“Sangue vuol sangue” di Gabriele Di Giovanni: l’entanglement fra scrittore e lettore è avvenuto

Non so se sia giusto consigliare l’aspirante recensore (o reagente, come nel mio caso) di andare alla presentazione di un libro con l’autore quando fatalmente a quello scappano dette quelle due o tre cose che, mentre l’articolista esce dalla sala, gli danno l’impressione di poter già tracciare le linee principali della reazione scritta a un’opera che gli è ancora sconosciuta. Poi tutto cambia o, meglio, panta rei, si trasforma scorrendo via, come l’acqua da un lavandino.

Sangue vuol sangue di Gabriele Di Giovanni
Sangue vuol sangue di Gabriele Di Giovanni

L’entanglement fra scrittore e lettore è però avvenuto. Volendo essere spiritosi, ma soprattutto assurdi, è già accaduta la copula, senza che si sia ancora, né mai lo sarà, per fortuna, deciso chi sia il copulante e chi il copulato, né se si faranno al limite dei frettolosi turni.

Prima considerazione autoriale: nel suo cassetto giacciono numerosi manoscritti incompiuti di opere che forse non vedranno mai la luce. Un mistero affascinante, caro Gabriele Di Giovanni, è che nel vuoto cosmico sono addensate innumerevoli (ma non è consentito contarle) particelle virtuali, non ancora esistenti, e che mai lo saranno, senza di cui quelle reali non ce la farebbero a nascere.

Ti chiedo allora quanto le tue opere edite debbano la loro esistenza a quei moncherini? È immaginabile che un giorno il favore sia loro restituito? Che rapporto c’è fra i tuoi manoscritti incompiuti e quelli che ancora non sono stati da te neppure immaginati?

Seconda considerazione autoriale: in primis ci sei tu, scrittore; in secundis ci sono io, servo hegeliano, che leggerà, anzi, divorerà, la tua opera “Sangue vuol sangue” nel chiuso della propria casa, stravaccato sul divano, dove assurgerà al ruolo di Dominus, subentrando a te.

Tale passaggio di consegne nacque già quando furono realizzati i primi graffiti delle caverne preistoriche, ma è stato sancito solo qualche decennio fa da Jorge Luis Borges: il lettore ha la funzione di perpetuare la scrittura.

È quello che sto tentando di fare. E finché c’è lettore c’è speranza di sopravvivenza. Inoltre, in ogni scrittura è fondata sulla lettura di scritture antecedenti. Successe anche a Virgilio con l’Eneide.

Terza considerazione autoriale: i personaggi sono coloro che affollano la mente dell’autore, smaniando per venire alla luce (molte di queste allegorie sono mie, più che tue, Giovanni; le sto elaborando grazie a te, però).

Sono come quegli spermatozoi messi in fila in base alla sentenza del Phatos, pronti a gettarsi nella mischia, come vidi nel celebre film di Woody Allen Everything You Always Wanted to Know About Sex (But Were Afraid to Ask), con un unico moretto che si chiede Ma cosa ci faccio qua io?

Molti personaggi forse se lo stanno chiedendo e, nel farlo, si mettono in pista, partecipando alla storia. Sono rari i soggetti totalizzanti, magari in qualche racconto di Kafka e in Dissipatio H.G. di Morselli (dove H. G. sta per humani generis). E sono per lo più tragici e spesso macabri.

Quarta considerazione autoriale: le storie minime compongono la Storia, che non è mai massima e definitiva, ma si nutre di una continua aggiunta di nuovi, ulteriori brandelli. La realtà è composta da sempre nuove finzioni, e viceversa: ogni finzione in parte è reale, in parte virtuale.

Quinta considerazione autoriale: mentre questo fenomeno accade, ogni personaggio si evolve come può e come Qualcuno ha deciso.

Sesta considerazione autoriale: l’uomo è uguale dappertutto, concetto espresso da Agatha Christie che diceva, a mo’ di concia, che si uccide per denaro, passione o vendetta. Sarà così anche stavolta?

Oggi come oggi non sono in grado d’individuare quanto di queste considerazioni siano dell’autore Di Giovanni e quanto dell’autore Pioli: the two characters are already and for ever entangled.

Come in altre occasioni l’esordio della reazione era già stata scritta nella mia cervice al momento in cui stavo salendo in auto per rincasare. Tanto guidava l’amico Roy. Al che mi venne in mente un’ultima considerazione autoriale, che stava per sfuggirmi: Gabriele, tu dici che il protagonista, che si chiama Marino Mussolini, che per anni ha lavorato come commissario, che poi si è ritirato a vita privata e che ora, rimasto vedovo, ha pensato bene di tornare in servizio, pur col ruolo inferiore di ispettore, nei suoi romanzi è uscito a poco a poco come carattere, e che solo in questo quarto e forse ultimo episodio della serie, sta mostrando le sue vere problematicità ed energie passionali. Côşi ch a câpita ai vîv.

Qualcuno però rumoreggiò in sala, e una donna ti disse che era un peccato non poter leggere sue nuove inchieste. Non intendeva davvero accettare il fatto.

Ieri sera ho concluso la lettura e stamattina sto tentando di scrivere la reazione. La prima tentazione è affermare che, fin dalle prime pagine, si sente la lezione di Valerio Varesi, ma che qualcosa appare diverso sia nella storia, che nella descrizione dei personaggi e dell’ambiente.

Innanzitutto diverge, com’è logico, l’anima degli autori, nonché dei rispettivi investigatori.

Varesi pare un flemmatico, che lotta per sembrarlo, senza forse esserlo; mentre tu ti definisci un timido che, quando è sulla scena, sa trasformarsi in un allegro anfitrione.

La prima differenza è questa: entrambi non paiono amare le presentazioni delle loro opere, ma solo tu lo ammetti. Essendo sul palco, in piedi, dall’altra parte della stanza, cerchi di esprimere le tue idee con un certo trasporto, stabilendo una certa sympàtheia con l’uditorio.

Una cosa analoga capitò quella sera a Langhirano, quando Varesi decise di parlare del suo romanzo stando comodamente seduto a un tavolo, ove al più presto sarebbe stata portata la Summa Theologiae di ogni ben di dio (e del beatifico gozèn, come si chiama colà il porcello), nonché vino ridens, nonché torta rossa. Tutti noi lo ascoltammo con piacere, svolazzando con la mente sia appresso al suo libro, che ancora ignoravamo, che alle imminenti pietanze, che invece ci aspettavamo.

Nel tuo caso qualcuno disse che bisognava presentare in fretta il libro perché all’una in punto i frati dovevano recarsi a desinare. Per cui si parlò solo del libro e di te.

Per quanto riguarda la figura dei due poliziotti, sospendo al momento il giudizio. Un po’ s’assomigliano e svolgono in modo analogo le loro funzioni, ma ognuno ha la sua indole e anche i loro rispettivi romanzi rispettano il fatidico dogma: ogni libro, come ogni individuo, è un’anima a sé, pur somigliando in parte alle altre.

Una definitiva affinità consiste nel fatto che, prima o poi, il commissario varesiano si reca a tavola con amici a gustare le grasse e dotte cibarie emiliane. Lo stesso capita ai tuoi attuali eroi che, al momento, però, “sedettero su una panchina in piazza Cavour con vista sul Municipale. L’aspetto non era cambiato dopo la guerra: la mole del teatro faceva ancora da magnifica coreografia allo sguardo su cui si affacciava il palazzo in stile antico della banca d’Italia e delicatamente orlato dai portici della Trinità.”una notevole differenza è che Reggio è meno ducale di Parma, ma non so quanto meno graziosa.

E ora sorge in me un fatto emotivo: nel leggere i libri di Varesi, m’inoltro nei meandri della città sita 26 chilometri a ovest rispetto alla mia, senza provare la stessa emozione che sento ora, che insieme a Marino Mussolini, sto giracchiando per la mia Città del Tricolore.

Se loro sono incliti farnesi-borbonici, noi siamo cuntadèin dal tésti quêdri, ma gente che si appassiona a volte fino a uccidere, seguendo la propria pur coglionesca kam’a, la passione, com’è detta in sanscrito.

È stato ucciso in un bagno pubblico un capo partigiano, tale Flynn, soprannome ovviamente, perché ognuno di quei combattenti aveva il suo nom de plume, al fine di nascondere i propri dati alle autorità fasciste. Ricordo, ma è un po’ che non mi capita di vederne, l’avviso funebre realtivo a qualcuno, ove accanto al suo nominativo c’era tra parentesi il nomignolo da combattente, un scotmay, come si dice a Rèş.

Gabriele Di Giovanni
Gabriele Di Giovanni

Dice un più che christiano Mussolini al partigiano Potente: “Di solito si ammazza per soldi, per gelosia o per potere…” – ma non sempre è così, ammoniva la Maestra Agatha.

Si ammazza sempre per brama, come bramisce un cervo (da greco bremèin), come ruggisce una belva. Si uccide perché non si riesce a farne a meno, né a concettualizzare l’errore che cova nell’atto omicida.

Bellagamba e Mussolini si cibano fin quasi a scoppiare, presso “la trattoria dal Sangiòt” – di quel singhiozzo che ti coglie talvolta, dopo l’ennesima abbuffata. Assioma o dogma o precetto che sia, le due precedenti parole vanno sempre abbinate.

“Dopo aver porto i complimenti a Silvano per l’ottimo pranzo e pagato, si avviarono verso Corso Cairoli…” – mangiare, gradire, ringraziare e pagare rientrano nel medesimo rito, a Rèş.

Dice Miriam, arguta donna conosciuta anni prima da Mussolini: “Noi ragazze siamo sempre più complicate…” – sottinteso: di voi poveri omarini.

Lo sono in quanto sanno scegliere senza darlo a vedere, facendo talvolta una parata, simulando e dissimulando come tante Catiline. Non sono cattive, anzi, amano la (tua) cattività, ma solo se ti vogliono bene.

Non mi va di narrare la storia, che è così scorrevole a leggerla su carta, né chi sia l’assassin*, usando in tal caso il prezioso, femminista e ammucciante asterisco. Qualcun* dice che la lingua italiana è sessista. E c’ha ragione, anche se la ragione notoriamente si dà ai… Spoilerizzo che si tratta di un* mancin*, che ha ucciso per la più stupida e al contempo onorevole delle ragioni: la vendetta. Se i soldi non danno la felicità, figuriamoci la miseria…

Il potere logora un po’ tutti, anche chi ce l’ha, ma serve come la serva, direbbe Totò.

La passione amorosa finisce poco dopo il viaggio di nozze, e qualcosa si è in fondo, soprattutto all’inizio, goduto.

Ma la brama di vendetta cela un errore di fondo: compiendola non si resuscita che il proprio dolore, che si somma a quello che seguirà, con la condanna e la relativa punizione.

Eppure, a volte, pare l’unica soluzione per sopravvivere, quando, per un attimo ci si illude che l’amato bene possa tornare a vibrare dentro di noi, insieme a noi. Quello che in oriente si dice māyā, illusione.

Ma se non sventolassero i suoi veli, chi scriverebbe mai un rigo?

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Gabriele Di Giovanni, Sangue vuol sangue, Andata & ritorno edizioni, 2022

 

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