pratica), Aoide (canto) e Menme (memoria) ma in ogni località greca si evince una differenza di denominazione.
Pavese, con la voce di Esiodo, preferisce fra tutti Melete fors’anche perché richiama la pratica del poetare, anche se nell’incipit del dialogo si richiede a Mnemòsine quale sia il vero nome perché erano svariati i vocaboli utilizzati.
Nel dialogo “Le Muse” è raffigurato uno dei tanti incontri tra il poeta greco e le eterne potenze della poesia, Esiodo non sa esattamente chi si trova davanti, pensa sia una dea, ma Mnemòsine esiste da prima delle divinità dell’Olimpo e non perde occasione per farlo comprendere all’incredulo Esiodo che quando “esagera” nel parlare viene apostrofato con “sciocco” e “superbo”.
È utile tenere a mente la differenza tra eterno, immortale e mortale e, per farlo, si è scelto di dare voce alla filosofa Hannah Arendt (Hannover, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975) che in “Vita activa” scrive:
“Immortalità significa permanenza nel tempo, vita senza morte su questa terra e in questo mondo come era concessa, secondo la concezione greca, alla natura e agli dèi olimpici. Sullo sfondo della vita sempre ricorrente della natura e della vita senza morte e senza età degli dèi, si collocavano gli uomini, i soli mortali in un universo immortale ma non eterno, al cospetto delle vite immortali dei loro dèi ma non sottoposti alla legge di un Dio eterno. Se prestiamo fede a Erodoto, la differenza tra gli dèi immortali e un Dio eterno sembra aver colpito il pensiero dei greci prima dell’elaborazione concettuale dei filosofi, e quindi prima dell’esperienza specificamente greca dell’eterno implicita in questa elaborazione. […] Gli uomini sono i mortali, le sole cose mortali esistenti, perché diversamente dagli animali essi non esistono soltanto come membri di una specie la cui vita immortale è garantita attraverso la procreazione. […] Questa vita individuale si distingue da tutte le altre cose per il corso rettilineo del suo movimento, che, per così dire, taglia quello circolare della vita biologica. La mortalità è questo: muoversi lungo una linea retta in un universo dove ogni cosa dotata di movimento si muove in un ordine ciclico. Il compito e la potenziale grandezza dei mortali sta nella loro capacità di produrre cose – opere, azioni e parole – che potrebbero essere, e che almeno fino a un certo punto sono, degne dell’eternità, così che grazie a esse i mortali possano trovare posto in un cosmo dove tutto è immortale tranne loro stessi. […] Nel nostro contesto non ha grande importanza sapere se sia stato Socrate o Platone a scoprire l’eterno come il vero fulcro del pensiero rigorosamente metafisico. Può deporre a favore di Socrate il fatto che, tra i grandi pensatori, solo lui – unico in questo, come in molti altri aspetti – non si sia mai preoccupato di mettere per iscritto i suoi pensieri; infatti è ovvio che in qualsiasi modo un pensatore si interessi all’eternità, nel momento in cui egli comincia a scrivere i suoi pensieri cessa di occuparsi esclusivamente dell’eternità e si preoccupa che questi pensieri vengano tramandati. […] Politicamente parlando, se morire è cessare di essere tra gli uomini, l’esperienza dell’eterno è una specie di morte, e la sola cosa che la distingue dalla morte reale è il fatto che essa non è definitiva perché nessuna creatura vivente può permanervi per un tempo indeterminato. Ed è proprio questo che separa la vita contemplativa dalla vita activa nel pensiero medioevale: l’esperienza dell’eterno, diversamente da quella dell’immortale, non deve avere nessuna corrispondenza con una qualsiasi attività e non può essere trasformata in essa, poiché anche l’attività del pensiero, che ha luogo in noi per mezzo di parole, è ovviamente non solo inadeguata a renderla ma interromperebbe e impedirebbe l’esperienza stessa.”[1]
Esiodo è mortale, gli dèi sono immortali, Mnemòsine è eterna.
Una massima sufi raccolta nel libro “Vite di Sheikh musulmani” (edito nel 1962 da Edizioni Paoline, a cura di Virginia Vacca) recita: “Se i tuoi discorsi non giovano a te, come vuoi che giovino agli altri?”. È un concetto che i più prendono come “semplice ed assodato” ed invece è di complessa comprensione e deve portare – ogni giorno – al ragionamento sulle azioni che compiamo perché ci muoviamo in linea retta con il nostro corpo ma possiamo ambire all’ordine ciclico con la nostra volontà di scelta.
“Ogni gesto che fate ripete un modello divino. Giorno e notte, non avete un istante, nemmeno il più futile, che non sgorghi dal silenzio delle origini.”
Mnemòsine sprona Esiodo nel raccontare fra gli umani – avendolo scelto per la dote del canto – che il sacro ed il divino fanno parte anche del mortale e che, sia nella veglia sia nel sonno, è possibile raggiungere la fiamma, alias “il silenzio delle origini”.
Cesare Pavese nella maggior parte dei dialoghi batte su questa differenza tra eterno ed immortale, per esempio, ne “L’isola” Calipso che rappresenta l’ordine prima dei nuovi dèi (figlia del titano Atlante o di Oceano e della ninfa Pleione o di Teti) sussurra al mortale Odisseo: “Immortale è chi accetta l’istante” ed anche ne “Il mistero” Dioniso trattando dei mortali con Demetra mormora: “per raggiungere l’eterno che li aspetta”.
L’istante, l’eterno: l’essere consci dell’attimo.
Il filosofo tedesco Martin Heidegger (Meßkirch, 26 settembre 1889 – Friburgo in Brisgovia, 26 maggio 1976) nel suo “Nietzsche” ha scritto: “Vedere l’attimo significa: starvi”. È questa la condizione del mortale che si accorge di stare nell’attimo? Del mortale che liberatosi della speranza ha iniziato a tendere al destino?
Se quel che si cerca si trova, si è certi di cercare ciò che rende felici?
Written by Alessia Mocci
Note
[1] Hannah Arendt, Vita activa, Einaudi. Si consiglia la lettura del libro.
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