“Darsi le parole” curato da MariaElena Leone: l’introduzione del libro edito da Negretto Editore
“Il teatro rappresenta la metafora della vita, il luogo dove si riscopre il valore generativo delle emozioni, che favoriscono la nascita di relazioni durevoli anziché quelle connessioni fugaci a cui sembrano volerci orientare i nostri tempi.” – Cinzia Migani
“Darsi le parole” curato da MariaElena Leone, edito dalla casa editrice Negretto Editore nel 2023 nella collana Cause e Affetti diretta da Cinzia Migani, è il prodotto dell’incontro con allievi di teatro svoltosi a Taranto dal 2011 ad oggi.
Il volume apre con la prefazione di Cinzia Migani, segue: l’introduzione a più voci curata da MariaElena Leone, Pierluigi Sciapli ed Angelo Miccoli; un capitolo dedicato ai Racconti (di Elisabetta Felicetti, Elvira Cerfino, Carlo Felicetti, Imma Nuzzo, Pierluigi Scialpi, Mariachiara Renò, Luca de Giorgio, Angelo Miccoli, Teresa Albano, Mirko Perosce, Luigi Guida, Roberto Pennetta, Cinzia Loglisci, Massimiliano Albano e Rodolfo Esposito); un capitolo dedicato alle Testimonianze di attori e di autori; due Appendici (Connessioni o legami comunitari? Il ruolo magico del teatro diffuso nel produrre comunità e cultura firmata da Cinzia Migani e La normalità: un caso disperato firmata da MariaElena Leone); chiude la Postfazione intitolata Motivazioni e obiettivi della collana Cause e Affetti di Cinzia Migani.
Per gentile concessione dell’editore Silvano Negretto pubblichiamo in anteprima la prima parte dell’introduzione curata da MariaElena Leone.
Introduzione “Darsi le parole”
Questa raccolta di racconti è il frutto dell’incontro con gli allievi del laboratorio di teatro, conosciuti presso il centro diurno “M. D’Enghien” di Taranto, un dialogo d’amore, iniziato con loro, nella primavera del 2011 e mai più interrotto. La scrittura è arrivata dopo un anno dal laboratorio di teatro, giusto il tempo di aprire un varco nel silenzio della nostra reciproca iniziale diffidenza, un silenzio che la relazione vivente e profonda ha rotto in modo semplice e naturale. E proprio alla luce di questa relazione compresi che non avrei dovuto fare della teatrologia morale in veste terapeutica, ma condividere con i miei compagni di lavoro la stessa aspirazione, quella di cercare una nuova strada per esistere e dare forma al mistero che siamo. Il teatro e la scrittura avrebbero restituito l’assoluta unicità di ogni esistenza, senza mai indulgere in quella normalità disperata e crudele che chiama matti coloro che deviano dal solco tracciato. E così, prima ancora che superare lo stigma della salute mentale, occorreva celebrare la diversità come il linguaggio che ciascuno ha nel leggere il mondo.
In un centro diurno, allora, è possibile recuperare la dimensione antropologica del teatro e della scrittura e da cui far partire una nuova avanguardia culturale per la costruzione di un nuovo umanesimo che rimetta sul trono del senso, la persona ed il suo mondo interiore.
L’ostinazione dei miei compagni a trovare le parole, le proprie, a divenire autori delle proprie idee, ha dato una direzione ed una pienezza etica alla nostra ricerca che attraverso il teatro e la scrittura è diventata una pratica quotidiana di libertà e di comunità.
Io ho, semplicemente, lasciato che ogni storia si dipanasse fuori dalla malattia ed al sicuro di ogni “errore”, non “da” ma “in” ogni errore, sicura che l’errore ortografico, lessicale o grammaticale, come atto di sopravvivenza e se partorito per un eccesso di verità, appare giusto e indispensabile, alla pagina, alla scena, alla vita.
Non sentiremmo, d’altronde, il bisogno di raccontare se fossimo intimamente soddisfatti della realtà per quello che è. Le cose, infatti, accostate attraverso metafore, si illuminano, si fanno vedere nelle profondità e prendono forma, pronte al cambiamento.
«Sta’ attento con le storie inventate – scrive Italo Calvino traducendo I fiori blu di Raymond Queneau – Rivelano cosa c’è sotto». E cioè quel significato di cui ogni storia è priva finché rimane al buio e nel silenzio. È una battaglia con il linguaggio, delle cose che parte dalle cose e torna a noi carico di tutto l’umano che abbiamo investito nelle cose. Si tratta di ricostruire la fisicità del mondo attraverso l’impalpabile pulviscolo delle parole.
Quelle che non si possono dire e neanche pensare.
Quelle mancate, sfuggite, e donate senza averle più indietro. Quelle pronunciate senza essere state capite. Quelle senza congiuntivi, anch’esse rivendicando lo sforzo di dire l’indicibile, con gioioso accanimento.
“Darsi le parole” ha reso possibile cambiare luogo, togliendo confini, uscire da quella dimora forzata, fatta di autoesclusione quale unica identità possibile, in un sociale che ti esclude a sua volta e in cui darsi per malati rimane l’unico modo per darsi. In qualche modo.
È il bisogno di qualcosa di vero, dunque, a condurci al teatro come alla scrittura: raccontare e rappresentare, sottraendo il mondo dall’essere un indistinto proliferare di fatti ed eventi muti, ce lo restituiscono nello stupore di una rivelazione continua. Con la smania di far esistere solo ciò che possiamo spiegare, abbiamo cancellato il mistero che siamo ma intanto quello che non comprendiamo resta lì tutto insieme al suo posto davanti alla nostra stolta incredulità. Malattia chiamiamo quel mistero e delirio il tentativo dell’artista di dare ad esso voce.
In un centro di salute mentale è possibile vedere, plasticamente, la supremazia della normalità come sinonimo di razionalità, che abusa della follia con tutto il suo dolore.
E il punto non è scegliere il dionisiaco a scapito dell’apollineo e pareggiare i conti con quella amputazione fatta secoli fa, che portò alla degenerazione lenta dell’arte ad intrattenimento becero e solipsistico ma il riportare in vita la dialettica tra i due aspetti dell’umano, per approdare ad un linguaggio totale in cui i gesti, i suoni, le parole e i silenzi possano colmare la distanza tra noi e il mondo, tra noi e gli altri, tra noi e noi stessi.
Recuperare il nietzschiano senso tragico dell’esistenza, dunque, non significa mettere in scena l’impotenza della condizione umana ma anzi esaltarne le sue infinite possibilità, non è rinuncia ma consapevolezza, quella consapevolezza per cui il dolore non lo tratti, incasellando e protocollando con la ferula della ragione, ma come dice Angelo Miccoli (attore autore del Teatro del mare) nascondendo nella tristezza, tutta la gioia di cui siamo capaci.
Il tempo in questi dodici anni con gli attori e autori del centro diurno “M. D’Enghien” di Taranto, ci ha visti, insieme, tremare davanti a ciò che appariva impossibile: mettere da parte la malattia e stringersi attorno ad ogni singola parola, spezzare il linguaggio quotidiano, buono solo per il dolore, e accettare una volta per tutte le poesie che abbiamo dentro.
Teatro e Scrittura, per dare voce alle parole, quelle che emergono dal silenzio che segue all’ avere condiviso ed amato.
Buona lettura, buona vita!
MariaElena Leone è nata a Taranto. Attrice, autrice, giornalista pubblicista, regista e maestra di teatro secondo lo Stanislavskij Technique Method Acting, si forma presso la Scuola europea di teatro e cinema Comuna Baires di Milano, con il maestro Renzo Casali. Dirige laboratori teatrali e svolge attività di pedagogia teatrale dal 1999. Dalla primavera del 2011 conduce laboratori di teatro e scrittura presso il centro diurno “M. D’enghien” di Taranto, gestito dalla Seriana 2000 Coop. Soc. presso il Dipartimento di salute mentale della ASL di Taranto diretto dalla dott.ssa Maria Nacci.
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