“L’enigma di Piero” di Silvia Ronchey: il Khaos del Kronos
Mi son sempre chiesto perché Proust abbia intitolato il suo capolavoro alla ricerca del tempo perduto, anziché smarrito, forse perché in francese non esiste tale differenza di verbo?
… quando alla fine l’ha invece trovato (Le temps retrouvé).

Silvia Ronchey, studiosa ma letterata (la congiunzione è una provocazione), più prudentemente parla di enigma: un qualcosa la cui spiegazione va innanzi tutto cercata, e solo incidentalmente trovata (ne “L’enigma di Piero”).
Lo smarrire la diritta via è condizione tipica dell’umano, che coltiva tante illusioni, per esempio che lo spazio sia rettilineo, e prima o poi arriva l’umano che non ci sta, che dice: No! Falsifico colui che è venuto prima di me: lo spazio è curvo! Di certo, sempre prima o poi, qualcuno verrà a falsificare il falsificatore.
Smarrire deriva dal germanico mar, ostacolo, paradosso da superare, e ha il senso di errare, di andare Colà, ove si spera di trovare una risposta, evitando i numerosi sbagli o abbagli, quell’eccessiva luminescenza che offusca la vista, e ti fa cozzare a volte contro un muretto.
Perdere, sempre etimologicamente, è tradire, rinunciare, sostituire, para, da cui perire, e da, da cui dare; consigliare alla propria storia personale di metterci una pietra sopra e non pensarci su.
Io giudico le mie anime care non perdute, ma smarrite e un giorno (anche oggi, nel mio quotidiano) le ritroverò. Se c’è riuscito Marcel, non vedo perché non potrei farcela io medesimo.
Si provi a immaginare un rebus: un giovanotto (G, o GI) suona la batteria a ridosso del vialetto che conduce all’ospedale cittadino, dove spicca in bella vista il segnale con la trombetta vietata, e un vigile, contraddicendo il medesimo ordine, gli fischia addosso, per comminargli subito dopo una bella contravvenzione (ma quest’ultimo atto lo si intuisce soltanto). Il risultato è semplice, seppure per nulla facile (7,9). E se si vuole un aiutino si pensi al Beato Angelico, oppure al Mahatma Gandhi. Ma non a Jiddu Krishnamurti.
Il cosmo pullula di particelle, ognuno col suo perché. Ci sono più enigmi che menti che si arrabattano a (tentare di) svelarli, essendo le stesse menti un groviglio di enigmi. Dietro un velo se ne trova un altro, poi un altro. È un vero Khaos!
Primo enigma del libro è la dedica: A Shy: timido pseudonimo o si chiama veramente così? Potrebbe essere un refuso per A Sky? Dubito, la signora Ronchey mi pare un tipo ordinato pur se immersa nell’entropia generale.
L’autrice lo scrive appositamente per me e per chiunque altro: “I muri parlano, le pietre parlano, le carte, le grafie, i segni, i disegni, i colori parlano…” – è la sensazione d’indecifrabilità che pare abbiano provato i vari componenti dello staff a cui è stato affidato l’appalto della costruzione della Torre biblica: il Kosmos non è ordinato come vorrebbe la sua definizione, ma un’irreale Babele! Non avendo nulla da fare si può tentare di farlo, e io sono riuscito a provarci. Ce l’ho fatta a ordinare la stanza che avevo destinato al rango di ripostiglio. Ora essa brilla per nitore e brillantezza. Ho nel frattempo intasato il solaio, dove però non prevedo visite. Mettere ordine in un luogo significa creare entropia in un altro. Se non ci fossero queste due tendenze: ordine-disordine, la nostra esistenza sarebbe a rischio. Non sarebbe più esistenza. Sarebbe un black hole in a white mirror (tanto per citare un Gian Mario Anselmi a caso: ANSWH2022).
“… Tutti i componenti dell’équipe hanno una loro voce, anche se non è la stessa. È dalla pluralità delle voci che si può trarre, se non una verità univoca, la possibilità di stendere un’inchiesta veridica…” – nel senso di onesta? – “… senza sovrapporre alla pluralità delle deposizioni e ai loro diversi modi di comunicare né un unico pensiero né, tanto meno, una voce fuori campo. È sempre deplorevole che la voce di un autore si faccia dire…” – e questo che significa, che ogni scrittura è colpevole, fraintendibile, un corpo del reato? – “… In questo caso sarebbe stato mistificatorio” – forse l’autrice insegue un sogno: che gli oggetti mutati nel corso del tempo contengano per sempre una briciola dell’antica verità, a cui sono entangled, direbbero i quantistici. Sempre che quella briciola sia realmente esistita.
In fondo è una credenza comune, che io stesso condiviso, ma… come dice il fisico Julian Barbour, in The end of time, il tempo è un’illusione, pensiero che oggi spinge Carlo Rovelli a dire che lo spazio stesso è un grumo che scorre a ciclo continuo (loop), come una lavatrice i cui tempi non prevedono termini sanciti dall’uomo. L’intento di quel Carlo è di conciliare relatività e quantistica, che si contrappongono come induismo e islamismo: religioni l’una contro l’altra armata, per cui nacque l’idea della comunità religiosa sikh, che voleva conciliare quei poli opposti, con tanta buona fede che rischiò di essere sterminata da entrambi. Dopo di cui al buon sikh le sue autorità religiose imposero di girare con il kirpan, un coltello annodato ai fianchi, su una cintura di stoffa detta gatra. Non si sa mai chi uno possa incontrare: a volte il prossimo lo si sconta morendo.
“Il lettore accetti, dunque…” – accettato! – “… la molteplicità dei piani della narrazione, la quantità di canali di comunicazione che si sovrappongono…” – secondo me ci sono abituato – “… di fili o filature o spifferi di informazione che si intersecano fra loro…” – a una condizione: la tua scrittura, Silvia, è davvero complicata, e potrei volendo essere capace di produrre un’esaustiva riduzione per il lettore del tuo lettore, ma a che pro? L’unica per chiunque è leggere il tuo Enigma. Io posso e voglio soltanto narrare la mia reazione a esso – “… il continuo cambio di frequenze, gli scatti di tempo, di luogo, di argomento…” – una recherche del cammino stesso, dunque – “… Lì per lì potrebbe sentirsi disturbato da questa frammentazione, gli potrebbe apparire perfino dispersiva…” – ma no che dici? Non lo sai che il lettore ha sempre un’arma segreta nella saccoccia, oltre al coltello sikh? Può sempre chiudere ogni tanto (mai per sempre, per me) il libro e andare a fare una passeggiata al Parco delle caprette. Pensa che il tuo libro me lo regalò nel 2006 il solidale Riccardo Garbetta, e che fu divorato (il libro, non l’amico) da mia moglie in una settimana, mentre io l’ho ignorato per 17 anni; la quale consorte, illo tempore, m’ingiunse democraticamente di prendere un paio di giorni di ferie per recarci, noi due con la prole, a Urbino, inclita città, nella cui Galleria Nazionale è conservato il dipinto di Piero che è oggetto della minuziosa, direi più che bizantina, indagine dell’autrice.
“… Ma ci auguriamo che si fidi di noi…” – no! Questo mai! Il lettore che si fida dell’autore è un lettore moribondo. Il giusto grado di diffidenza è salutare per entrambi gli attori. Ricordati quel che ti dice il tuo coetaneo (tu, io e un tale di nome Gino Ruozzi siamo nati nello stesso anno): io leggo e scrivo per andarmene altrove, e a volte intendo staccarmi dallo stesso libro, perché così è la vita: un continuo, efferato e umanissimo tradimento.
“… e confidi che nessuna delle informazioni che gli vengono proposte, per quanto inizialmente disparate possano sembrargli, è gratuita…” – nel mio caso sì, avendolo, come dissi, ricevuto in regalo da un amico: leggere, come anche scrivere, è un acte gratuit.
“L’unica conoscenza possibile è quella che via via si forma, e si disintegra per poi formarsi nuovamente e sempre provvisoriamente, seguendo lo snodarsi tortuoso di un’indagine, di una ricerca. È questo il metodo, parola che in greco significa ‘la via serpeggiante’”: ecco perché ho aspettato tanto prima di leggerti, essendo stata la geodetica che mi ha condotto a te relativamente misurabile, ma zigzagante come poche. Gnà! Che in sanscrito significa conoscere, da cui gnosi, ma anche gnam gnam!
Tu citi spesso quell’11 settembre e lo paragoni a quanto successe “alla metà del Quattrocento”. Prima mia opposizione: quel giorno del 2001 fu l’inizio della fine di chi cercava di disintegrare il nostro mondo occidentale. Quel che capitò a Costantinopoli e al mondo cristiano circa mezzo secolo fa vide una grande sconfitta del mondo occidentale. Fare e disfare è tutto un lavorare, dicono dalle mie parti. Quando l’uomo capirà che la guerra è un cancro che divora le risorse, sarà forse tardi. L’uomo è quello che è, a volte un animale sociale, e a volte ben più esiziale di un lupo.
“La storia, si sa, è fatta di vincitori…” – banalità che occorre sempre ricordare, prima di fare azzardate previsioni di come andrà, quando quel che è già stato consumato è un delitto che si vuol far passare per progetto salvifico.
Occorre davvero quel che tu indichi come necessità: “… Ricostruire e conoscere anche ciò che nella storia rimane sconfitto permette di sciogliere i rebus che il passato ci consegna come messaggi in una bottiglia.” – tenendo bene a mente che se la storia è una scienza (e come può non esserlo?), essa è sempre falsificabile. Purtroppo ogni scienza è un’indecidibile e falsificabile fiction.
“La rimozione collettiva, l’eclissi di Bisanzio dall’orbita visuale europea nell’infanzia dell’età moderna ci ha impedito di percepire quelle tracce, ha cancellato la tragedia bizantina come si cancella un trauma profondo dalla memoria cosciente, ma non da quella inconscia, che non si cessa di interrogare da adulti.” – compito dello storico è anche di essere una sorta di psicoterapeuta.
Termini questo capitolo introduttivo dicendo che l’enigma del quadro della “Flagellazione di Piero” è da risolvere per affrontare, insieme ad esso, anche “la forza del senso di colpa” che tanti lutti addusse agli Achei, a noi controversi occidentali… Vedremo, dai.
Il primo capitolo è Per tutti i lettori. Il secondo è Per gli addetti ai lavori. L’ho letto lo stesso con interesse, sebbene io aborra un po’ il lavoro (sono un Gemelli: mezzo marcusiano e mezzo stacanovista). “A lui, al lettore erudito, allo studioso, al collega, assicuriamo che nulla, in questo libro, è inventato…” – bensì, dico io, sia rinvenuto, che tanta differenza non c’è. S’intende che nulla è stato artefatto in maniera proditoria, che tutto è documentato. Il viso dell’autrice, del resto, m’ispira fiducia. Io però mi considero un pur diffidente ingenuo. Si consiglia “agli addetti ai lavori”, e a chiunque abbia un tesserino, mi raccomando!, “di entrare direttamente dalla porta di servizio, quella delle cucine, e di ispezionare con la perizia del professionista e la severità dell’ispettore sanitario” – e qui si sottintende: l’onere della prova è soprattutto di chi verifica l’opera altrui. Lo so per una mia esperienza lavorativa (ultraventennale).
Papa Pio II “come tutti gli umanisti del tempo, era rimasto costernato alla notizia della caduta di Costantinopoli: ‘È la seconda morte di Omero, la seconda morte di Platone’ aveva scritto.” – mai che, nel vedere tirar le cuoia una creatura amata si dica: era la sua ora! Ormai, diceva quel savio uomo, “La cristianità è un corpo senza testa, una repubblica senza leggi né magistrati…” – che può soltanto sbattere le gambe, come capita a chi sta morendo, a meno che… Non si inizi a combattere una guerra giusta!
Il libro della Ronchey è anche, mi pare, la disamina di quel tentativo di salvare il salvabile, sacrificando tutto il resto.
“Da qualunque lato si guardasse la situazione di Bisanzio, appariva chiaro che il nodo da sciogliere era quello dei rapporto tra le chiese”: ortodossi dell’est e cattolici dell’ovest.
“Passavant andò a Urbino” e scoprì, casualmente: “un pittore semignorato di nome Piero, detto ‘dei Franceschi’…” – siamo nel…? nel 1818! Per un non addetto ai lavori come me è una vera sorpresa. Gli artisti più grandi di quel secolo? Pensavo al Mantegna, al Pollaiolo, sia a Piero che ad Antonio, al Beato Angelico? E ovviamente a lui, a Piero della Francesca! Questo è patente oggi. Due secoli fa no. Ricordo che l’Argan contrapponeva uno dei due Pollaiolo al tuo Piero. Ma non disse nulla circa quel suo essere misconosciuto fino all’altro ieri.
“Roberto Longhi rileggerà Piero attraverso Cézanne. Come quella di Cézanne, ‘la spazialità di Piero è spazialità architettonica ottenuta con l’intervallarsi regolare di volumi regolari.’” – e un altro pittore dell’epoca, Degas, si recò ad Arezzo a seguito di un articolo di un certo “Layard”, che magnificano due opere di Piero. Longhi parla poi di una scoperta di Piero da parte del “postimpressionismo di Cezanne e di Seurat”. L’arte, scorre, ma poi, in modo ciclico, come ogni altro fenomeno materiale, ritorna alla sua antica origine. Evapora, piove, gonfia i corsi d’acqua, ri-evapora, eccetera. Ogni attimo è periferico, mai centrale, né tanto meno conclusivo.
Occupata Bisanzio da parte dei turchi, il cardinal Bessarione si comporta come un politico odierno: rinuncia ai suoi ideali, alla sua “buona fede teologica e la millenaria indubitabile competenza trinitaria ortodossa”, in nome della Realpolitik, più adatta a cercar di riconquistare quel che si è parso. I dogmi sono come quei materiali che, pur cementando, hanno bisogno di una continua revisione che li renda più adatti alla bisogna. Nulla apparirebbe meno incatenante della religione, non da re-ligare ma da re-legere, non tanto legame quanto scelta dolorosa e necessaria.
Una data per comprendere meglio la storia: “15 febbraio del 1439, quando il corteo dell’imperatore di Costantinopoli fece il suo ingresso ufficiale a Firenze”.
Interessante considerazione di Carlo Ginzburg, per cui “la cronologia delle opere di Piero della Francesca”, artista come s’è visto misconosciuto fino a una certa data, è “una parete di roccia di sesto grado” – e nulla può eccitare di più un’alpinista valente qual è la Ronchey.
“Cleopa”, questa Malatesta a me, fino a poc’anzi, sconosciuta, consorte di “Teodoro il paleologo”, di cui ugualmente ignoravo l’esistenza, è una presenza, che poi diventa assenza, morendo, in seguito a un presunto ma non accertato aborto, nel 1433. La sua storia è così ben narrata dalla Ronchey che non intendo deturparla con delle mie considerazioni. È una figura centrale del saggio e del periodo storico esaminato in esso.
A pagina 107 c’è il primo dialogo, direi quasi beckettiano, fra un “Antichista”, subito abbreviato in “ANT”, e lo “Storico dell’arte”, subito “SDA”, il primo assertore in perpetuo azzardo, il secondo prudente e fin troppo diffidente, fantastici e macchiettisti al contempo, che hanno il compito, intuisco, di rasserenare il lettore bombardato da infinite notizie e delucidazioni. Il dialogo dura varie pagine e si ripete a pagina 112.
A pagina 116 si tracciano le differenze fra la dogmatica cattolica e ortodossa, la prima più portata alla speranza umana, la seconda, mi si perdoni l’ardire, più impietosa (in riferimento all’uomo, non certo a Dio).
L’ortodosso Bessarione compie “una svolta verso il partito degli avversari”, e qui l’autrice parla di “Realpolitik”, che è mirata al “finanziamento” di una “spedizione papale antiturca”. La politica è fondata sulla capacità di verifica su quale nemico sia meglio utilizzare per contrastare un pericolo che incombe maggiormente, anche a costo di un epocale “trasformismo culturale”. Per cui “la scena della flagellazione di Cristo doveva essere l’immagine metaforica della sorte di Costantinopoli, città-simbolo del cristianesimo d’oriente martirizzata dalla conquista islamica”.
Terzo incontro di tennis culturale fra SDA e ANT a partire da pagina 121. Ha tutto un’aria di una fiction, che non significa falsità, ma tentativo di verosimiglianza quando difettano i dati certi. Si cercano gli algoritmi, al fine di giungere a una conclusione. Tutto è calcolo, operazione logica, nulla è infondato ma si sa che, per Godel, la stessa aritmetica è indecidibile.
“Ora, secondo Gouma-Peterson, quell’uso della prospettiva consente a Piero di differenziare non solo i piani spaziali, ma anche quelli temporali.”: scene divise temporalmente, come avviene nelle strisce dei fumetti?
Si chiede un ambiguo personaggio di nome “Robespierre”, se “il caso è il re del mondo.” – no, è un semplice e caduco reggente. I suoi consanguinei stanno continuamente premendo per scalzarlo.
Allora si può cercare di capire cosa sia sotteso all’ordine del kosmos, che tale vuol dire: assetto coordinato (anche se non si sa da chi, né perché).
Alla domanda: “Cleopa fu assassinata?”, si può, al momento, soltanto reagire col ragionamento: “se un figlio maschio di Cleopa fosse nato, il corso della storia avrebbe potuto esser diverso…” – e non ha più senso chiedersi, se peggiore o migliore. Diverso. A discuterne troppo si rischia, come accadde a Carlo Ginzburg, di essere accusato di essere l’autore di “uno studio mitomaniacale” – ma chi non risica non rosica, questo insegna il metodo scientifico. Occorre tentare un azzardo anche folle per cercare di capire una realtà di per sé non attestabile. Anche se Bohr diceva che la particella esiste solo nell’atto della sua individuazione, che ne hanno mutato, per sempre e per mai, i gradi di libertà.
Lo studio della Ronchey è appassionato e appassionante. Non posso che consigliarne la lettura, non per tentare di risolvere l’enigma di un quadro, ma di comprendere come una strada possa e a volte debba essere diversificata, se si vuol rappresentare una briciola di verità che, lo si sa che non esiste mica, eppure dà diritto d’esistenza alla volontà di rinvenirla. Il ragionamento è capzioso? Certo!
Il segreto, per nulla enigmatico, ché basta leggere il libro per scoprirlo, dell’autrice è che la sua ricerca si fonda su innumerevoli ricerche altrui: “Nella città morta distesa in ripida pendenza sulla parete del Taigeto, piena di case e di chiesa in rovina, completamente abbandonata dopo la rivolta dei manioti e il saccheggio degli albanesi nella parte di Meso Chori, a mezza costa, e nel Castro appena sotto la montagna. Buchon è alla ricerca di due tombe…” – Buchon è “autore del primo dettagliato viaggio in Morea, un libro ormai raro, La Grecia continentale e la Morée…” – e io tanto vorrei sapere da te, mia coetanea, non se l’hai letto, perché lo do per scontato, ma se hai poi ripercorso di persona quei suoi magici tragitti. Mi dirai quanto della tua bizantina descrizione è dovuta alle letture e quanto all’esperienza personale, ad aerei e navi prese ad hoc, a camminate sulle pietrose isole greche. Un giorno so che me lo dirai, ed è questa fede che mi fa amare la lettura, perché so che è carica di stimoli a incontrare l’Altro-Altra, che pur pare irraggiungibile. Anche nel caso che egli o ella non viva più, pensa te…
A volte m’immagino di salire le scale che sorgono al termine di quell’indicibile tunnel, così abbagliante che non vedo l’ora di superarlo una volta per tutte, col pensiero fisso: prima di entrare chiedo se posso incontrare Arthur, Henry e Carmelo, i miei tre più cari amici che ancora, forse, non sanno alcunché di me. Ed è in quel forse, for-fortis, che si basa la mia fede nella lettura. Leggere è un atto assolutamente fortuito. Pensa un po’ a questo tuo libro e alla mia ritrosia a leggerlo, durata quasi vent’anni.
Scrive Buchon che il monastero “è in parte crollato. Ma le tombe esistono ancora in mezzo alle rovine del chiostro…” – e già ti vedo, coetanea, a intrufolarti fra di esse, occhio a non inciampare…
A pagina 158 un’altra puntata della telenovela beckettiana fra quei due. SDA, e lo dico per chi va di fretta che non è un’azienda di corrieri, anzi, è uno che, come si dice a Reggio, al cór pîan, corre piano, fingendo di capire a stento le parole del suo interlocutore (col cōr ch al va piân, col cuore che va piano), uno che fa delle domande beffarde e insidiose, a cui ANT risponde ogni volta con apparente sicurezza, sebbene sia roso dai dubbi, àncora di salvezza di chi ama cercare ancor più che trovare. Mi correggo: egli è uno per cui cercare è già trovare, un’idea, uno scopo, un sogno. Forse in tal senso Picasso diceva: Io non cerco, io trovo! SDA inizia a maliziare: “Mi sembra che lei non abbia ben chiaro quando deve finire la ricerca. Ogni contenitore aperto al Cabinet des Dessins si trasforma in una scatola cinese.” – ed è vero, e il suo contraltare (siamo in chiesa, allora!), reagisce così: “Hai ragione, ma non bisogna stancarsi di aprirle.”
In queste pagine la mia consorte ha decorato con ogni sorta di annotazione le questioni esposte da te e sicuramente, se t’avesse incontrata, t’avrebbe tempestata di domande e di osservazioni, a proposito, per esempio, della testa di Sant’Andrea a Roma. Ad Amalfi, turistica repubblica marinara, in cui è ancora presente un quartiere arabo, popolato da cattolici non so quanto praticanti, dal 28 gennaio 1846 fortemente si crede di possederle.

Altra puntata della diatriba SDA e ANT a pagina 177. sempre il primo che pone una domanda-trappola, sempre il secondo che arrischia una risposta decisa ma incerta. Epilogo di SDA: “Anche questa sua romantica quanto improbabile ipotesi ci caccerebbe in una nuova ricerca, storica, artistica e anche filologica… Mi sembra che lei sia insaziabile. Ogni notizia che trova accresce il suo desiderio di altre notizie. Riuscirà mai a finire una ricerca?” – No, mai!, anticipo io l’altrui risposta, che è forse solo pensata. Se al posto di SDA ci fosse il mio amato Giulio Carlo Argan, credo che si limiterebbe a porre domande essenziali, al fine di far positivamente reagire ANT, mentre il mio quasi adorato Philippe Daverio parlerebbe un po’ di più, cercando di realizzare una sinergia fra due anime ciarlanti, alla perenne ricerca di tutto e di più.
“… quell’ispirazione, che si esplicasse in quadri o in affreschi, in bassorilievi o in miniature, era indubitabilmente legata alla vicenda di Bisanzio e alla politica estera di quanti la avevano a cuore.” Punto.
“Cos’era d’altra parte la Flagellazione, se non una sorta di manifesto politico della crociata contro l’islam?” – e fin qui non c’è nulla da dire, se non chiedersi perché manchino ancora oltre 200 pagine alla conclusione della tua avventura letteraria.
Altro serrato dialogo fra i due concorrenti a pagina 206, e a questo punto mi domando se ANT sia una donna o un uomo. A me pare l’autrice, e allora chi sarà SDA, appurato che non è un corriere, piuttosto un pala-freniere. Abbozzo un’ipotesi sufficientemente banale: sono le due gianiche facce dell’autrice, la quale abbozza tante ipotesi, circostanziandole, senza raggiungere alcuna certezza, perché non sono consentite nel lavoro che sta svolgendo, né sono concesse all’homo ingiustamente definito sapiens sapiens.
Dice SDA: “Mi ha annoiato con una serie di elenchi di miniature mediocri e dipinti più o meno sconosciuti…” – confermo, non gli aggettivi, perché non ne ho facoltà, ma i sostantivi sì: ANT ha pesantemente bizantineggiato! Ma sa difendersi: “… gliene ho risparmiato molti, quanto è lunga la scia di immagini creata dai cortei bizantini di Ferrara e Firenze.”
I due litiganti giungono a un compromesso, sancito da un ANTichesco “Affare fatto.”
Ma riprendono ancora a difendere il proprio operato l’uno, a offendere l’altrui fatica l’altro, a pagina 214. Dice SDA: “… Lei pretende di applicare alla storia dell’arte la filologia, anzi proprio il metodo di Lachman…” – aspetta che vado a vedere da zio Google, anzi, da zia Wiki: pare quasi, no, senza quasi un processo giuridico, con la disamina critica delle testimonianze, con la necessaria scelta di quel giudicare come attendibili, quali scartare, quali far finta di non aver mai visto, in quanto possibilmente ritoccate ad hoc. Anche quel metodo è stato falsificato e poi ripreso da altri studiosi: panta rhei.
Mi domando a quale metodo si riconducesse Giulio Carlo quando rilevava le enormi differenze tra Seurat e Signac, tra i cubisti Picasso e Bracque e fra i fratelli Arnaldo e Giò Pomodoro. egli esaminava quel che non è davanti o dietro all’immagine, ma che le è dentro, connaturato a essa.
L’arte è scienza o religione? Dipende dal punto di vista! Ci recammo a Carpi, in una chiesetta mezza seppellita (La Sagra) a vedere una mostra di icone russe. Ricordo un breve dialogo fra un’entusiasta (parolina in cui è coinvolto un certo Thèos) ammiratrice, mia moglie, e un atarassico iconista moscovita. La prima disse: Maestro, i suoi quadri sono fantastici! Il secondo rispose, senza manco accigliarsi: Non sono quadri, sono preghiere.
Scrive l’autrice, ah scusa, dimenticavo che ci stavamo dando del tu. Scrivi, a pagina 216: “In Benozzo, in Mantegna, ma anche nelle opere di altri pittori di quel tempo, l’antico soggetto neotestamentario si era attualizzato e bizantinizzato.” – che pare una ideologicizzazione, Madonna mia, che termine orrendo!
Null’altro è più cogente del “progetto di una crociata dei principi cristiani contro l’Islam, di cui Enea Silvio Piccolomini…” – a.k.a. come Pio II – “… non appena divenuto papa, si era fatto ostinato promotore.” – e poi ci si lamenta dei papi attuali! Chiese un giorno Michelangelo al suo non troppo amato pontefice come avrebbe dovuto scolpire la statua di Bologna (mai realizzata, per fortuna o per disdetta), benedicente?, No, rispose quello, accigliato, con la spada in mano! La mia fonte è appena un po’ incerta: uno sceneggiato della RAI con Volonté nei panni del Buonarroti.
Torniamo ai due astanti astati a pagina 219. Poco da segnalare, se non che uno propone, e l’altro non intende disporre, ma soltanto criticare, distruggere, mentre il suo alter ego continua la sua metafisica reificazione, creando una cosa fisica che vada oltre, pur poggiando su quella mistica nebbia che fa pensare a un romanzo di Varesi; mentre SDA sta lavorando di ruspa con intenti assai bellicosi, per nulla sereni.
Se tutto questo è esistito nel tuo cervello, coetanea, non devi avere passato un decennio sereno. Ma quanto tempo ci hai messo a imbastire tutta ‘sta storia e controstoria?
Continuano poi la loro, la tua, la nostra diatriba a pagina 225. Riporto solo alcuni spezzoni da SDA: “Se proprio ci tiene.”, “Possibile, vada avanti.”, “Probabile.”, “O poco dopo.”, “E chi lo dice?”, “Ci vada piano.”, “Può darsi.”, “Se lo dice lei.”, “Mi sembra che lei osi molto, comunque. ma mi dica.”, “Legato in che senso? Non la seguo.”, “Se questo fosse vero…” – e poi comincia a ipotizzare anche lui, “Lo so benissimo.”, “Non mi dica…”, “Santo cielo…”, “Ma ci sono anche altri accostamenti fatti dagli studiosi d’arte, che lei ignora.” – pare una tenzone fra un relativista e un quantistico – al che ANT, solo apparentemente bonario, ma non meno cinico dell’altro, replica: “Non li ignoro, li salto. Perché seguo la storia.” – la tua, coetanea, la mia, la nostra.
A pagina 243 viene intanto santificata l’agnizione dei personaggi situati sullo sfondo a sinistra del quadro. Nella pagina seguente i due amiconi riprendono la partita di palla a muro. Riporto solo un mezzo intervento di ANT: “Nei flagellatori Piero non rappresenta, ha ragione, un tipo etnico – certo che non è questo il suo tema – bensì un tipo etico, quello del crudele e barbarico carnefice.”
A pagina 251 ti sveli: il progetto bizantineggiante poco viene rilevato dagli storici, in quanto “quel tentativo risultò perdente: mentre la storia, si sa, è scritta dai vincitori.”
“A chi suona il citofono risponde un prete dell’est, che farà al ricercatore un sorriso contrito, domandandogli se sta cercando le tracce di un antenato.” – o domandandole? Stai raccontando di te, vero?
Una piccolezza (mi sa che alla bizantina che giganteggia in te le minutaglie non facciano ribrezzo): la battuta di Ernst Gombrich, che tu riporti: di un ubriaco che ha perso le chiavi di case e se le va a cercare da tutt’altra parte, ma solo “perché qui c’è luce”, la disse Louis Armostrong, più o meno l’anno in cui nascemmo, a Mario Riva in una puntata del Musichiere. Solo che lui non mi pareva ubriaco e cercava la sua tromba.
Più importante è quello che leggo a pagina 281: “… il corpo di sant’Andrea era quello più carico di simboli. Quando era stato deposto in una cripta del duomo di Amalfi, la città era stata promossa sede vescovile e il sepolcro, più volte trasformato, era diventato, come sottolinea Enea Silvio nei Commentarii, oggetto di un fanatico culto popolare.” – sei mai stata in quella cripta il giorno del miracolo della mamma? Io due volte all’anno per circa tre decenni. Un consiglio: non dare mai del fanatico a un amalfitano che quello ti scaglia addosso una seggiola! Cioè, ti minaccia di farlo, ma se non insisti ti perdona ghignando.
Nel capitolo Il mediatore greco si parla della prima figura a sinistra delle tre che stanno di fronte allo spettatore. Interessante il “meccanismo a scatole cinesi” di cui parli all’inizio dello stesso. Un giorno anche tu, lettore del lettore di Silvia, lo saprai: basta cercare il libro e scorrerlo tutto quanto da pagina I a pagina XIV, e da pagina 1 in poi; poco più di mezzo migliaio di pagine. Ce la poi fare, tra.
Di un autore sommo, grande ispiratore di Piero secondo ANT, non ho detto nulla, anche se tu non fai altro che citarlo: il Pisanello, un altro genio poco conosciuto dalla massa. Sappi che la settimana prossima conto di andare con la figliolanza a Verona e visiterò la Basilica di Santa Anastasia, come già anni fa. Lui è un po’ difficile da inquadrare, forse perché è posto troppo in alto!
A pagina 309 continua lo scambio di doxa, anzi: qualsiasi doxa lanciata da ANT è continuamente respinta con una mazza da baseball da SDA, che dice: “Che raffigurino Bessarione lo ha arguito lei. Non ci costruisca castelli sopra.” – ANT stava alludendo a quelle “possibili raffigurazioni giovanili delle miniature della Bibbia di Borso d’Este”. A un certo punto ANT bisbiglia con autorevolezza al suo antagonista: “Mi segua…” – e questo dà l’idea del confronto tra i due: uno che avanza spedito, l’altro che arranca mugugnando e che a un certo punto sbotta, dicendo: “Forse, forse! La storia dell’arte non si fa con i forse.”
Tu non sai esagerare in misura minore di quanto faccia ANT. Vedi che ex-agerare non è una colpa, almeno a sentire il buon, vecchio Gianni Celati che dice che l’artista deve svaccare un po’, nel senso di andare per i fatti suoi (e tuoi). Ancora ho nella mente le mucche che nei prati penduli dell’Alto Adige scorrazzano felici. Vedi me: quanto ho svaccato finora? Chilometri e chilometri!
Scrivi: “Qualcuno ha sostenuto che la flagellazione di Cristo/Costantinopoli, il retroscena del quadro, vada addirittura vista come la rappresentazione dei pensieri del primo personaggio del proscenio, Bessarione appunto. Come una sorta di fumetto di ciò che sta dicendo al suo interlocutore italiano.” – qualcosa avevo intuito!
A pagina 344 ennesimo scambio di battute fra i contendenti. Sento che mi mancheranno, soprattutto ANT, lo ammetto, più che SDA che sa solo ironizzare o negare, oppure provocare con un “Lo immagina, non dimostra.”.
ANT tratta il fenomeno fiabesco, SDA è legato alla morale certa della favola santificata da mille saggi esplicativi. La fiaba ce l’ha ugualmente, la sua etica, ma è nascosta, o come dicono nel Sud, ammucciata, dall’antico francese, mucher: celare alla vista dietro un mucchio di oggetti che non c’entrano. La storia esaminata è la medesima per entrambi.
A pagina 351, mi fai pensare agli attuali, non meno immorali, tempi: “… quando i pochi crociati superstiti cercarono via di scampo nessuna nave veneziana offrì loro asilo, perché la Repubblica si riservava di stipulare accordi commerciali coi vincitori turchi.”
Restano sempre dei misteri, e forse è giusto così. Perché il terzo personaggio, quello più a destra, ha un orecchio particolare? Perché non ci si chiede la ragione per cui gli altri attori della recita non esibiscano che una pur diversa regolarità? Quello, in verità, pare quasi un… un…?
A pagina 367 descrivi la terza e ultima agnizione di quel gruppo di tre.
“La morte di Cleopa” – e quella di Bessarione, sono una più avvolta nel mistero dell’altra. Spesso l’evento storico necessita, per accadere, di un martire, di uno che avrebbe voluto offrire il suo contributo di testimonianza, com’è accaduto tante volte anche nel nostro secolo, in cui l’omicidio di gente innovativa è stata la causa di successivi strazi umani, fondati su enormi profitti economici. Non faccio esempi perché ce ne sono troppi. Preferisco riportare in parte l’esergo del capitolo che inizia a pagina 387, intitolato Un golem di carta e pergamena, tratto da uno scritto di Bessarione: “Non c’è oggetto più prezioso, non c’è tesoro più utile e bello di un libro…” – e non c’è nulla di più mortificante dalla necessità economica dell’uomo che non è più nemmeno hominis lupus, ma pastore speculatore, nel senso che brama di tosare e di mungere a tempo debito l’armento, per trarne pro domo sua qualsiasi risorsa.
“La composizione della sua biblioteca era studiata, come aveva più volte spiegato, per far sopravvivere la cultura di Bisanzio oltre la sua fine rappresentandone i vari elementi in modo corretto e nella giusta proporzione.” – senza mire legate all’aspetto economico. E la domanda che continuano a porsi Marx e Lévi-Strauss, quando s’incontrano in quel celeste bistrot, è se vi sia una struttura più importante dell’altra. O se ogni umano non finisca ogni volta a gestire e a favorire la propria. C’è sempre però quel Jiddu (Krishnamurti) che nega la necessità di qualunque eccellenza: tutto è da essere compreso per quello che è, non per quello che pare servire. Al vederlo accedere a quel bistrot, i due citati pensatori si alzano casualmente in piedi e se ne escono al più presto dal locale, a volte scordando di pagare: finalmente solidali!
“Abbiamo definito la Flagellazione un manifesto politico.” – e tutto lo è, anche comprare del pane, dicono, ma quando si tratta di un messaggio simbolico, inquieta di più.
A pagina 396, accenni a quel che combinò ai suoi tempi “Ivan IV detto il terribile”, erede dei “Paleologhi”, che ti conduce, in fine di pagina, a un’amara considerazione: “la terza Roma fu il prodotto, potremmo dire, della mancata riunificazione della prima e della seconda…” – mentre oggi, nel XXI secolo, di Roma ce ne sono almeno un paio, ma nessuna nei pressi delle prime tre, una più imperialista dell’altra e che mercanteggiano in altri oceani.
Di quei libri di Bressanone, “i procuratori di San Marco e in generale i governanti veneziani si preoccupavano di una sola cosa: di tenere i libri lontani dagli intellettuali, perché la trascrizione e tanto più la stampa non ne diminuissero il valore commerciale.”
Nella pagina seguente scrivi: “I libri, prima della diffusione della stampa, erano oggetti molto rari, amati più ‘degli zaffiri e degli smeraldi’…”: se fossero perle consiglierei di non gettarle ai porci. Per i porci però gli animali sono tutti gli altri.
E qui si conclude la tua opera, cara, e vedo ora che mi aspettano oltre 100 pagine di Apparati, con l’iniziale Lista delle abbreviazioni bibliografiche; e qui SDA non mancherebbe di dirti che sei un tantinello bizantina; nonché un Regesto Minore, a suo tempo, forse in giornata, oppure domani, vedrò di che si tratta (60 pagine o poco più); infine, a mo’ di concia finale, non potrà mancare un essenziale ed esiziale al tempo stesso Indice delle immagine del testo, e, ancora più infine, ma questo sempre lo salto a piè pari, un Indice dei nomi, e per ultimo, estremo infine, né poteva mancare, un salvifico Indice generale: una sorta di Ite, missa est. La tua scrittura, coetanea, non è altro che un ordinatissimo Khaos Cosmico.
Detto arşân che ogni onesta bizantina non deve ignorare (e bada bene che noi reggiani siamo per metà galli boi e per metà celti, anche se, ma solo per fa’ a parata, il nostro stemma cittadino è il latino S.P.Q.R.): al va a serchèr al frédd in’d al létt: va a cercare il freddo nel letto, detto di chi è pignolone e criticone. Tu sei leggermente pignolina, ma critichina non mi pare. Tanto per fotografarti la mia gente: è stata fra una delle prime ad aderire al fascismo e una delle prime a combatterlo all’ultimo sangue!
Nella prima Lista leggo dei quattro volumi PARZ (dal ’72 al ’97) che quell’autore ha dedicato allo studio di Benozzo Gozzoli, che tu citi spesso, indicandolo per lo più, o solo, non ricordo, col nome di Benozzo. E mi pongo una questione banale, essendo così svelante la banalità, del perché i massimi artisti del passato li ricordiamo per lo più col nome di battesimo, non solo Leonardo, che di gran cognomi non ne aveva, ma anche Giotto, Donatello, Masaccio, Michelangelo, Raffaello, oppure col soprannome, come Botticelli, Guercino, Spagnoletto. Mantegna no, ché di Andrea artisti non ne difettavano nel tempo in cui visse. Oggi invece sono conosciuti col cognome: Picasso, Bracque, Matisse eccetera. Con qualche eccezione: Charles-Édouard Jeanneret-Gris detto Le Corbusier, oppure, più sveltamente, Le Corbu. Eccetto Dante e non mi viene in mente chi altro, questo non è mai accaduto ai moderni letterati, ai filosofi e agli scienziati, a parte il solo Galileo.
Alla voce RCHY 20048, tuo volume del 2004, leggo di “Un’aristocratica bizantina in fuga: Anna Notaras Palologina”, e se tu fossi un personaggio di Topolino così amerei vederti chiamata.
Da zio Google scopro che Regesto è un repertorio cronologico degli atti governativi, comunali, privati o, più semplicemente, un registro di riassunti di atti e documenti vari. Nel tuo Regesto Minore, che è ovviamente correlato alla precedente Lista, leggendo i riferimenti al capitolo Bessarione Tutore, colgo l’idea delle difficoltà connesse al tuo mestiere, nonché la connessa indecidibilità, che però, come per tutti i logici, anche per Kurt, non deve impedire di scegliere, Enten-Eller, fra due ipotesi di Verità.
Quest’ultima fiction non esiste, o se esiste, come il dio eracliteo, se ne impipa di noi (anche questa è un’ipotesi), ma non per questo, come lo stesso Dio, non va ignorata né si deve smettere di cercarLa. Ho reso l’idea? Per cui “non è detto che i documenti inseriti da Melisseno siano necessariamente spurii, ed anche è certo che ebbe accesso a fonti archivistiche del patriarcato di Costantinopoli.”
C’è chi metterebbe in dubbio la propria data di nascita (mia mamma, nata il 3 giugno, fu dichiarata il 4, e visse per tanti anni con un codice fiscale che diceva 3 e una carta d’identità che riportava 4), ma non accetterebbe mai che la Bibbia, per quanto Sacra, sia definita una colossale Fiction.
Vorrei finire la mia reazione al tuo fantastico, pardon, meraviglioso libro con una frase arşâna, ma come potrei…! Devi capire che noi galli/goti, con una spruzzatina di unno, siamo un po’ villici e, secondo il Tassoni (vedi La Secchia rapita, TASSEC1622), anche dal tésti quêdri!, e allora sai che ti dico, che la inserisco, perché mi piace troppo, sperando che non ti disgusti: con rispetto parlando, tót i cajòun a gh an la só pasiòun, che per timidezza non intendo tradurre. Vale per tutti, si diceva, anche per Bessarione, e per quel papa belligerante, e anche per una nobile palologina come te, e per un rude reagente enzimatico come me.
Storia è, secondo l’etimo, il tentativo di scorgere, dietro a immensi mucchi di finzioni, quel che è celato nei meandri del Kronos, dal cui Khaos pare zampillare una pur illusoria forma di conoscenza. Ed è quanto abbiamo bisogno per continuare a confidare in noi stessi. Se non ci credi, puoi sempre discuterne un giorno col mio personal Jiddu. Una delle mie canzoni preferite è di Vasco, e recita: “Ognuno a rincorrere i suoi guai/ Ognuno col suo viaggio/ Ognuno diverso/ E ognuno in fondo perso/ Dentro i fatti suoi.”
È nella lettura che a volte ci si incontra e io sono fiero di aver finalmente fatto la tua conoscenza, mia consanguinea, grazie a quel Riccardo che ogni tanto amava rimproverarmi per la mia assurda indolenza.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Silvia Ronchey, L’enigma di Piero, Rizzoli, 2006