“La bella confusione” di Francesco Piccolo: l’anno di Federico Fellini e Luchino Visconti
Sono messo così: ho girato per sei giorni… alcuni dei quali trascorsi a Santa Anastasia, ma anche e soprattutto a Napoli… nel weekend in cui si è concluso il campionato stravinto dall’intero popolo circumvesuviano… anche da quei rari partenopei, come il mio amico Silverio, che parteggiano per un’altra squadra… ho passato quasi una settimana, dicevo, a girare le pagine di questo romanzo-saggio La bella confusione di Francesco Piccolo, che si può definire insano in quanto tratta di come l’uomo tenti follemente di riprodurre se stesso al fine di liberarsi delle proprie ombre. E ho annotato di tutto e di più: fin troppo, mi si creda…

Se, all’inizio, andavo riflettendo nello specchio della mia mente scompigliata, solo alcune rare immagini, ora la capa mia è sepolta da un infinito guazzabuglio di scene e controscene, che ho già proiettato in sala di pre-montaggio, con l’augurio sincero di cestinarne la maggior parte, non perché non siano interessanti, anzi, lo sono fin troppo, ma il troppo notoriamente stroppia e c’è un limite a tutto. Se a qualsiasi atto umano non si determinano dei precisi confini, o si crea un capolavoro (ma è dura!), oppure si finisce per andare di corpo.
Per cominciare dono a chi mi legge un dato (felliniamente) ridondantemente essenziale. Ho chiesto al mio amico Antonio P. di Marcianise se è consanguineo del Francesco P. di Caserta: la sua risposta è stata Non siamo parenti. Un abbraccio, caro! E ora, tanto per menzionare un arguto film di Franco e Ciccio: Armiamoci e partite, parole mie! Chissà… chissà quante ne dovrò tagliare…
Nelle prime 12 pagine per fortuna non ho sottolineato nulla. Probabilmente, mi sarò pure annoiato a leggerle. Il che mi capita di sovente (sempre) quando, concluso una lettura (in questo caso Lezioni di Ian McEwan), mi getto subito sulla successiva, senza soluzione di continuità. E ancora mi sento satollo dopo quel banchetto infinito, quando me se ne prospetta subito un altro, forse più greve ancora. non so, è una bella gara! Ma se do l’impressione di cazzeggiare, che si sappia che è senz’altro così.
Comincio dalla fine, cioè da come mi è parsa la scrittura di Francesco. Appunto, come sa dottamente e umanamente conversare (che è la forma inclita di cazzeggiare) col lettore lui, pochi lo sanno fa’… Io nemmeno ci provo a sfidarlo.
“So benissimo che l’euforia di scrivere non è per forza un automatismo positivo: non c’è nessun legame tra l’essere euforici e scrivere un libro buono.” – al che penso: bisogna che mi calmi! So bene che l’energia e la massa di un corpo sono regolate dall’equazione einsteniana: E = mc2. E questo vale per ogni fenomeno fisico, anche per la scrittura. Però… a ogni limite c’è una cosa…
Salto la sottolineatura di pagina 20. Per cui scorro nella scena successiva.
Quando penso ai registi del passato, mi pare di rivedere un vero Rinascimento: Fellini, Visconti, Antonioni, Rossellini, De Sica, Pasolini, tanto per elencarne alcuni. PPP dice che La strada “è un capolavoro”, mentre gli altri di “sinistra”, dicono che Fellini è “un traditore della causa del neorealismo”, definendo quel film (di cui ricordo uno straordinario ciufile): “falso, insincero, bamboleggiante…”
Cos’è allora America di Kafka? Cos’è Alice di Carroll? Cos’è Pinocchio di Collodi?
Francesco pare non sia in preda all’ira, perché tutto questo, dice, “non mi fa indignare, mi fa soffrire”: in realtà potrebbe essersi scordato un solo e un anche.
Due film a a caso, si fa per dire, dei due Sommi Antagonisti (d’ora in poi per Sommi intendo Luchino e Federico), li accompagneranno in “una specie di destino” contemporaneo e perpetuo: Il Gattopardo e Otto e mezzo. Galeotte furono quelle pellicole. Alle nuovissime generazioni forse, o forse no, va spiegato che film in inglese è la pellicola materiale, mentre in America l’opera cinematografica è movie o pure, dopo il quarto o quinto Martini, anche picture. Noi diciamo film, più o meno come diciamo bar (mentre gli yankee dicono cafe).
Leggo, a pagina 49: “È nel 1954 che germoglia tutto. È qui che comincia la bella confusione.”
Salto le (mie) due note di pagina 53, ma non quella fra le pagine 60 e 61 (al momento perché sarà solo nel montaggio finale che deciderò): “… qui Fellini inaugura un modo di stare nel cinema inconsueto: un film, per avere voglia di produrlo, bisogna che qualcuno lo racconti, lo dipani e lo svisceri, ma Fellini si avvantaggia del suo stato di grazia e decide che di questo film non si deve…” – e qui interrompo l’autore per tradurlo con parole mie: non se ne deve parlare troppo. Occorre invece comprendere e farsi comprendere, senza che ce se ne accorga del tutto, però!
Francesco incontra Sandra Milo a pagina 65. E la stupenda, carnosissima bionda gli rivela delle cose incantevoli. Per l’autore, però, “un amore è un mezzo per realizzare un’opera, e non che un’opera è un mezzo per realizzare un amore” – mentre per lei è il contrario. Anch’io utilizzo l’amore dei miei figli, per fare un esempio, al fine di scrivere, ma non li voglio fra il mio dotto deferente e l’epididimo mentre fungo da analizzante-reagente.
Amo inserirmi in un’opera, dialogando con lei, e non so recensire. E quando uno si comporta così, come quando ha ben altri stimoli, è giusto che si rinchiuda in quel che in arşân è detto al lîcit, dove tutto è lecito, al fine di emettere fluidi e solidi, il più possibile arzilli, aulenti e frignanti.
Salto tutte le (mie) note segnate alle pagine 67 e 68, e le prime tre di pagina 69, ma non l’ultima: “… Otto e mezzo è proprio il film che si può fare solo con l’inscoscienza.”
Vorrei sapere da chi può essermi d’aiuto, in questo caso potrebbe essere Francesco stesso, perché il titolo che ricordo è Fellini Otto e mezzo? Un faux souvenir?
Salto la (sempre mia) nota a pagina 73 sulle frasi infamanti di due romanzieri italiani di chiara fama, perché mi fanno innervosire. E pure quella di pagina 74, che pure mi spingerà a leggere presto un romanzo scritto da un napoletano nel 1961. E forse i Beati Paoli del siculo Natoli.
A me, della “posizione del partito” (colta a pagina 80), non è che non me ne impipi assai, ma preferisco lasciarla sfumacchiare nella galaverna del tempo. Apprezzo quella che, nella pagina accanto, si riferisce allo scrittore Aragon, che potrebbe cambiare certi conformismi politici. La pagina ancora seguente è tremenda, essenziale, e non posso davvero ignorarla, e allora in parte lo faccio, riportando solo le parole: “Partito Comunista sovietico”, “Togliatti”, e il nome di un titubante e ambiguamente non pentito ma dissociato prefatore, “Mario Alicata”. La sensazione che provo è che i conformismi hanno talvolta il pregio di essere salvifici (sono fresco reduce da una lettura ad hoc di romanzo di Moravia).
Dice Francesco: “Mi piacerebbe molto poter dire a questo punto, in quanto scrittore e sceneggiatore, di aver inventato io questa soluzione…” – e invece no: è stato il primo Palmiro che passava di lì a farlo.
Salto un paio di (mie) annotazioni, ma non quella quasi in fine di pagina 89: “Possibile? Possibile. Verificabile? No.” – in realtà è senz’altro, come direbbe Popper, falsificabile. Finché c’è vita permane la possibilità di rettificare qualsiasi fisicità. Ne sa qualcosa Newton, ne saprà qualcosa, fra un secolo o due, Einstein.
Una manciata di righe dopo, trascrivo: “È possibile tutto questo? Sì. Ci sono le prove? Sì.” Basta leggere il romanzo di Francesco P. e si capisce cosa s’intenda.
Salto la (mia) nota a pagina 91. Poco dopo ne trattengo un’altra con forza: “il romanzo e il film sembrano interscambiabili, oggi si parla dell’uno e dell’altro come se fossero due possibili fruizioni della stessa opera.” – quale, ci si chiederà, anche se è ovvio che si sta parlando de Il Gattopardo.
Chiarisco, per evitare assurde ambiguità: per nota intendo le sottolineature fatte da me col lapis. Le parole tra virgolette sono sempre dell’autore. Il fatto è che alla fine le faccio mie. Il suo libro ora è anche un po’ mio.
L’altro film gemellare, prima che a qualcuno venga in mente di chiedermi lumi, è il citato Otto e mezzo. Questo… è ovvio, come disse una volta Totò allungando il suo ombrello, ma mi rendo conto di non essere retto nella mia trasposizione, ma zigzagante. Non dico quanto Francesco, ma mi ci avvicino. Lo spazio, diceva Albert, è una geodetica, cioè una curva, lo spazio più breve che distanzia due punti, avvicinandoli però. Due particelle entangled, quando hanno in comune, per esempio, il modo di girare (lo spin), oppure una tunisina-italica che più bella non si può: C. C. È inutile che chiarisca ultriormente cosa si intenda per entangled, per cui sento che debbo meglio specificarlo: quando due particelle si sfiorano, ovviamente per quel Caso che è fortemente voluto dal Destino, per sempre condivideranno una reciproco, sia pure remota, con-vivenza: se una gira in un senso, l’altra, simultaneamente, non prima o poi, all’istante, è come se riflettesse la correlata, ma in senso opposto, come se brillasse in un mistico specchio cosmico.
Salto 94 (una), 95 (tutte e tre) e sintetizzo le tre di 97: più un’opera è odiosamente dolorosa più rischia di dare l’idea del presente e del luogo in cui ci si trova.
98 e 99 presentano tutto un groviglio brulicante e verminoso di sottolineature che mi hanno sgomentato, per cui riporto solo alcune analogie: anch’io ho letto Salgari e il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Li ho entrambi graditi e purtroppo abbastanza dimenticati. Non sono solito rileggere alcunché, perché sono avido di nuove conoscenze. Ma potrei incontrare di nuovo entrambi gli autori qualora fossero editi nei loro dialetti originali (per Emilio sarebbe il torinese e, ipoteticamente, il veronese), così come il reggiano Denis Ferretti ha di recente fatto con Casa d’Altri di Silvio D’Arzo, la cui disgraziatamente corta esistenza mi rammenta ugualmente il più vissuto nobile siculo, nonché il praghese Franz e il bolognese Guido: tutti quanti pubblicarono dopo la più assoluta Dissipatio H. G.
A quota 100, scrive Cecco: “Da Visconti ero affascinato ma mi metteva soggezione, non come Fellini che sembrava parlasse direttamente a me”.
Salto in blocco le intriganti sottolineature di 101, la cui carica mai cesserà di agitarsi dentro di me.
102: “… lo vedevo almeno tre volte a settimana, a volte quattro…” – e poi: “Mi ha ossessionato. ne ero completamente affascinato.” – forse quel numerico titolo significa che si tratta di un film che richiede lo 0,5 dello spettatore, per raggiungere il sospirato 9.
Mentre Francesco detto (ora da me, ma solo per uno sfuggente attimo) Cecco sta pensando al mitico Federico, io visualizzo la mia Personal Trimurti: Henry Miller, Arthur Rimbaud e Carmelo Bene. Stesso effetto dopaminico.
103: “Quando mi capita di fare una lezione di sceneggiatura, dico che bisogna raccontare attraverso i fatti, i movimenti, le parole, perché nel cinema la vita interiore non c’è.” – ma sta ora svolazzando a Cecco un avviso: occhio che corri il rischio di essere interiorizzato da Otto e mezzo, opera in cui “la vita interiore c’è, ed è raccontata”.
104: Cecco, scrivi che avresti voluto chiacchierare con Federico, come io avrei voluto farlo con Carmelo, e con Henry. Con Arthur forse no: troppo inquietante. Quello era però da quasi un secolo trasvolato Colà. Gli altri due miei maestri seguirono poi la sua scia.
Cecco, scusami se ti sto chiamando ancora così e se salto a piè pari la citazione del tuo mito, che non mi appartiene, anche se mi è facile definirlo come uno scrittore che più intelligente non si può, nemmeno col candeggine (di recente ho letto il suo conformistico romanzo), ma non quello della pagina dopo, in cui narri di te che sei trafitto dalla tetra notizia della sua dipartita. Anni dopo, la sera prima (logica apparentemente ossimorica), udii che nel TG parlavano del mio Henry, ma seppi cogliere solo le ultime parole, non ricordo bene quali, che tanto mi agitarono. Allora non era stato ancora inventato zio Google. Il dì dopo, 8 giugno 1980, travestito da quel postino trimestrale che di fatto ero, recando la corrispondenza al giornalaio di Villa Cella sito in via Vico, gli domandai cortesemente se potevo buttare un occhio al Corriere, in cui era purtroppo indicato il decesso del mio più tenero amore letterario. Morire è una cosa che capita ai vivi, così si dice. E così ti va di scrivere: “Nel 1993, quando mi sono trasferito a Roma, Fellini è morto.”: reciproche condoglianze, caro!
Lo sai una cosa? Ti invidio perché hai incontrato sia Sandra che Claudia. Con quest’ultima “l’appuntamento era in uno di quei caffè all’angolo dei boulevard.” Ti posso dire qual è, secondo me, la cosa più bella di Claudia? Tutto! Anche quelle caviglie che lei confessò un giorno ad Alberto (il tuo) che le giudicava troppo grosse.
“Caterina d’Amico” ti disse: “siediti dove vuoi, in questa casa gli sceneggiatori si siedono dove vogliono” – dove non c’è neve, avrebbe detto la mia materna consanguinea, tanto lì tutto era tiepido nonché benedetto dalla storia del cinema.
110: Salto il necrologio di Nino Rota, che tanto m’era simpatico e a cui Mario (Soldati), non so se lo sai, suggerì in un’intervista di cambiare casa ogni tanto, come soleva fare lui. Mario, per me, è un number one, con un unico difetto: è troppo simpatico per diventare un mito.
Salto a mani pari, con salto acrobatico, l’episodio di 110-111, che tratta di Scola e della Ralli, che mi pare troppo insulso per non essere vero, mentre tu non riesci che a sottolineare un fatto increscioso, che non so se e quanto condividere, ma ti capisco: “Io guardavo Scola, scuotevo la testa ma ero entusiasta, entusiasta.” – una cosa si può dire di Francesco Piccolo: non la mandi mai a dire. Tu sei un autore passabilmente sincero.
112: “Sono una persona che negli anni, ossessionata dal lavoro, si è chiusa sempre di più. Spesso io stavo fermo e il mondo si muoveva, spesso io stavo a casa e il mondo era per strada…” – succede, dai…
113: “Questo libro mi ha permesso di vivere gran parte della giornata con la testa lontana da quello che succedeva intorno.” – o tempora covidda o mores…
114: “… se questo libro che sto scrivendo sarà altrettanto personale, se c’è questa possibilità, so che però non succederà con il metodo Otto e mezzo, ma con il metodo del Gattopardo” – ordine non disordine, Kosmos non Khaos (i due estremi però si toccano quotidianamente e c’è chi ipotizza che l’ordine sia fatto di disordine, e viceversa).
Salto l’accenno al “maccartismo” di 115, ma non quello a Flaiano che, secondo Suso, insieme “avrebbero dovuto aprire un’officina di riparazione di sceneggiature difettose.” – come loro accadde per Vacanze romane. Motivo per cui salto le (mie) tre note di 117, ma non di 118: “Otto e mezzo è ciò che si spinge più in là in assoluto rispetto a una sceneggiatura che sembra farsi mentre il film viene girato.”
119: ogni tanto dici una cosa del genere: “ma su questa storia bisogna che io ci torni ancora, dopo. Per ora volevo raccontare soltanto…” – aroppo, direbbe Andy, il mio amato ex cognato amalfitano.
E tra 119 e 120 distingui le due qualità di Suso ed Ennio, una più sistematica e gravitazionale dell’altro, più cosmico e più entropico.
121: Rota lavorava per entrambi i Sommi Contendenti ma, dici, non ci sono prove di risentimenti da parte di entrambi: non si può avercela con un essere come il sacro Rota, mio Dio! Di Nino si parla anche nelle due pagine seguenti, ma tralascio di riportare il tutto, sia pure a malincuore.
Idem per 125, anzi, no, sintetizzo: Ennio mal sopportava Zeffirelli-Shespirelli, e viceversa.
128: “Come sanno tutti i registi, le scene più costose vanno girate subito, altrimenti poi i soldi cominciano a…” – a gemere, a frignare, a evaporare nel blu dipinto di blu…
129: parli di due telegrammi di Goffredo Lombardo a Luchino e a Suso, il quale ultimo “è conservato tra le carte di Caterina D’Amico…” – e pertanto ha valenza di prova comprovata.
Importante è 130: “Quando si parla di fedeltà in una trasposizione cinematografica, vuol dire in ogni caso smontare una casa intera mattone per mattone, per poi trasferirla con un mezzo di trasporto da un’altra parte e lì ricostruirla.” – non trattandosi mai di un prefabbricato tout court, ma di una creazione in fieri.
Salto 132, 133 e 136; ma non 137: “L’aspetto più affascinante quando si analizzano opere del passato è la necessaria inconsapevolezza, in chi le ha immaginate e realizzate, del capolavoro.” – e, come si dice che accada nella meccanica quantistica, dove nulla è mai determinato, se non dopo, quando il gatto inizia a miagolare oppure è irrigidito e ormai freddo, “è impossibile percepire la grandezza che avrà qualcosa che si sta facendo.” – motivo per cui zompo oltre i pur preziosi ma ripetitivi argomenti di 139, 140 e 141, ma non 142: “tutto ciò che è contemporaneo, è pregno delle circostanze…” – e dei gradi di libertà in virtù del quale il fenomeno si fenomenizza, il collasso è collassato, la particella è quantisticamente attestata. E il grande Bohr può alzarsi in piedi e applaudire. Nel frattempo, schivo gli aneddoti di 146 e 147, nonché di 148. Non li attesto qui, rimanendo però presenti nell’altro universo, il tuo.
A 155, scrivi: “Forse l’importanza di Otto e mezzo sta anche in questa impossibilità da raccontarlo. Forse è il primo film impossibile da raccontare prima, che puoi solo vedere per capire di…” – di quel che è uscito alla fine dalla pancia del regista.
157: “Penso che tutti sappiano che il piano di lavorazione e la sequenza cronologica delle scene…” – poco ci azzeccano le une con le altre. Ignoro se lo ignoravo, ma lo potevo arguire. Al che mi viene in mente Nodo alla gola di Hitchcock, in cui a me parve di intravedere due unici piani sequenza, uno dei quali seminascosto, mentre altri otto m’erano del tutto sfuggiti. Alfred, insieme al nostro Roberto Rossellini, è per me uno dei massimi maestri figurativi.
Salto 158, e qualcosa di 164, ma non che “All’improvviso Lancaster, da solo, capirà tutto…” – potendo poi dire Luchino c’est moi, come forse pensava Luchino: Tomasi c’è moi.
Sono ora a Santa Anastasia, che in serata visiteremo. Presso il Santuario c’è un rosario serale che pare non avere mai fine, come il ballo finale del Gattopardo. Più tardi, stanco, mi rintano nel mio letto, dopo aver augurato la buonanotte all’ospitale zia Lina.
168: “Uno sciopero che coinvolge tutti gli stabilimenti di sviluppo e stampa” mette in crisi il film di Federico, e tutti vorrebbero sospendere il film, ma non il regista che “si è intestardito e ha voluto continuare.” – un artista anche se cieco, come Borges insegna, vede quanto basta la sua opera.
A pagina 170, senza entrare nei particolari, esplode un miracolo: “arriva la notizia: i negativi sono salvi.” – eureka!
Intanto (174) C. C. saltella fra Palermo e Roma, e ogni volta deve cambiare la tinta della sua splendida chioma, ché ognuno dei Sommi Domini la vuole come pare a lui. La storia dell’assenza di C. C. dalla “scena dell’harem” è così ben descritta a partire da pagina 175 che è un peccato lordarla col mio commento (sono pure stanco). Anche il commento di Giulietta Masina fatto a Zavoli che le chiede dell’agnizione (chiamiamola così), riportato a 179, lo tralascio perché è sufficiente leggere quanto hai scritto tu, caro.
Tralascio gran parte di 183, che registra il fatto della sofferenza delle donne, e dei rimorsi di un Federico forse ancora indeciso fra il divertimento e la mestizia. Ma non di 186: ove Luchino capisce che deve fare i conti con tutto il mondo, ma in primo luogo “con qualcosa di più: sé stesso” – ora il dissidio fra i due artisti potrebbe non placarsi più, però diverrà sempre più omogeneo. E un giorno i due mostri (sacri, ovviamente) sapranno addirittura abbracciarsi.
Buon ultimo, ma fondamentale, 189: “All’improvviso, Lancaster ha capito.” – e il processo di congiungimento fraterno con Luchino ha finalmente inizio.
190: “Così, la grandezza del Gattopardo – non la sua maestosità, che ci sarebbe stata comunque – cresce man mano che Visconti si allontana dal compito politico e si avvicina a sé stesso.”
Essenziale 193: “Il Gattopardo e Otto e mezzo sono due film autobiografici.” – sono due io che si fronteggiano, più altezzoso uno, più sfottente l’altro. Sarà vero? In 195 scrivi che “Burt Lancaster ha intuito ancora prima di Visconti l’essenza più profonda del film e cioè ha capito dove il film sarebbe andato.” – due navigatori ormai concordi nel tragitto da effettuare.
196: “La vita e la letteratura non si riescono a separare, l’autobiografia di questi due film lo racconta…” – in quello di Federico tutto è vivace, moderno, seppur misterioso, in Luchino tutto è magico, primevo, ma solo in un certo senso patente.
Visconti, scrivi fra 197 e 198, è più “don Fabrizio” di quanto lo sia Tomasi, ma questo chi lo potrà mai dire? Dato probabile, ma non certo.
200: “‘Son tutte cose della sua vita’. E questo è il momento in cui non c’è più nessuna differenza tra Fellini e Guido.” – cioè Marcello Mastroianni, di cui ho detto poco, ma… Per me è un miracolo della natura umana.
201: “Il film non racconta una forza, ma una mancanza di forza.” – che non è una debolezza bensì un’energia che crea forme sempre nuove, già prevedibili fin dall’inizio.
203: scrivi che Otto e mezzo “è il film della mia vita proprio perché mi svela la mia ostinata volontà di star bene…” – come io ho amato quella sgangherata Trimurti proprio perché mi stava rivelando la mia volontà d’essere affrancato dalle catene sociali (illusoriamente, però): Je est un autre, m’irrideva Arthur, tentando di scetarmi.
Sempre in 203, appare la veridica assurdità: un film “per me è stato scrivere letteratura”, mentre l’altro “per me è stato scrivere cinema”. E, subito dopo: “Tutti i libri che ho scritto hanno a che fare con l’autobiografia, o l’autofiction, o insomma questo modo di raccontare.” – ti capisco.
204: “Cose mie e cose di altri. Cose vicine cose lontane.” – anche lo spazio è un miraggio, i cui gradi di libertà variano secondo l’estro cosmico (e la quantità di moto che patiscono).
205: “E alla fine ho la sensazione che sto scrivendo un altro libro personale, che però ha fatto un giro più lungo.” – idem per me ma, se permetti, ti consiglio di abbassare quel però.
Per fortuna non ho sottolineato nulla fino a pagina 218, in cui riporti un pensiero di Ennio: “anche il furto, in certi casi è un tentativo di mettere ordine nel caos.” – lo scambio di energia e materia, in quel Kosmos in cui l’ordine al solito convola a giuste nozze col Khaos.
Poi le due particelle, Ennio e Federico, drammaticamente si lasciano, perché è cosmicamente giusto che ciò accada (222). Ma poi si concilieranno (263).
Sono appena tornato da Napoli, domani finirò di patire (e gioire della tua lettura). Lo spero.
231: “E questo tempo immobile in tutte e due le opere è una caratteristica decisamente viva e moderna che contrasta l’idea del tempo che corre nel cinema di chiunque altro.” – il tempo è quell’infame miraggio che si tramuta in infinite Storie, in Infiniti Universi, come narra Hugh Everett the Third.
232: Luchino “pretese che i cassetti fossero pieni di biancheria e abbigliamento prezioso, anche se l’inquadratura…” – svolazzava altrove: tutto questo io l’ho sentito dire per Akira Kurosawa. E tu?
Salto un po’ il fatterello di 233, per cui Federico “perde un po’ di tempo nel girare” una scena. Non sarà né il primo né l’ultimo suo cazzeggiamento, immagino.
234: “Tutti sono vestiti di bianco…” – che in Giappone è il colore del lutto. A Roma non so.
235: una scena girata “come ‘prossimamente’ (allora i trailer si chiamavano così) per il film.” – io ricordo Prima Visione a cura dell’Anicagis, mentre Prossimamente programmi per sette sere era per le trasmissioni Rai. Ma non metto lingua, come diceva Pappagone, qui il dominus sei tu, mica io.
La scena della passerella finale, che è come dire: ce ne stiamo trasvolando via!, è l’equivalente del ballo finale del film di Luchino. Eppure l’atmosfera qui mi pare ancora più gaiamente funerea. Non so, però, la dovrei studiare meglio. La dovrei finalmente vedere!
Ti confesso vergognosamente che non ricordo se ho visto del tutto entrambi i film e a volte posso confondere qualcosa. Ma ti prometto che presto rimedierò. E di ciò ti ringrazio. Mio figlio, che ti sarà prima o poi collega, li ha già visti e, come te, adora Otto e mezzo.
241: “È indimostrato, però è plausibile.” – e cosa tu l’hai spiegato bene.
246: “… il mento poggiava sull’onda letea dei capelli di lei…” – questo brano del romanzo del siculo mi sta stordendo… Quel letea soprattutto.
249: Salto le parole con cui Carla si rivolge a Guido. Ma non 251: “L’aria di morte è stata espulsa dalle due opere”: due esclusioni, due tagli indelebili.
252: i due film ci aiutano ad accettare, cosa? I due fatidici estremi: “Questa confusione sono io. Io come sono, non come vorrei essere.”
255: i due Sommi Dioscuri del cinema italico “rimangono due registi completamente diversi, però si sentono parte di uno stesso mondo…”.
A pagina 259 tu parli del tuo concepimento e del fatto che “ora, i miei genitori non ci sono più.” – anche i miei, che ci vuoi fare. Se ti dico che è la vita, forse t’adombri?
260: quel che scrivi di “Mimesis di Erich Auerbach” mi ricorda che anche Denis de Rougemont scrisse il suo L’amore e l’Occidente, senza aver nulla da consultare, se non la propria intasatissima mente.
E per questo vale tanto oro quanto pesa, ma è ancora un’altra illusione credere che ogni opera serva soprattutto a spingerti verso la successiva.
Senza Fellini non avresti amato Visconti. Senza Visconti non avresti scritto di Fellini in tal modo.
Senza Il tempo degli assassini di Henry non avrei mai compreso Arthur, che avevo divorato un decennio prima. Senza Arthur non avrei forse amato tanto Henry. Chissà! Uno dei miei cosmici crucci è che Carmelo, che io sappia, non abbia mai recitato Arthur. Se un giorno scoprirò che l’ha fatto, chiederò a qualcuno di prepararmi degli gnocchi di patate. E l’amerò per tutta la vita. Al burro e poi al ragù, quegli gnocchi.

La divisione che fai in 270 fra autori “ricci” e “volpi” mi farà sghignazzare per una settimana. La mia Trimurti è forse una smilza faina. Anche se tanto amo sia gli aculei di Fedor che quelli di Marcel.
Ora creo lo spoiler così non ha più troppo senso leggere il libro (questa si chiama in gergo piolata), riportando l’ultima frase, l’ultima scena di ‘sta Bella confusione: “Fare l’alba livida. Ecco cosa è il cinema”.
Ho riletto quattro volte queste righe e ogni volta ho prodotto aggiunte, tolto brani. E sono certo di fare bene a non rileggerla più. A un certo punto il film deve essere soltanto proiettato.
Il tuo romanzo-saggio è complesso, febbrile e con-fuso,: ove il fuso, alla fine, è soprattutto il lettore. Ma in senso positivo, per quanto affaticante. Mi sono sentito immerso in un magma accogliente e affascinante.
La mia reazione come ti pare? Confusa, febbrile e complessa?
Ti prometto una cosa: non so se leggerò ancora il tuo libro. Ma sono certo di una cosa: che ne parlerò e ci penserò finché potrò. Ciao.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Francesco Piccolo, La bella confusione, Einaudi, 2023