“Dalle lucertole all’uomo” di Michael Tomasello: una micidiale e filosofica evoluzione
L’autore Michael Tomasello “è professore di Psicologia e neuroscienze alla Duke University, negli Stati Uniti e direttore e emerito del Max Plack Institute for Evolutionary Anthropology a Lipsia” – come si legge nella quarta di copertina del volume.
Non è né uno zoologo, né un biologo, e questo mi fa comprendere come le sue intenzioni, la sua azione, la sua agentività, la sua mira siano alquanto diverse da quelle, per esempio, di un socio-biologo come Edward O. Wilson, o di un etologo quale Konrad Lorentz, per intenderci. All’autore interessa stabilire, oltre che il come, il perché accada quel comportamento, anziché un altro, e come e perché esso si evolva nel tempo. Egli diventa in tal modo filosofo, oltre che psicologo, nonché sociologo. Wilson era socio-biologo, non troppo diverso, ma più legato all’esame della singola specie, che del senso che se ne deduce per spiegare le sue simili.
Dalle lucertole all’uomo va annoverato nei saggi complessi eppure non troppo ardui da leggere. Occorre soltanto mantenere dall’inizio alla fine una grande attenzione perché diversamente ci si può perdere. Il che accade, ogni tanto, per cui è doveroso tornare indietro di qualche capoverso e tutto si chiarisce. Ciò che ho appena scritto vale per me e, immagino, per tutti quei lettori che sono privi di conoscenze specifiche nel capo di psicologia e neuroscienza, a cui auguro una buona lettura, avvertendoli che il tema principale non è altro che l’attenzione, che tanto difetta in questi tempi in cui la distrazione è appostata dietro l’angolo, ogni volta pronta a far di noi la sua preda, per cui c’è da stare continuamente sul pezzo e nulla più.
Nella prima pagina leggo: “Non è una questione di complessità, ma di controllo…” – non tanto della lettura, ma del comportamento di insetti, vermi, rettili, mammiferi, scimmie, primati antropomorfi, uomini primitivi. Interessa lo scienziato non scoprire da dove veniamo, chi siamo, o dove andremo: ma come e perché tali situazioni stanno accadendo ora.
Nel testo sono riportati disegni di un urbilaterio (questo sconosciuto), di un vertebrato, di un mammifero, di una grande scimmia, di un paio di uomini primitivi, tutti immaginari ma corrispondenti a una realtà generale che fu e che è tuttora in essere. Ogni tanto mi chiedo che ne è, nell’anno corrente, di quella famiglia allargata di pigmei, che vidi in un docufilm svariati decenni fa, abitanti nel cuore della foresta equatoriale africana, presso cui i figli erano gestiti dal consiglio degli anziani, e dove la socialità era tanto necessaria quanto spontanea. Non vorrei che anch’essi oggi tendessero a comunicare fra loro col whatsapp.
Dai mammiferi in poi, la faccenda diventa assai più complessa, come la tecnologia umana, se si pensi al progresso occorso dai tempi di Galilei a quelli odierni; nell’ultimo ventennio, e nell’ultimo quinquennio. Quando ero giovane io, c’erano, nei centri di elaborazione dati, delle schede perforate. Mio figlio, del 1994, a pochi mesi già strimpellava sulla tastiera, imitando il nerd genitore, e non so quanto capisse il senso di quell’azione e, a circa tre anni, conobbe Internet. Egli imparò a scrivere prima con la tastiera che con la matita. Mia figlia, del 2003, fece conoscenza dei social già nei suoi primissimi anni.
Gli attuali insetti, vermi, rettili, mammiferi, scimmie, primati antropomorfi e uomini primitivi (quei pochi che ne rimangano), continuano a ignorare tutto questo.
“Tali specie operano, oltre che con la loro biologia evoluta, con una psicologia che prevede l’agentività (agency) individuale.”
L’autore definisce “organizzazione comportamentale”, quel che caratterizza “gli esseri agentivi”, a partire da certi mammiferi in su, la quale “è basata su un controllo retroattivo, a feedback, con il quale l’individuo dirige il proprio comportamento verso degli obiettivi…” – che alla fine recherà pro cubile sua e, se è uomo, pro domo sua. È per il pane che si fa la pace (ci si organizza socialmente), mentre è per l’argento che si fa la guerra (si bombardano le tane altrui). Così va il mondo, no? Il fine non giustifica il mezzo, ma ne è la motivazione, la prima spiegazione. Per chi gioca a scacchi la cosa pare ovvia, per cui si concepiscono mosse e contromosse solo dopo aver controllato il comportamento della preda che si vuol divorare, e che può diventare la fiera da cui dovrai difenderti: una mangusta contro il cobra, che danno luogo a un duello sempre incerto.
Il comportamento animale, in modo diverso a seconda del livello di complessità, è “volto a massimizzare i benefici di fitness (come l’apporto calorico) e a minimizzare i costi di fitness (come il consumo di energia.” – ed è quel che capita a chi fa oggi la spesa e che si chiede: che faccio, prendo la macchina e vado al superstore che dista qualche chilometro, oppure al negozietto dietro l’angolo, che ha costi maggiori, ma a cui posso andare a piedi? Il discount che costa meno ma che ha prodotti non di marca, o la grande cooperativa alimentare che ha costi maggiori ma che, forse, non è detto, dovrò controllare ogni volta, merce migliore?
Come ci si arriva a tutto questo? La risposta è la solita: evolvendo.
“La questione non è se qualcosa è innato oppure appreso, piuttosto è il grado in cui questo qualcosa è controllato dall’individuo.” – non solo lo scontrino fiscale, ma il tutto, nelle sue variegate forme.
Il terzo capitolo ha un titolo esemplificativo: Gli antichi vertebrati come agenti diretti a uno scopo.
Un tale animale può essere “capace di eseguire un’azione ma non la esegue”, se non “è motivato”.
Una frase schietta, non facilmente falsificabile, eppure scientifica: “I primi organismi sul pianeta Terra non erano agenti psicologici. Non avevano bisogno di esserlo: erano venuti al mondo nuotando letteralmente nel cibo.” – per citare un detto delle mie parti, erano un boccachevuoi? Pigliati quello che ti pare e come ti pare che ce ne sarà sempre!
Per comprendere il saggio mi sento motivato a produrre delle similitudini mie che tentano d’illustrare, principalmente a me, il saggio, sperando ogni volta di non cadere nell’off topic.
Quando spuntarono nuove esigenze, quegli esseri “avevano bisogno non solo di un arsenale più ampio di appendici e di azioni, ma di modi più efficaci per controllare le proprie azioni in modo flessibile…” – di adeguare il feedback alle nuove esigenze.
L’autore stesso non sa a quale specie occorre attribuire per la prima volta questa funzione. Ma chi, come il sottoscritto coltivava da fanciullo il sogno di diventare erpetologo, può arrischiare una risposta. E chiunque, oltre all’autore e a chi sta scrivendo queste righe, ha di certo notato come “le lucertole” sappiano come fuggire, a seconda dei casi, dal ragazzino che le vorrebbe piazzare nel suo minuscolo museo infantile, che dovrà diventare, nella sua fantasia, più rinomato dei Musei Civici che, a Reggio, non a caso, sono siti in via Lazzaro Spallanzani, nonché intitolati al grande naturalista scandianese.
“… i rettili sembrano imparare a quale stimolo rispondere piuttosto come rispondere a uno stimolo particolare”, qui l’autore riporta una considerazione “Suboski (1992, abstract)”.
Quando “l’inibizione” è “totale” il meccanismo si blocca per un interminabile istante: Enten-eller? Enten?! No! Stavolta è il turno di Eller!
Tutti gli animali, “dai vermi…” alle “…spugne”, al sottoscritto, “interagiscono con l’ambiente nel loro modo esclusivo” – e ognuno ha l’habitat che si merita ed è lì che dovrà far i conti con la sua quotidianità – “Essi non vivono nello stesso ambiente ma in mondi differenti, in differenti bolle.” – mondi paralleli e, in maniera saltuaria, mai casuale, comunicanti.
“… ma per prendere una decisione efficace, esso deve prestare attenzione a un sottospecie di queste percezioni…” – al fine di “raggiungere il proprio obiettivo.”
Gli oggetti sono singoli elementi della “situazione” generale, ognuno atto a svolgere la propria funzione.
I rettili, questi sconosciuti: “Una lucertola non sceglie di desiderare grilli gustosi: sceglie come inseguire questo grillo adesso”: per lei vale un eterno, mai concludente: carpe momentum.
Le azioni, “i mammiferi le dirigono verso gli obiettivi non solo flessibilmente ma anche intenzionalmente.” – dopo aver simulato nel loro cervello i “possibili piani d’azione.” Anche per loro vale l’enten-eller, l’“o-o”, ma “poi supervisionano e controllano cognitivamente l’esecuzione nel comportamento nel suo svolgersi.”, utilizzando anche una terribile arma: “l’emozione della paura”.
L’esperienza è una loro ulteriore facoltà, come pure l’osservazione dei loro simili: “… il neonato, che non deve dedicare tempo ed energia per cercare il cibo e per sfuggire ai predatori, può concentrarsi per scoprire il proprio ambiente locale (e scoprirlo giocando, il che probabilmente p sconosciuto ai rettili).” – il cibo non è tutto, ma è sempre uno degli scopi più vitali. Generando “non già un’azione, ma un’intenzione ad agire” – in tal senso, “i mammiferi divennero agenti intenzionali.”
Importante: “il controllo reattivo si affida invece alla rivelazione e alla risoluzione dell’interferenza dopo che è comparsa”, con, in allegato, “la previsione di errore”, nonché “la memoria di lavoro”, in modo da poter agire “come da copione.”
Mentre i rettili sono semplici attori, i mammiferi sono anche soggettisti, sceneggiatori, segretari di produzione, producer nonché registi.
“… tutte le grandi scimmie possono usare con grane possibilità gli strumenti più vari.” – che sviluppano sempre di più, specie se stimolati durante gli esperimenti. Ogni strumento è idoneo nel suo contesto, che se questo varia, anch’esso muterà.
“Le antropomorfe imparavano a immaginare piani razionali con la stessa rapidità e accuratezza di un bambino di cinque anni.” – e mi chiedo se siano stati fatti esperimenti di cure parentali umane di neonati di queste specie.
“… le grandi scimmie fanno previsioni sulle azioni degli altri sia attribuendo loro concetti basati su sé stesse, sia formando delle ipotesi sui particolari stati mentali degli altri.” – un po’ come fa un umano che progetta un piano condiviso, che deve sapere con chi avrà a che fare. Per fare ciò occorre che “io colga sufficienti somiglianze…” – fra me e l’Altro. Da qui l’autore teorizza “che le grandi scimmie siano agenti razionali”, almeno “nel senso economico”, nel raggiungere uno scopo materiale, con cui si dovrà campare: marxianamente. Oppure esagero?
Ora tocca agli umani. Gli scimpanzé sono una tribù, a quanto ho capito, dove ognuno ha la propria storia e dov’è sempre concessa una buona dose di egoismo. Gli umani ne cercano una umana, sociale, “dove il ‘partner’ è un intero gruppo culturale”, dove gli individui sono “interdipendenti”, correlati in un’unità di progetto. In tal senso un individuo può diventare “trasgressore”, condannabile, ma redimibile. Ognuno è autorizzato, ma anche invitato, a fare la spia delle altrui trasgressioni. Il fine è sociale e diventa, termine usato ora da me, non dall’autore, etico: il partner dev’essere collaborativo, altrimenti sarà censurato, valendo ogni volta la disuguaglianza: “noi > me.”
Tale sistema, quando ha successo, promuove un’espansione in una nuova tribù, ove “il gruppo condivideva uno spirito di fiducia e di lealtà, simile a quello interno alle loro famiglie nucleari.”
E vengono istituiti dei “ruoli sociali”, al fine di dividere i compiti e le facoltà, come accade in un ufficio, al fine di opus facere in modo comunitario.
A pagina 170-171 è sintetizzato i gradini principali della scala evolutiva dell’agentività, in riferimento alle decisioni prese dalle altre creature: “rettili” (“buona parte delle incertezze scaturisce dal comportamento degli insetti”), “mammiferi” (verificare il “comportamento dei compagni”, al fine di creare “pressioni a prendere decisioni migliori”), “grandi scimmie” (“prevedere con più accuratezza il comportamento dei rivali”, nonché “correggere decisioni inefficaci prima di eseguirle nel comportamento”), “esseri umani” (badando al “comportamento impegnativo di partner e di gruppi collaborativi”, per cui fidarsi è bene e non fidarsi è più salvifico)
Talora, “alcuni individui potrebbero immaginare come cooptare le proprie abilità arrampicatorie” perseguendo un nuovo fine, come capita a un complessato nerd che, obtorto collo, studia on line come ballare, per potersela cavare in discoteca, dove tenterà di coronare il suo sogno romantico.
“… il comportamento spiana la strada a un processo evolutivo…” – alla formulazione di sempre nuovi, utilissimi, algoritmi operativi, che chi non li ha, non andrà più innanzi. Mi piacerebbe sentire a proposito l’illuminante parere del filosofo Luciano Floridi, docente di etica dell’informazione.
Enten-eller era già un principio operante nel cervello dei rettili. L’esistenziale maestro di o o, Søren Kiergegaard è il mio filosofo per eccellenza, ma non si può negare che l’uomo sia diventato, nel corso dei millenni, un Kant, la cui ragione è diventata inevitabilmente pratica, operativa, necessaria. Ma quell’enten-eller si tende a dimenticarlo, qualora si cerchi una risposta che sia nudamente logica, quasi cibernetica, e non collegata alla propria esistenza. Occorre avere il coraggio di scegliere, utilizzando anche la lucertola che dimora nella nostra anima. Cone nel linguaggio basic: If…, then go to…
Per spiegare tale evoluzione, c’è bisogno “dell’individuo vivente che agisce sul mondo attraverso la struttura di un tipo particolare di organizzazione comportale e psicologica.” Dopo di cui l’autore si chiede se “le macchine sono potrebbero essere degli agenti ideali?”
È come se avessero chiesto al genovese Colombo se un giorno, anziché via mare o via terra, avrebbe potuto raggiungere le Indie svolazzando come un avvoltoio.
Vorrei concludere questa sicuramente manchevole e sicuramente difettosa disamina, per cui rimando alla diretta lettura del saggio, riproponendo un passo di un’opera che feci subito mio allorché uscì: L’animale culturale di Danilo Mainardi (1974), dove si parla di uno scimpanzé di nome Sultan, che si dichiara a un certo punto impotente a risolvere un dato problema: “L’arnese per l’arnese sembrerebbe essere al di là delle sue capacità. Qui, dice Khrustov, è il confine tra l’animale e l’uomo; qui, secondo Tobia, anche l’australopiteco si è fermato. Fare l’arnese sì, ma anche per lui è anche troppo fare l’arnese per fare l’arnese.”
Nel 1997, Deep Blue II sconfisse a scacchi il campione del mondo Karpov, e io ne fui veramente stupito. In un secondo tempo me ne feci una ragione, pensando che, a costruire quel geniaccio composto di hard-software, era stata un’equipe di miei simili, leggermente più intelligenti di me!
Non so rispondere al quesito finale dell’autore, anche se numerose serie di fantascienza l’hanno fatto per me, in primo luogo Startrek).
Direi però di attendere fiduciosi, poiché non abbiamo, al momento, diverse opzioni.
L’istruzione che suggeriva il mitico Danilo era then go to culture.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Michael Tomasello, Dalle lucertole all’uomo, Raffaello Cortina Editore, 2022