“La seconda mezzanotte” di Antonio Scurati: l’esistenzialismo è un umanesimo?
Per distopia s’intende una storia ambientata in un futuro lontano, in cui i singoli capitoli sono inseriti nella gelida ombra di un titolo così com’è concepito oggi, in questa società apparentemente no-topica. Non vi è luogo al mondo che sia irriducibilmente unico e assoluto rispetto al resto. Non esiste né distopia, né eu-topia, perché un luogo è solo un palcoscenico dove gli attori credono di rappresentare realisticamente una finzione anche se, tra il palco e la platea, non v’è soluzione di continuità. Senza coltivare più illusioni, l’uomo finisce però per annoiarsi miseramente.
Se leggi 1984 di Orwell, oppure se ti trovi, come comparsa, dentro il film Sleeper (1973) di Allan Stewart Königsberg, italianamente conosciuto come Il dormiglione di Woody Allen, pensi che quello che ci si prespetta sia il futuro che ognuno si merita: un’orrida singolarità, in cui ogni ente finirà per precipitare. L’importante per te è assopirti intorno alla tua mezzanotte e poi il dì dopo svegliarti. Il che, purtroppo, non sempre accadrà.
Per scongiurare eventuali misfatti, propongo d’inginocchiarci tutti alla memoria di Padre Aldo Bergamaschi, il teologo cristiano più eutopico che abbia conosciuto, che un giorno disse che la Chiesa era scaduta al rango di religione, insieme a tutte le altre. Egli propugnava (che assurdo!) una società in cui occorreva rispettare i diritti altrui come se fossero i propri e, se lo desiderava, uno poteva cibarsi di carne di suino, anche il Venerdì Santo. L’unico suo dovere era di venerare chi gli era uguale: l’uomo. In arşân il suino è detto nimêl, re e prototipo degli altri animali, essendo il più somigliante all’homo sapiens stultus, secondo l’opinione di Luciano Pantaleoni, il quale, in Fantastiche creature della Pianura Padana e dei dintorni, scrive: “La figura del maiale veniva caricata di significati e ruoli che superavano la dimensione reale…” – tanto da assurgere, con in testa una penna, al rango di Maiale grifone, pur essendo privo di un naso adunco. Di questo Orwell era al corrente, quando scrisse La fattoria degli animali.
Una distopica notizia esplode a pagina 12 de La seconda mezzanotte di Antonio Scurati: “Venezia, dopo un millennio di vita anfibia, si era di nuovo impaludata in una zona morta.” – ideale per ospitare tutte le fecce umane.
Una società cinese, “TNC – il colosso cinese di telecomunicazione”, la cui sigla mi fa rimembrare la ITT (International Telegraph and Telephone), di pinochettiana memoria, mette “fine al periodo di abbandono seguito alla Grande onda”, acquistando “il relitto della città dal governo del Nord Italia” – non si sa quanto corrotto – “di fatto un protettorato di Pechino da quando i cinesi ne avevano rilevato l’intero debito pubblico.” – ma siamo sicuri che sia una distopia?
“Nova Venezia fu così rifondata come un territorio senza orizzonte.” – col futuro inciso dietro le scapole. Della “città sommersa” – ormai esisteva solo la Sommersione. E chi ha ora il coraggio di dirlo a Sandro Frizziero? In quella zona si poteva fare di tutto (antifrasi), tranne: “la circolazione con armi da fuoco, quasiasi forma di culto religioso e la procreazione.” – men che meno quella assistita.
“Eccolo il Maestro.” – che m’inquieta, con quella M maiuscola. Tralascio la sua descrizione se non dicendo che pare un supereroe della Marvel che, rispetto a quelli della DC Comics, non sembrano mai del tutto normali, a prescindere dei loro superpoteri. Basti dire che il più famoso di loro era un simpatico nerd non troppo social, che ebbe la (s)fortuna d’essere morso da un fatale aracnide. Mi contraddico, riportando la descrizione del Maestro: “Un monolite di carne violenta, squadrato sulle spalle e svasato in vita.” Cerco su zio Google (mi capiterà di frequente, temo, con ‘sto autore) e scopro che svasato significa: Notevolmente allargato verso il fondo, scampanato, a campana. Come può esserlo una gonna.
“Una marea umana di cicatrici, il Maestro.” – un baldo quarantenne, che sa dire con affetto a se stesso: “Sono vecchio. Vecchio come la puttana vecchia.”
Il bel tomo pare far parte del clan dei buoni. Immaginiamoci come siano i cattivi!
Come scrissi una volta all’attrice-scrittrice Pina Irace, il mare lo si può pure sposare, ma sarà ogni volta lui a diventare vedovo. Da lui non ci si divorzia, e ti resterà rischiosamente fedele fino alla tua morte. Dal suo traballante loculo britannico, Ballard conferma.
Il Maestro “ricorda la Grande onda. Esattamente vent’anni prima. Il giorno in cui lo sposo si è ripreso ciò che era suo da sempre. La città sorta dagli acquitrini preistorici, accettando lo sposalizio col mare.” – da cui non sempre splende quel che ri-emerge.
Scurati ogni tanto accenna alla descrizione delle antiche vestigia della Serenissima, ora Ansiosissima: “In cima alla Scala dei Giganti, Palazzo Ducale si apre in un vasto sistema di loggiati che lo circondano dall’interno e dall’esterno.” – e poi continua, continua, continua…
Poco “sa del Procuratore Xiao il Maestro…” – e quel poco che vede non è piacevole: “un corpo…” – e qui Antonio, non so perché sono passato al nome, si diverte a descrivere quell’embrione cresciutello e raffazzonatello: io mi limito a definirlo fin troppo distopico. Sicuramente procurerà molti problemi al nostro (spero tale) eroe.
Un’altra buona notizia (l’antifrasi è spesso un analgesico): Atene, Roma, Marsiglia, Barcellona (immagino anche Pixuntum) saranno la nuova Africa, essendo la Vecchia finita nel rósch, che non è una variante di pungitopo, ma a Rèş è il pattume. Ecco ora una pessima notizia per i carnezzieri di tutto il mondo, anche gli yankee e quelli della pampa argentina “Li Ziyang ha condotto vittoriosamente la campagna di completa eliminazione delle carni bovine dalla dieta eurasiatica, con benefici enormi per l’equilibrio ambientale.” – era ora, mannaggia, ma mo’ con che lo condisco al brôd ‘d caplèt? Con ôs ‘d furmîga (per chi non è celto-arşân: con ossi di formica)?
Quel maledetto Li Ziyang è “il nuovo governatore”.
Dice l’antifrastico saggio Procuratore al più che atarassico Maestro: “Dobbiamo dare di nuovo un senso al desiderio di uccidere…” – e secondo me non ti scenderà l’ernia a tentare di farlo. E continua: “L’odio razziale è la sola garanzia in oro dei grandi investimenti di questa nuova era.” – ma va’!
Quel tanghero è così adorabile quando definisce pula (non guardare su zio Google, te lo dico io cos’è: il rimasuglio dei cereali raccolti) “i pochi scampati” – e non mi va di descriverli meglio e di che colore siano machhiati fin dalla nascita. Sono “bianchi”! A cui tutto fa difetto, “tranne che di un’antenna satellitare e di un grande schermo multicolore.” – e ora ti chiedo se non è che la presente distopia ce l’abbia un po’ coi cosiddetti musi gialli? I quali così tanto agitano gli animi europei…
Antonio, ora penso a una verità che ti è scappata di bocca, anzi di dito, se scrivi al personal, come immagino: “a volte ciò che viene dopo è più antico di ciò che viene prima.” – poco prima forse intendi: hai in mente l’eterno ritorno di nietzschiana memoria, oppure i corsi e ricorsi vichiani, o entrambe tali disdette?
Da quel che ho capito “lo Statuto di rifondazione di Nuova Venezia” non prevede né asili né l’I.N.P.S., “in verità, non prevedeva nemmeno l’infanzia.”: morire giovani era un gioco da ragazzi.
“… le trasgressioni erano divenute via via sempre più rare…” – e “la città si era ripopolata di cinesi e la chiesa si era svuotata…” – gli altri erano banditi tassonomicamente catalogati, “contati e numerati col tatuaggio sull’avambraccio destro…”, dalla parte opposta al cuore.
“… non può rimaner dov’è. Nascere, in fondo, significa essere espulsi.” – evento che capita a ogni ente del cosmo, prima non c’era, poi ci fu e, a un certo punto, uscì di massa, tornando energia. Espellere ha per radice spar, spal, agitare verso l’esterno. Come se fosse la pula di cui si ciarlava poc’anzi. Polvere eri e polvere tornerai.
Il nostro mondo presenta problemi di dieta: “Un miliardo di obesi e cinque di denutriti. Era un mondo che non poteva durare.” – e qualcosa dovrà pur cambiare.
“… I guerrieri delle terre selvagge sono feroci. Feroci ma incapaci, si avventono e muoiono. sanno uccidere, eperò non sanno comnattere. E nemmeno morire…” – dei sudditi ideali, in fondo.
“Iugula! Iugula! Iugula! Lo urlano all’unisono diecimila persone, cadenzando l’invocazione con un ipnotico ritmo ternario.” – l’importante è udire ancora quei boati, pur senza comprenderne il senso.
“Ben presto quei gracidii sguaiati, quei versi acuti riempiono la laguna a decine sopra la sua testa.” – come dei gabbiani assassini, e anche in tal caso è il rumore che detta legge. Non ci sono parole, né altro, solo un frastuono.
“L’arena è il loro paradiso, il paradiso degli spettatori, degli inetti, il regno millenario dei disadattati di successo.” – un tifoso esulta come se ammettesse la propria inadeguatezza, la sua carenza di virtù. Ma chi ci pensa mai a ‘sto fatto?
“La folla si apre, riguarduosa, al suo passaggio ma si richiude sui combattenti. Li inghiotte, li adula, li tocca.” – come si fa a Trapani coi piedi sacri della Madonna.
Spartaco non mi pare un tipo religioso, né addomesticabile. Eppure a modo suo è fedele, anche se sta fuggendo dal suo Maestro. Ma ha il suo motivo per farlo.
“… potrebbe pregare, se solo sapesse dare un senso a questa parola. pregare per il Maestro che ha tradito, pregare per Durruti, Glauco, Dolone, Aiace e tutti gli altri che ha abbandonato, pregare per…” – per un mondo che non gli appartiene più, a cui appartengono ancora i suoi sensi di colpa.
“Prima di accasciarsi nel sonno, i fuggitivo decica un pensiero…” – e tace, perché non c’è più nessuno con cui poter dialogare. Odio il chiacchiericcio fastidioso, ma un mondo che sa solo strepitare è orrendo.
Spartaco, il fuggitivo, non può che tacere, dedicando “un pensiero ai suoi vecchi, alle loro struggenti leggende sulla città perduta…” – ed è ormai “come un bambino adulto che, notte dopo notte, resti in ascolto della vastità del mondo e, meravigliato, scruti le stelle alla ricerca di un qualche futuro.” – in cui sia ammesso un dialogo con la gente.
Caos, silenzio, vuoto, corpi fitti, folla, solitudine, ricordo, oblio. Tutto insieme, senza alcuna passione se non quella che ti fa urlare come una bestia, lacerando l’aere.
“Passare di utero in utero attraverso nuove forme di parassitismo fetale…” – è l’istinto che ha creato la civiltà biologica, quella a cui siamo abituati già nel ventre materno. Anche i nostri avi furono dei bebè che piansero nascendo e che ogni tanto riprendevano a guaire quando avevano fame: sic transit infantis fames.
Quegli agnelli combattenti “dormono tutti. hanno il profilo gelido delle cose non destinate allo sguardo.” – ma all’entropia cosmica, che destina tutti gli enti a una glaciale immobilità.
La piccola che è sorta dal fondo di una tragedia, e che nulla mai conoscerà di diverso, è per ora “satolla”, e può reclinare “la testolina all’indietro. Dorme già un sonno profondo…” – il che capita agli adulti quando sono terrorizzati, mentre il neonato non sa ancora come si fa a temere il futuro: “Per lei non c’è differenza tra vivere e sognare”, non ci sono drastiche interruzioni fra i due eventi.
In quel “verminaio di mignotte”, dice Matilde, “quelli non distinguono più tra un’orgia e uno sturpro di gruppo.” – perché non è più un gruppo di individui, ma un essere a sé, una Bestia Asociale.
Spartaco è “mosso da una verità fondamentale: ha fame. Ha fame e sete.” – che il più tragico dei fratelli Marx definiva strutturale.
“Oramai è solo. Perciò si corica, chiude gli occhi e rimane in ascolto. Questa notte dormirà con i lupi alle porte.” – tanto affamati pure loro. Fratelli!
Di ungarettiana memoria: “Parola tremante/ nella notte/ Foglia appena nata/ Nell’aria spasimante/ involontaria rivolta/ dell’uomo presente alla sua…” – ora l’ultima parolina m’è caduta e s’è frantumata…
Il tuo racconto, Antonio, è ora asfissiante. Lo consiglio a un depresso, così deciderà se affrontare il suo oscuro nemico o se sarà meglio fuggire Colà. Non va riportato nella sua interezza, perché non avrebbe senso, anzi, lo perderebbe: sarebbe una sorta di telecronaca di una sorta di telecronaca.
Riporto parle magistrali dette da quel Tipo: “Non arrendersi sarà sempre più importante che vincere…” – e allora perché si parla di libertà? Se sono gli altri a dirti quel che è meglio per te e le tue povere ossa…
“… buttato vicino/ a un compagno/ massacrato /con la sua bocca/ digrignata/ volta al plenilunio…”
Questo tocca a me? Proprio a me? Non c’è qualche volontario desideroso di prendere il mio posto?
“… perché vivo e perché muoio sono la stessa domanda.” – quando si corre, scappando dal mondo, non servono le domande, bensì un tragitto da seguire fuggendo.
Se invece qualcuno vuol fermarsi a leggere il tuo romanzo, lo faccia pure, ma a suo rischio e pericolo. Non vorrei che qualche mostruoso homo stultus uscisse da ‘ste perigliose pagine.
“Ma non sono gli occhi cangianti dei gabbiani a, quelli ciechi delle bisce d’acqua o quelli famelici dei cani a turbarlo. C’è qualcosa d’altro, un occhio imemnso e cattivo che non consoce intervallo. Un occhio senza palpebre.” – perché, probabilmente, non gli serve sbatterle. È la Bestia, la città, come quella che intravedo, ogni tanto, dal valico di Chiunzi.
Ora, che ci si è ficcato dentro, “la città lo guarda. Non ha ancora deciso che farne di lui.”
E accade un miracolo, illusorio, ben inteso: “Spartaco giunse alla fine della strada. Lì, per un attimo, la città smette di gaurdarlo e si lascia ammirare.”
Una mira governativa, dopo l’illusione del XX secolo: “la possibiltà di abolire la schiavità”: “Il ripristino del servaggio, la prima conquista del successivo.” – e come farebbero le formiche senza l’ausilio degli afidi? Qualcuno osa chiamarla simbiosi, necessaria a entrambe le specie.
Dice il saggio: “Non avrai versamente assaporato la dolcezza del potere se non avrai posseduto dei servi.” – la pensava così anche la mamma di Rossella ‘O Hara.
Sto contando i capitoli intitolati Nella città perduta, alla fine sono 6; spero di uscirne al più presto, entro domani, possibilmente vivo… Sennò come farei a reagire alla tua scrittura?!
Carne chiama carne, sangue chiama sangue, questo continua a dirsi chi sopravvive: “Si decide di non ripulire l’arena. Gli inservienti con i ganci e i rastrelli vengono allontanati. in questa sera memorabile, gli uomini combatteranno tra i cadaveri degli animali.” – tra le parole insanguinate dell’autore.
Si tratta di quell’empia Entropia che si alterna, come sua costumanza, all’atroce Abisso.
“Ora, vedendo l’eroe morire, non si pensa più: muore lui al posto mio. Si pensa: lui muore e io no. io vivo.” – e io sarò sempre seduto sugli spalti, ad ammirare gli eventi altrui! A tifare per l’altrui grazia o disgrazia, che per me non pare mutare nulla della mia vita. E invece…
“Siamo tornati all’origine, al dio crudele dell’arena. Alla fine vince sempre lui. e non accetta troppo a lungo il sacrificio al posto del sacrificante.” – ed è lui che deciderà anche dopo il decesso dello stesso, ormai vano, spettatore: the hollow man, la cui misera sorte cantava Thomas.
“Se sanno che sei bravo a uccidere, e lo sanno, ti tocca uccidere tutta la vita.” – a ognuno le sue mansioni. Nessuno, al momento, è in grado resuscitare. Uccidere è un atto molto più naturale.
“… non c’è nulla di ignoto nel destino di un guerriero.” – che è solo un operaio, uno che deve produrre la merce che sarà consumata dalla miseranda platea.
Il Maestro lascia, nell’aria, un messaggio alla figlia, come un testamento, in cui offre sé, limitandosi, dice, “a gettare un ponte” – che qualcun altro potrà attraversare. Nessuno riuscirà ad ascoltarlo, né capirebbe granché se potesse farlo.
Siamo in un mondo dove l’eterogeneità riguarda gli oggetti: “scuri, clave, mazze da botta, spade, coltelli, pugnali, squarcine, roncole, scarnatoi, brandistocchi” – e, un po’ meno, però, gli umani: “trenta guerrieri perfettamente uguali, ordinati e silenti” – e “la falange è muta, non c’è gioia tra le sue fila, soltanto, una ferocia cupa.” Poi, “la falange comincia a cantare.”: “Eleee-leeeuuu… Eleee-leeeuuu…”.
Un’unica strofa, ripetuta sempre uguale. Magica, catartica, idiota.
Ecco ora un’immagine ricca d’inerte eroismo: “… un cadavere, stretto nella folla, rimane in piedi con il petto squarciato da una lancia.” – una figura indimenticabile, si dica quel che si voglia. Non significa però che nella memoria risieda sempre la bellezza, in quanto a thing of awful is an ache for ever.
“… il terzo mirmillone viene sorpreso dalla spada ancora in piedi. quando se la trova piantata nell’inguine, fa ancora in tempo ad afferrarla, abbracciato al suo uccisore. Che la estrae e gli mozza la testa. il guerriero si abbatte come un tronco segato alla radice.” – da stroncare e nulla più.
“… la cavea si è zittita. È rimasto nell’aria solo il singhiozzo del moribondo. Per un momento tutto sembra condannato a morte e tutto brilla di luce.” – che è una frase così assurda: se tutto è condannato, chi rimarrà a condannare, se tutto brilla, chi fornirà l’energia elettromagnetica, peregrinando tra i diversi livelli? Come in quel paradosso di Russell: “l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi appartiene a se stesso se e solo se non appartiene a se stesso”.
Pare che in questa distopia nulla appartenga più a se stesso, anche se la presenza è assurdamente condivisa, come anche l’assenza. Assurdo è tutto, nel senso che tutto è dissonante.
Un tale ogni tanto dice la sua, ed è ascoltato da tutti in quanto persona più autorevole degli altri, essendo detto, appunto, “il Dottore”. Egli si ricorda “che in gioventù ha coltivato ambizioni artistiche…” – uno scrittore, uno che aspirava a esserlo, almeno. “Ma poi erano arrivati i cinesi…” – queste bestie immonde e fin troppo potenti: “due miliardi e mezzo abbondanti d’individui” a cui non “importava niente dei romanzi.” – e qui è il tuo abbaglio, Dottore, poiché si scrive per soddisfare una cogenza propria, per evacuarla, per procreare, non per soddisfare gli altrui bisogni e ideali. In un secondo tempo emerge dal basso il dovere della comunicazione. Ma, prima di tutto, c’è l’espressione, fecale o fetale che sia.
“Da allora era stato tutto soltanto politica e sopravvivenza.” – uno spettacolo civilmente incivile. E non più un vibrare dell’anima, che ora al massimo sbatte le palpebre, finché non gliele tagliano. Ora “la città perduta è sommersa ma, come rilevato dalla fuga di Spartaco, in qualche angolo c’è ancora vita.” – si può ancora sopravvivere, seppur celati al mondo, finché si potrà.
“L’assemblea è durata quasi due ore, poi, presa la decisione unanime, il cerchio dei guerrieri si è sciolto. Come non amarlo quel manipolo di suicidi? In fondo, si tiene consiglio di guerra anche prima di una sconfitta.” – di uno sterminio, di un’estinzione completa e definitiva.
Quando non avrai più un briciolo di energia, non ti porrai più domande. Ma se ora ti è sorta, vuol dire che puoi ancora sperare.
L’effetto tunnel quanto-meccanico consente una transizione a uno stato impedito dalla meccanica classica. Si tratta di un paradosso quantistico, un andare oltre la doxa che pare regga la realtà in cui viviamo. Si pensa che una particella non possa superare una barriera, essendo priva della necessaria energia. Poiché le funzioni esponenziali non sono mai riducibili a zero, però e perciò, deve pur esistere una pur minima possibilità che essa, prima o poi, riesca a oltre-passare. Tutto prima o poi può necessariamente accadere. Tutto tranne il nulla, che non esiste nemmeno nel vuoto, che brulica, come non mai, di conati di vita.
L’esistenzialismo è un umanesimo?: sì, hai ragione tu, caro Jean-Paul, perché quel sogno l’ha vissuto un uomo. Ed è la prova provata della sua esistenza. Ma ora…
“… l’orizzonte era vuoto, la superficie deserta, il parabezza opaco. Poteva solo guardare avanti, ma non si vedeva a un passo…” – quel che bastava per andare comunque avanti, passo dopo passo. Ostinatamente, seppure alla cieca.
“… No, non c’è scampo, non cambierà stagione. Eppure il sole si leva ancora, il giorno sorge. Bisogna resta in vita.” – e chissà se… se domani avrà un domani.
A onta del tuo cognome, Antonio, tu cerchi ogni volta la luce. Anche quella che disperde accecando. Non scordare però che nel Buio Anfratto cova, singolarmente, la nuda Verità.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Antonio Scurati, La seconda mezzanotte, Bompiani, 2012