“A mia cura” di Katia Debora Melis: il poeta è un luogo fatto di ipotesi
“Solo Speranza, come in una casa indistruttibile,/ dentro all’orcio rimase” – Esiodo, tr. Arrighetti
Le poesie di Katia Debora Melis sono sinonimo di cura. A maggior ragione quando quest’ultimo termine entra nel titolo: in tal caso, infatti, esprime un impegno programmatico, la cifra di una poetica, una responsabilità personale e autoriale. Già in passato ho avuto modo di recensire il suo Cuore di mussola.
In “A mia cura”, questa nuova raccolta poetica, prosegue l’approfondimento verso la cura. Innanzitutto a livello estetico, ma in modo sostanziale e non appariscente.
Risulta, infatti, gradevole anche al tatto la carta usata per questo nuovo volume: consistente, lucida, profumata; su questi fogli le poesie sono scritte con un font di grande leggibilità, sia per aspetto che per grandezza; inoltre, in alcuni punti del libro, troviamo sinotticamente su un foglio un disegno o una foto e su quello accanto il testo. Anche le immagini, come le parole, sono “a cura dell’autrice”, cioè da lei realizzate, compresa l’opera riportata in copertina “La vita insieme”, un acrilico on canvas, del 2021, in cui i colori, caldi, freddi, forti, sono tutti accostati ad accennare un paesaggio naturale, forse un bosco, su uno sfondo celeste, probabilmente il cielo. Questo gomitolo di colore risalta sulla copertina bianca, pura, luminosa.
Quando la poesia è accostata ad una iconografia è possibile far dialogare i due linguaggi per provare ad interpretare meglio il messaggio globale dell’autrice; quando invece si susseguono varie pagine fatte solo di parole, è il pensiero che interpreta ricordando le immagini precedenti.
Ad accompagnare la lettura è una Premessa scritta da Francesco Martillotto, seguita da una sorta di epigrafe in cui la poetessa dialoga con il suo interlocutore:
“Il poeta è un luogo fatto di ipotesi/ Nel dubbio, leggetelo./ Leggetelo nel dubbio./ Scusatemi, dunque,/ se ho fatto rumore/ per nulla/ macchiando di voce lo spazio”
In coerenza con l’unitarietà di immagine e parola con cui è costruita l’opera, anche il poeta diventa un luogo per quanto immateriale; le sue ipotesi sono fatte della stessa “sostanza” del dubbio del lettore, per cui leggere non è altro che un ritrovarsi. Con cura e in punta di piedi Melis chiede scusa per il rumore eventualmente arrecato, sinesteticamente associato alla propria voce che macchia lo spazio.
La cura nell’accompagnare gradualmente il proprio pubblico nel percorso di lettura è confermata dalla prima lirica intitolata Prologo, “discorso che sta prima”, e posta su una pagina collocata a destra rispetto alla prima immagina, la foto di un paesaggio quasi notturno, ma non ancora scuro, dove si intravedono sullo sfondo la piccola luna sorgente, in primo piano dei rami spogli invernali; la poesia dialoga con questa raffigurazione: “Se poi accadrà/ che dal peso dei tuoi rami nudi/ cada sul mondo/ una distesa di candore,/ qualcosa resterà oltre all’azzurro del cielo/ per creare nuove parole”. La parola è la speranza della poesia, ma ha bisogno di un supporto luminoso su cui essere scritta.
Cura è un termine polisemico, sia presa come singola che, ovviamente, in un contesto poetica. Cura, ae, in latino significa la presa in carica del soggetto rispetto ad un impegno, l’interesse, l’attenzione, la sollecitudine. In greco questo concetto è reso con θεραπεία, lessema che accoglie in sé una radice religiosa, indicando l’interesse del Dio per l’uomo e viceversa; oggi terapia è il decalogo di regole che il medico prescrive al paziente per curare una malattia; la terapia è la cura e viceversa, anche quando non si tratta di azioni risolutive.
Cura può abbracciare anche il valore di preoccupazione, implicante qualche ostacolo significativo: la cura è operativa, la preoccupazione inibitiva, paralizzante.
Anche sotto questo segno si declina il concetto in Melis, nella lirica Ceneri del Montiferru accompagnata da una foto capace di rendere in maniera ancora più evidente quanto raccontato a parole. O meglio; la foto rappresenta la causa, la poesia gli effetti, le conseguenze del disastro ambientale che si è consumato in Sardegna nell’estate del 2021.
Si tratta di un tema che Melis, abitando in questa regione meravigliosa, sente particolarmente in prima persona: e tuttavia è stata capace di conferire un valore universale all’episodio attraverso il correlativo oggettivo della Natura stessa, della pietra, della roccia che parla in prima persona definendosi come “pietra pesante”: “urge tra i venti trasformare/ le mie fragilità/ legarle al ramo/ correre correre via/ bruciare tra i colori del monte”. Nel disastro gli elementi naturali si aggregano, si confondono, resistono insieme come possono di fronte al nemico comune. La pietra abita “nel terrore della nuova/ sinfonia/ fatta cenere/ nell’acqua”.
Preoccupa la mancanza di pioggia: così, affianco alla foto di un firmamento azzurro, compare la poesia epigrammatica Il Cielo: “L’azzurro non manda odore/ di nuvole/ Nemmeno così/ siamo felici abbastanza”.
La cura è alimento delle cose fragili: e così, accanto ad uno scatto che immortala dei fiori, si legge la lirica intitolata non a caso Come un fiore, un sogno ha breve vita: in essa il fiore, circoscritto nel proprio spazio angusto “si riconosce appena/ nella bella speranza/ che apre e chiude gli occhi/ in un sol giorno/ mentre si scalda per il tramonto”.
Anche la speranza è un bene fragile, da curare affinché possa vivere il più a lungo possibile: “Nonostante tutto il male/ ho grandi cose tra le mani: le speranze”, questa è la chiusa della lirica Mani/festo (sic!) dove anche la separazione grafica delle due parti del termine ne evidenzia meglio il significato “chiaro con le mani/ alle mani”, “evidente”: festo ha la radice di φαίνω, mentre mani torna come termine chiave nel titolo e nella lirica.
Ci sono tantissimi altri sensi con cui si esprime la cura: come perseveranza (La costante), come carezza (Dammi), come soffio vitale (Respiro), zelo (Il sole segreto delle cose), sguardo (Ho acceso i miei occhi).
La cura è anche il sano desiderio di volersi bene tra “Peccato e piacere/[…] tangibili geometrie/ della forma dei vivi” (La forma è il piacere).
Sicuramente la cura è soprattutto speranza, termine chiave ricorrente più volte nel testo e all’interno della medesima poesia: “Senza il tempo/ resta sconosciuta la paura […] Intanto lievita dentro un libro, in una penna,/ in un’idea/ una sotterranea missione di speranza/ perché gioia pura è la speranza” (La casa senza tempo). La cura, dunque, dà gioia.
Lascio al lettore il compito e il piacere di scoprire la declinazione della cura nella poesia di Melis e la ringrazio per la cura che lei stessa ha verso il suo destinatario, facendolo sentire parte di quel mondo da lei rappresentato con le parole, con le fotografie, con i disegni, con i colori: tutte pennellate di un’unica Opera creativa, benevola curativa, come l’acqua che ci avvolge senza comprimerci: “è sospesa la vita sulle acque […] Tutto è velo sottile e profondo/ spesso di memoria ancestrale eterna/ imperitura/ Ha il sapore/ con fame di respiro/ il corpo immerso in una pioggia ferma/ che riposa dall’onda al fondale”. Questi versi sono tratti dall’ultima lirica Epilogo sulle acque. Nell’ossimoro “pioggia ferma” è tutta raccolta la dimensione di libertà propria di ogni cura che si relazioni veramente con l’altro inteso come una parte di sé.
Written by Filomena Gagliardi
Bibliografia
Katia Debora Melis, A mia cura, Mario Vallone Editore, Vibo Valentia, ottantanove pagine, 15 euro