“Il fiume delle nebbie” di Valerio Varesi: un’oscura chiarezza che spunta all’orizzonte
Dicendo va a nozze con… s’intende che qualcosa ben s’innesta con qualcos’altro, oppure che qualcuno sa cogliere al volo un’occasione che non si sa quando potrà capitargli di nuovo. Con senso analogo si dice: Si sposa bene con… Invece, quando un calciatore sta lasciando una squadra con cui ha giocato per anni, si dice che è in corso un divorzio fra quello e la società.
Il matrimonio è un’istituzione che, nel bene e a volte nel male, condiziona il modo di pensare umano. Ma non è l’unico modo con cui la gente incrocia sé con le persone e le cose che girano loro attorno. Esiste anche l’eros, l’avventura che dura un giorno e, in casi disperati, una vita.
“Nessuno replicò nulla: nessuno replicava mai nulla a Barigazzi che col fiume ci andava a letto.” –non necessariamente, dopo tanti anni, per farci l’amore ma, quotidianamente, per necessità esistenziale. Egli si sente lo sposo del fiume, oppure l’amante, o anche l’antagonista, a seconda di come quello gli passa accanto.
Ogni navigante culla l’idea d’avere una specie di priorità su quell’essere che si muove in quell’unico verso, come fa la vita, come fa il tempo, insieme a lui. Ma sono tutte illusioni. Il fiume è traditore e, nel suo letto, accoglie chiunque lo sfidi.
Nel romanzo del 2019 Gli invisibili notai uno strano rapporto fra l’autore Valerio Varesi e il Po, confermata in questa precedente opera del 2003, Il fiume delle nebbie.
Abbozzo una teoria. Egli è nato a Torino e non so che età avesse quando la sua famiglia si trasferì a Parma, da dove essa proveniva. Basta però un attimo e tutta quella massa d’acqua che attraversa la città può colpire la fantasia di chiunque, figuriamoci di un fantolino. Quando mi reco a Gavâsa, da dove deriva la mia famiglia materna, scorgendo un cortile sito all’inizio di un cavalcavia, all’angolo della via che conduce alle cantine, mi capita ogni volta di pensare quanto mi sembrava profondo quando ci passavo in bici con i miei genitori, mentre sta solo pochi metri sotto la strada. Tutto è relativo diceva un genio di nome Albert.
“… due tizi fradici vestiti da ufficio” – forse anch’essi della Bassa, ma non è detto, potrebbero pure essere della Bass’Italia, come viene detto colà il Sud, estraggono “il foglio del preallarme d’inondazione, con scritte tutte le istruzioni nel caso l’acqua…” – e tutto questo è bello quanto inutile, e a quel Barigazzi scappa da chiedere loro: “Venite a insegnare a nuotare ai pesci?”
Gente schietta quella della Bassa, noi di Reggio la guardiamo con simpatia, ma a distanza, perché qualcuno dice che quel fiume rende un po’ strambi.
C’è stato un omicidio. Un certo Toma, un ex repubblichino ormai molto anziano, è stato buttato già da una finestra. Pareva a prima vista un suicidio, ma non lo era affatto. Nel frattempo un suo fratello, con uguali radici ideologiche, che viveva da solo su una chiatta, era sparito.
Leggere un buon scrittore significa aggiungere nuove fantasie allegoriche, come per esempio questa, che brilla a pagina 29: “Il commissario aveva in testa un alveare di maggio.”
Si tratta di Soneri, un personaggio in cui lucidità e confusione convivono come coniugi separati in casa, ma affezionati l’uno all’altro. Questo gli capita spesso, specialmente quando è insieme ad Angela, l’amore passionale e ricambiato della sua vita. Un rapporto sui generis fra i due. Si pensi che lui la vorrebbe invitare a casa sua, per fare quello che va a entrambi, ma lei disdegna i suoi comodini e preferisce farlo in posti rischiosi. Chi vuol conoscere i particolari, legga il libro, che poi mi dice si tratta di un amore molto somigliante a quello ideale, ma che possa durare lo sa solo il Destino, forse manco l’autore ne ha idea. Il Destino stesso a volte soffre di amnesia e, quando la sua memoria si risveglia, talvolta è tardi.
Altra perla di Soneri: “La morte ci cammina vicino e assume talvolta le sembianze più innocenti.” – e qui m’invento un’esegesi, colorandola un po’: A Rèş as dîs, di un ingrediente di una pietanza, l ē la só môrt, è la sua morte, poiché rende quel cibo unico. Quel che alla fine può ucciderci, ci era parso non solo incapace di arrecarci del male, ma anche piacevole.
Il vino, da quelle parti, è molto ricco di tanino, dicono (in realtà ne ho bevuto, come si dice, a fiumi), per cui è più forte di quello di pianura, ma se è lambrusco, come diceva mio zio Mondo (Polimondo) al va via con ‘na pisêda, e se non traduco è perché devo correre in bagno!
Come se fossi un commensale di Soneri, noto che la sua prima ordinazione è “polenta fritta con succo di cinghiale.” – e a noi reggiani viene da dire che solo a un pramşân può venire in mente di friggere la polenta. Quando siamo invitati, però, per non creare polemiche, noi arşân la ingurgitiamo con avidità, purché il vino sia buono (e lo è sempre). Una mia consanguinea, fan di Valerio, mi ricorda ora che la mamma la faceva coi rimasugli della polenta cotta ma, poiché difficilmente ne rimaneva, è normale che non me lo ricordi. So però, perché me l’ha detto papà, che la nonna, quando si vedeva col moroso, teneva spesso la polenta (ovviamente fritta) in tasca, e che una volta il nonno l’aveva beccata mentre ne stava mettendo in bocca un pezzetto.
Le indagini stanno proseguendo benino e perciò si passa al secondo desinare (dişnêr diciamo noi, non pranşêr!): “culatelli per cominciare, quindi anolini in brodo e cinghiale con polenta. Il Gutturnio era d’obbligo” – e non capisco. Era finito il Rubino? Inoltre, neanche zio Google sa spiegare al mondo la differenza fra agnolini e caplêt. Ma tiremm innanz.
“Una settimana fa, qualcuno ha telefonato qui cercandolo…” – dice la nipote dell’assassinato. E quello “parlava in dialetto perfettamente, ma non parlava bene l’italiano.” – come alcuni vecchi zii di Gavâsa. Quello però aveva un “accento straniero”. I miei zii no.
Il fratello dell’ucciso ancora non è riapparso e chissà se è caduto “in acqua per un colpo e poi la corrente ha mandato a ramengo la barca.” – il mistero s’infittisce, avvolto com’è dalla nebbia.
Qualcuno dice a Soneri che il fondo del fiume è instabile (come il vuoto quantistico, aggiungo un po’ gratuitamente io), e che “nessuno di noi immagina i fondali prima di grattarci contro e la draga fa un lavoro sempre provvisorio. Come tutto a questo mondo, non trova?”
Soneri, che è un’antitesi del nerd, assomiglia però al suo cellulare, e i due si scaricano insieme nei momenti più impensati. Ma nessuno di loro due pare badare all’altro.
“Soneri stava per prendersela col telefonino. Quando gli montava la rabbia gli veniva sempre voglia di lanciarlo contro qualcosa.” – e la cosa mi fa rabbrividire. Con lui se ne andrebbe una parte della mia memoria (foto, testi etc). A Soneri l’eventuale sparizione di quel suo alter ego farebbe quasi piacere. In comune con lui aveva soprattutto la passione per l’Aida, che faceva da soneria e che gli inquietava la giornata allorché squillava.
Barigazzi esulta, parlando del natante su cui non c’è più il secondo dei fratelli: “… c’era qualcuno a guidare! Non s’è mai vista che infila quattro ponti senza sbattere.” – e alla guida ci doveva essere qualcuno che era esperto di navigazione fluviale (mio volontario quanto vano spoiling).
Soneri ha scovato, nella sua mente, l’ipotetico assassino: “che camminava con la melma al ginocchio, fradicio come una bestia di palude, per poi arrivare a una casa alla maniera di un reduce e parlare dialetti di Po.” – ora deve soltanto capire chi è e catturarlo. Si fa per dire soltanto…
Che frase: “Il passato si sfoggia quando non si ha più fiducia nel presente.” – della serie Si stava meglio quando si stava peggio. Una balla come un’altra, anche nel senso di sbornia.
E quel saggio riprende a dire: “Bisogna distinguere l’esperienza dalla memoria. Ci si illude di ricordare perché sembra che sia sempre tutto uguale, come il fiume che scorre incessante tra una piena e una magra. E invece si ricomincia ogni volta da capo”: Vico e Nietzsche si sono alzati ad applaudire (accomodati in un celestiale bistrot, ogni tanto guardano ‘sto inclito film trasmesso da un’arroventata Tivù).
La verità per quello che è successo riemergerà da qualche “lanca” (ammetto di aver cercato il termine su zio Google): e di certo sarà “una questione tra poveri vecchi”…
Anche il cadavere del secondo Toma prima o poi apparirà in quella grigia fumana. Faccio un dono all’autore (che magari già lo sa): fumo deriva dal sanscrito dhû-nômi, scuoto, mi muovo, scorro rapidamente, come un fiume (il cui etimo è avvolta nella fumâna, che è la nebbia se non è fitta, con anche il significato traslato di atmosfera nervosa).
“Soneri continuava a rivedere quell’ultima immagine del paese dormiente.” – ogni tanto canticchio tra me e me la canzone Che sarà: “Paese mio che stai sulla collina/ disteso come un vecchio addormentato/ la noia, l’abbandono, niente/solo la tua malattia/ Paese mio ti lascio, io vado via.”
Quando si entra in un paese si ha a volte l’impressione di imbattersi in un gigante assopito. Oppure in uno gnomo, se il paese ha quattro casette e una chiesa diroccata, come mi parve Pastena alta, dopo che ero reduce da quelle fantastiche grotte.
Ecco come opera il cervello di Soneri: “Entrò in casa con questo dubbio. Che non l’abbandonò nemmeno quando, nella penombra davanti alla finestra che guardava alla strada, lasciò la mente libera di riflettere su tutto ciò che affiorava dalla miscela di sensazioni percepite durrante la giornata…”. Sono i dubbi a abbozzare un po’ di certezza, mai il contrario: dubito ergo intelligo.
“Ogni risveglio era venire al mondo di nuovo…” – e qui si alza e applaude il Siddhārtha Gautama, che si è appena aggregato a quei due biechi pensatori.
“E dentro di sé strillava rabbioso come un neonato strappato al ventre di una padre.” – scrivere è evacuare, partorire; ma è vero pure il contrario: è l’autore che viene espulso dal suo romanzo.
Arduo è rinvenire non il filo, che ce n’è fin troppo, ma il capo interno del gomitolo: intanto, nel capo di Soneri era spuntato “un primo nucleo di certezza attorno al quale poter arrotolare i fatti.”
Il compito istituzionale della playmaker Angela è di fare gli assist al pivot Soneri; ora le basta la frase “Se continui, mando te agli Angeli” – per scuotere uno sfocato commissario, dandogli ora la dritta che gli serviva: doveva andare al cimitero di Mantova, che così era chiamato. Quella parola gli aveva richiamato un’altra allusione che aveva percepito quasi inconsciamente, e che ora lo stava indirizzando dove avrebbe trovato qualche forte indizio. Così egli sentiva!
Lo riporto perché è espressivo quanto terribile: “… gli pareva proprio un paradosso che, con tutta quella pianura a disposizione, accatastassero i defunti uno sull’altro come le forme del Parmiggiano.” – in effetti, ogni forma di grana Reggiano-Parmiggiano ha un numero e una data, come se fosse un loculo.
Alcune frasi ingiuriose di un tipo (che sia un comunista, un ex comunista, un ex reubblichino o altro, poco importa ormai) “erano uscite di getto, come scappa un rutto. E dovevano essere state digerite a lungo in un cervello non molto allenato ai ragionamenti.” – oggi si ragiona fin troppo, spesso a vuoto. Una volta lo si faceva più di rado, perché altre cogenze incombevano.
Noi siamo come il luogo da dove proveniamo. Il maresciallo dei carabinieri aveva un nome non emiliano, Aricò, e veniva da laggiù, ma anche da lassù: “aveva una brutta faccia, una carta geografica dove si alternava un’orografia arcigna di monti e valli impervie.” – e che sia calabro o siculo, non te lo dico, sta a te scoprirlo.
Han trovato ora il secondo Toma. RIP.
Angela esige ora il suo compenso d’amore e dice a Soneri: “C’è una data che dovresti ricordare… E io sono un esattore implacabile, senza scrupoli.” – e chi non la vorrebbe una come lei, così pronta a donarsi, prendendo tutto quello che hai, che poi ti restituisce con gli interessi. E poi se ne torna sempre a rincorrere i suoi guai (grazie Vasco, anche tu servi, ogni tanto, anzi, spesso).
Tra pagina 168 e 169 mi viene da dire una roba. Ci sono scrittori come Valerio Varesi che non riescono a evitare di descrivere con minuzia gli ambienti in cui scorrono, quotidianamente o per caso, i suoi personaggi. Gran parte della loro anima, e di quell’autore, si trasferisce a quella “casa ridotta a una diga di fango”, a quei “coltivi resi fertili dai depositi del fiume” etc etc. Ve ne sono altri che fanno camminare tutta una giornata le loro creature che, mentre lo fanno, pensano alla braciola (o era una cotoletta?) mangiata la sera prima e non del tutto digerita. Non so perché accada tutto ciò. Ognuno è libero di scorrere dove e come non può evitare di fare.
Soleri è una specie di rabdomante: “sentiva una diffidenza crescente nei suoi confronti e questo gli diceva che si stava avvicinando a qualcosa di importante.”
Il cibo spunta con tutta la sua necessità davanti ai tuoi occhi quando meno te l’aspetti: “Juvara lo distrasse dalla contemplazione di una specie di cattedrale di mattoni color soppressata, sui quali doveva essersi depositato mezzo secolo d’umidità.” – ma che languorini mi fa venire ‘sto disgraziato!
“… Soneri cominciò a provare il disagio di non essere dov’era logico che fosse.” – dove sarebbe stato senz’altro criticato come uno che stesse perdendo il suo prezioso tempo: “… forse era proprio per questo che spesso vedeva le cose dall’angolazione giusta.” Ora sta a casa di uno che aveva patito a causa dei fascisti e che ora manco può vedere il Po, per la nebbia e a causa di una brutta cataratta. Peggio di così non può andargli.
“Dovevano essere fatti dolorosi da ricordare estratti da un tempo lontano che li aveva avvolti in un bituminoso involucro seppellito in profondità.” – come un cancro che non si può estirpare, i cui effetti sono micidiali ma lenti, per fortuna (o per disgrazia?).
Soneri è sempre più insicuro di essere sulla pista giusta e il lettore sa che fra poco esso apparirà come una Madonna della galaverna, che non so se sia mai stata concepita (in modo immacolato).
La galaverna è quel ghiacciarello fatto di aghi e di scaglie che si deposita sul terreno e un po’ dappertutto quando la nebbiolina si trasforma in ghiaccio. Galaverni è un cognome molto diffuso in Emilia, anche a Reggio, dove però chiamiamo quella brina ghiacciata galabróşna, da calabrosa (da’ pór un ôc a sîn Google, dai!). Comunque si dica, la “galaverna” è una delle protagoniste del romanzo, come anche quella “strada alzaia”, che viene citata non dico a ogni pagina, ma… È un rialzo del terreno che si trova sulla riva di un corso d’acqua navigabile e serve quando, con un qualche mezzo a trazione animale o a motore, si trae a riva una barca o anche una chiatta.
Che l’assassina sia una di loro due? Oppure entrambe?
Soneri pensò “al cul di sacco in cui si era infilata la storia…” – e quando ciò accade vuol dire che la soluzione, per quanto la giornata sia fosca, si sta profilando all’orizzonte. A chi abita, chessò, in Sardegna (e mai andò a Bucarest oppure a Londra) dico che, quand’ero ragazzo, anche in pianura, nei mesi invernali (una volta ricordo anche un 30 agosto) la nebbia ci faceva compagnia 23 ore e mezza al giorno e, verso le 15:40, precîş cme un dî in dal…, spuntava un cianotico sole che ci salutava al volo per poi subito svanire in quel Nulla Oscuro, e questo accade ancora nella bassa, ma un po’ meno, a quanto mi dicono. A noi arşân è sempre piaciuto vedere l’aria che respiriamo. Anche ai parmigiani, mantovani, ferraresi etc.
Ora l’inchiesta “sfociava nell’improbabile, in oscuri fatti di una storia di morti che nessuno ricordava più.” – dai, coraggio che ormai sei giunto al delta del tuo Po! Del tuo caso, scusa…
L’importante, ora, è che tu possa papparti “una scaglia di grana e una fetta di culatello con la cadenza di uno che attizzasse il fuoco.”
Ti trovi ora in “una specie di serra dove cresceva il rosmarino” e dove “anche l’erba appariva più verde e folta”, “in una piega del Po”, dove “potevano sopravvivere comunisti ancoa fedeli a Stalin e fascisti irriducibili proprio…” – come quel timido rosmarino.
Checchè ne dicano i teisti, “il legno e il ghiaccio non vanno d’accordo” – quando il primo è umano, l’altro è divino. E viceversa. E sempre il medesimo Dio che scorre, col passo che decide Lui, verso l’eterno mare.
A me la tua Angela piace, perché si fa sorseggiare e poi sparisce. Amo il suo umorismo, di una che non te la manda mai a dire, e che, nel ritrovare, per caso, il suo uomo che non se l’aspettava proprio lì, gli fa: “Basta mettersi davanti a un’osteria e prima o poi ci passi.”
Dopo un ultimo sacrificio offerto a quella vogliosa Dea, per te la strada della Verità, anch’essa alzaia, pare spianata, si fa per dire, essendo la via ancora un po’ ripida. Una volta, qui da noi, “la politica faceva ancora andare il sangue alla testa.” Per cui devi ancora “bighellonare” un po’. Il tuo mestiere non piaceva a tuo padre contadino che ti rinfacciava che “il più delle volte non fate niente tutto il giorno.” Poco o nulla, tranne che cercare chi ha commesso un qualcosa che non andava per niente bene, ma che era, per il suo cuore, inevitabile.
Il duplice assassino è una brava persona che ha vissuto da clandestino tutta la vita: da calàm, celato, e da dies, giorno: celato alla luce del sole, ognora avvolto nella nebbia. Anche i due fratelli ammazzati lo erano, in modo antagonistico. Quel tipo mi fa tanta pena! Nonché rabbia. Ma perché i miei simili si comportano come nei miei sogni?! Talvolta, dormendo, ho ucciso anch’io!
Scrive Valerio che Soneri “in quella faccia rugosa da anziano, riusciva ancora a intravedere il trauma di un ragazzo che era diventato adulto con un salto terribile nell’odio.”
La guerra è un cancro che fa crepare tanti giovani e tanti vecchi, e che rende orrenda qualsiasi età.
Muto, colpevolmente le frasi finali di chi interroga e di chi ormai non ha più vergogna di rispondere (l’originale è a pagina 244, se ti va, mio eventuale lettore, di affrontarlo).
Soneri, tu gli chiedi perché c’è la Morte. La risposta del reo è che la prima a dover rispondere è la sua consanguinea, la Vita.
Dopo aver concluso la lettura di un thriller di Varesi, ho sempre la sensazione di aver frainteso l’essenziale. E come accade a te, Soneri, forse è perché qualcosa l’ho compreso.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Valerio Varesi, Il fiume delle nebbie, Frassinelli, 2003