“Cosmo” di Roberto Moscardin: scrivere è incidere la propria verità
Etimo di kosmos: ordine. Ogni tanto, dopo l’ennesimo bicchierino di brugnolino, che si affianca a quello del suo naturale antagonista: il finocchino; il primo estratto dai frutti del prugnolo selvatico; il secondo dalle foglie di finocchio non meno silvestre; ogni tanto, dicevo, mi chiedo se Kaos e Kosmos non siano figli del medesimo Essere Esistente, quello che affettuosamente chiamiamo mondo.
Etimo di mondo: dal sanscrito mandati, ornamento, da cui anche l’irlandese mind, che significa ornamento.
Etimo di mente: dal sanscrito man-yate, conoscere, misurare, da cui anche l’inglese man, il tedesco mensch, entrambi sono: uomo. Serve sempre ricordare che homo deriva da humus, terra umida, umore, afrore anche, forse, in certi periodi dell’anno. L’uomo, come tutto il resto, sa di terra.
Ragiono: se è vero che E = mc2 e che panta rei, che tutto scorre, trasformandosi da rivo strozzato che gorgoglia in parte di quell’ampio mare che lambisce le umide terre, ergo: ordine e disordine (entropia) sono due aspetti della medesima ratio.
Entropia: ciò che è racchiuso nel tropos che avvolge il kosmos. Il disordine è la misura dell’ordine e, pertanto, del disordine. Il che serve a farmi dire che non ho mai letto un’opera più ordinata, caotica, cosmica e confusa di questa. Né meno ordinata, caotica, cosmica e confusa. Essa è se stessa: moscardiniana.
Ognuno ha il kosmos che si merita. E tutti noi si fa parte dell’unico kaos che, al momento, ci è dato visitare e tentare di descrivere, mentre esso ci ospita a tempo determinato.
Nella dedica che l’autore mi ha fatto, e che è divenuta parte integrante dell’opera, leggo: Con ammirazione e gioia per il tuo IKI.
IKI è manovrare emotivamente il placido sé nella dinamicità, con spontaneità ed elaborazione mentale, che consente di raggiungere una visione superiore sotto vari punti di vista, fra cui c’è il tuo, il mio, nonché quello dell’Altro.
Estrapolo un commento altrui su Cosmo: “… l’alto e il basso, l’epico e il quotidiano, il reale e il fantastico, la filosofia e il fumetto, il banale e il ricercato vengono fusi insieme in un linguaggio
sofisticatamente sciatto, che sfida qualsiasi convenzione narrativa.” L’autore, oltre che assai antifrastico, è spesso ossimorico.
Etimologia di sciatto: ex aptus, non atto. Il termine chiatto, grasso, ha la medesima origine e indica quel che supera la misura consentita dalle abitudini.
Cosmo è un’opera disadattata, informale, densa, grassa, longilinea, diluita, fin troppo e fin troppo poco.
Saper vedere è sapere! – così si conclude la dedica di Roberto Moscardin. Sapere è volere, è potere, è dovere. Ecco che scorgo finalmente il senso del libro: non poteva essere non scritto, essendo destino che io lo leggessi, che noi lo leggessimo, che tutti quelli che desiderano sapere lo leggessero.
Scrivere è incidere una verità, la propria, con il proprio stilus, la cilindrica e acuminata verghetta che contraddistingue ogni scrittore che merita di aver scritto. Non ne esistono d’immeritevoli.
Lo stile di Roberto è suo e basta; ma diventa altrui quando, leggendolo, lo si assimila. Perché questo avvenga Roberto deve dire, senza urlare, utilizzando una voce che entra nell’anima di chi lo ascolta, essendo tutti parte del medesimo kosmos. Egli scrive come parla, parla come mangia, mangia come respira. Il modo migliore per assimilare il testo sarebbe l’udirlo dalla sua mera voce. Anche, in ‘na stréca, in una stretta d’attimi frangenti, al cellulare.
“… questo libro, contiene dei pensieri, e ancora, i ricordi di fatti vissuti…” – una ri-elaborazione degli stessi, un ri-vivere in una ri-esistenza quel che, ancora per un po’, si agiterà e mai si calmerà.
“… il libro è nato per ricordare” – per far riemergere dal cuore il proprio esistente: “frase per frase, parola per parola.”
La sorte è ormai con-divisa: “… tutto già letto, tutto copiato, tutto inventato…” – tutto ri-scritto, ri-creato, ri-proposto.
Come già in Sette magie metropolitane di J. F. Boro, Cosmo esalta il numero sette, che per alcuni è magico, purificatore, simbolo di quel segno (=) che stabilisce la connessione fra energia e massa, luce e materia, onda e particella, ordine erta, che t’attira là in alto e chaos, voragine che si spalanca là sotto.
“Qual è il confine dell’uomo? Perché vi racconto tutto questo? lo saprete alla fine del libro.” – che darà la misura, ancora provvisoria, della nostra personale ignoranza. So di non sapere, disse quel tale. Non so nemmeno se so, dico io. Ed è ciò che pensa l’autore.
“Pontelongo è un piccolissimo paese della bassa padovana.” – per Nietzsche la vita era “un lungo ponte sospeso fra due Nulla”.
Da quel paese la famiglia dell’autore si trasferisce a Milano. Un paesino di 3000 abitanti diventa un villaggetto che ne contiene cinquecento volte tanto. Un bel passaggio, che non manca di stupire il giovane Cosmo, e la sua cosmica famiglia.
Per seguire il libro, avverte l’autore, occorre un filo, senza di cui ci si disperde e, in assenza del quale, egli consiglia: “buttate il libro”, che sennò vi allontanate troppo dal vostro sentiero. Il filo, ma potevo anche tacerlo, è necessariamente borgesiano. Allora non esistevano le mappe di zio Google, questo parente giunto da chissà dove, dall’America pare.
In quel moderno e sempre antico bailamme, “c’era una precisa determinazione, la quale attraversa il destino di tutti.” – il Fato, come Dio, se esiste, non interessa né me, né Cosmo, né Epicuro. Il Destino è dei tre citati, nonché di ognuno, poiché tutti danno il proprio contributo affinché si segua la direzione, il Tao, il divenire del Cosmo, qui a Milano, là a Pontelongo, poi chissà dove (io lo so, avendo terminato la lettura del libro e avendo incontrato, illo tempore, Cosmo a Bari).
Tacere è morire: “Non riesco mai a tacere. Parlo e rido, e parlavo e piangevo. Dai continuiamo a ricordare. È una mia confessione.”
Cosmo narra delle sue amicizie, la solita, sanscrita kam’a, da cui viene amore e kāma sūtra, di cui sarebbe bello ma ingiusto parlare: occorre ogni volta ri-leggere il Cosmo! Che non è infinito, è illimitato!
“… e quel qualcuno ci dica cos’è il destino” – è il chiedersi cos’è il destino.
“La goliardia, il gioco facevano parte di quell’ironia ricercata, un po’ trasgressiva, mai volgare – e il volgo era composta da: Utopia, il Pretino, Cosmo, il Nullo e la Poiana.” – liberi tutti di svolazzare nel parco meneghino.
“Il milanese come il veneto, e il napoletano, lo parlo e lo scrivo correttamente meglio dell’italiano.” – e ogni dote necessita di un corrispondente sacrificio.
Lo scrivere cosmico è un parlare in diversi idiomi, compreso il tuo, Cosmo, che chissà qual è, ormai chi lo può affermare con certezza? Colui che legge, ma ogni volta dimentica.
“Cos’è mai il tempo?” – quando avrò tempo, sempre e mai, ti donerò la risposta, che sarà sempre temporanea, perennemente in fieri.
Amo molto i refusi cosmici, poiché ogni autore è un re-fuso. Ognuno a modo suo. Se nel cosmo non ci fossero refusi, occorrerebbe inventarli. La voce cosmica è pervadente, diffusa ovunque, dinamica, statica, indietreggia, mentre procede in avanti (dipendendo sempre dal punto di vista).
Svanisce per poi riapparire, ogni volta che il fisico lettore decide di intrecciare il proprio destino a quello del Cosmo.
“Eravamo tornati insieme come il tempo.” – in un olistico olismo. È la Sacra Scrittura, quel magico e mirceaeliadiano, borgesiano evento in cui due anime s’incrociano, per restare per sempre entangled, correlati.
“Le ragazzine, a me, a Lucio e allo Squallido, ci ronzolavano intorno, erano belle, erano bionde.” – appassionate dai loro pur difformi strumenti, ognuno con la sua originale e cosmica melodia!
“Eravamo pronti per il gran debutto sonoro?”, ti chiedi nel titolo: sì, rispondo io! Basta che il Magistrale Destino agiti la sua bacchetta e… Fiat Musica!
“La filosofia è proprio uscire di senno, e avere la possibilità di una via, di un ritorno.” – che, finché si ripresenta, lo si ri-definisce eterno, ma nulla lo è perché ogni cosa è. Ri-è.
“Ho un sacco di cose da raccontare. mi voleva dire [di] qualcosa, [di] una situazione, [di] qualcuno.”
In ogni parentesi quadra è celato l’ineffabile spazio di Planck, tanto breve che forse non esiste nemmeno. “Le cose profonde amano essere mascherate” – come una donna, che ama agghindarsi e poi essere spogliata, lentamente, dall’amato e da lui ri-coperta.
Ognuno ha il suo “davar”, “che “era una cosa, un oggetto e una parola, non il mero parlare, un ente…” – cioè “… un mattone con cui si inizia a costruire dentro il palazzo, e di solito viene chiamato discorso.”
Cosmo, la tua scrittura è orale: il mattone è visualizzato e riprodotto così com’è, per cui le virgole sono verghe vergini, da vir, la cui energia è talvolta, non sempre, disponibile, del resto cosa ce ne faremmo di un Cosmo eccessivamente ordinato? Sarebbe una noia immota, silente.
Sento il tuo fiato mentre parli/scrivi, la relativa scansione temporale, il colpo di tosse casuale, l’ansare per la corsa, il riprendere fiato, lo sbuffare, l’esistere.
“… e la famosa 2’ Fiat 1100 decise di morire.” – tót à fîn! Finché c’è morte c’è speranza (di resurrezione)!
Cos’è la morte se non un ripetuto chiedersi cos’è la morte?
Conto cinque (me ne aspettavo un paio di più) di “Allora mi innamoravo di…” – e mai è finita questa corsa alle passioni, che regge la nostra vile e inclita esistenza.
“… il 21 maggio del 1975, morì investita da un camion. Morì sul viale da Muggiò a Monza, davanti a casa sua. Morì sul colpo, aveva 19 anni…” – e lei ti aveva detto “ho un amore segreto”. E tale rimarrà, per sempre e mai.
“… amava me o un’altra persona? Ebbene, non lo saprete mai.” – almeno finché un bel giorno la ritroveremo, dov’andremo, insieme, Utopia, il Pretino, Cosmo, il Nullo e la Poiana e il sottoscritto, in quel Bar Empireo, per un’amabile apericena. Lei offrirà a tutti la sua versione esistenziale. E noi la nostra.
“Come le 7 note musicali, così ho suddiviso il libro in 7 sezioni. In 7 atti. Nel libro ripercorre il numero 7.” – e 48 altre volte nelle due pagine che sto leggendo da 7 minuti: i 7 nani, come insegnava quell’altro Roberto. Un giorno tu e Boro v’incontrerete e discorrerete senza interruzione per sette giorni di fila.
“Una delle caratteristiche fondamentali del nostro linguaggio è la creatività, con le parole e le regole, con il nostro linguaggio tendiamo a creare qualcosa di nuovo, non riducibile in modo meccanico alle regole grammaticali.”
Chi parla non acconsente mai, lo dice il rovescio di quell’inclito proverbio.
“La contessa l’ho immaginata come una dea.” – e null’altro mi va di dire di quel femmineo nume.
Chi la conosce non la evita più, parola di lettore.
Ma “questa è un’altra storia…” – mia, tua, sua, loro. Nostra.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Roberto Moscardin, Cosmo, Edizioni Amazon 2022