“Segni del tempo” di Paolo Fabbri: un lessico politicamente scorretto
È bello, a volte doveroso, iniziare una seria disamina di un’opera importante esprimendo una necessaria, per nulla futile, sciocchezza: leggere è come fare l’amore, più fatichi e più significa che stai provando piacere.

L’opera Segni del tempo mi ha debilitato, nel senso di tolto energia, rafforzandomi, ridandomela ogni volta, in ossequio alla mai abbastanza venerata equazione relativistica di Sant’Alberto Magno: E = mc2.
Paolo Fabbri è (c’è chi potrebbe dire: era, ma per me è e sarà, chissà, forse per l’eternità) un semiologo, un saggio arguto, un creatore di parole che diventano fatti e, per chi le legge, un vissuto indimenticabile.
Raramente ho provato una maggiore riconoscenza per l’autore di un’opera ma, se vogliamo dare un taglio a quello che pare ed è un panegirico, occorre parlare delle mie reazioni alle suddette parole dette da chi, se non è il miglior fabbro, poco ci cale. Ogni giudizio di merito è un fiume che scorre verso un corso d’acqua ogni volta maggiore. Il mare infine sarà nostrum, mio, tuo, suo e di tutti i correlati e i correlanti. Se devo poi pensare a un dio Nettuno della scrittura, a chi mi potrei riferire se non a lui: J.L.B. Chi ha le orecchie orecchieggi.
Sono uso a sottolineare le parti significative di un libro, un capoverso o una parola che mi ha destato interesse, ma in questo caso dovrò lavorare di forbici, mi sa: ce ne sono troppe. Sono ricaduto nell’encomio, mi sa.
Prefazione di Stefano Bartezzaghi, il cui padre Piero ha benignamente reso instabile (stavo per scivere martoriato, ma in un certo senso è così): mi ha reso martire, testimone, della mia stessa crescita culturale; le parole incrociate hanno la funzione di renderti consapevole di quel che ignori, intrigandola con mille interrogativi, la mia giovinezza di lettore delle riviste enigmistiche.
Riporta il mio omonimo Stefano: “… a me torna in mente l’aula universitaria in cui sentii Fabbri buttar lì che ‘sappiamo tutti che l’etimologia è interessante quando è creativa’” – e la frase mi lascia perplesso. Leggendo l’opera di Fabbri inizierò piano piano a comprendere il senso della frase.
Un altro riporto del Maestro di Parole di Stefano (di due Stefano, ormai): “A volte una parola può eccedere il suo significato, ma i significati possono poi travalicare le parole. Ricordate però: le possiamo sempre disdire.” – sul senso della prima parte dell’affermazione ipotizzo che parola e significato siano come particella e onda, e potrei ri-recitare la formula di Einstein, massa l’una ed energia l’altra. Non so se è a questo che alludeva Paolo. Che le parole siano da dire e poi da disdire, lo garantiscono le due espressioni: Parola torna indietro e Qui lo dico e qui lo nego, di cui egli saprà dire nel prosieguo dell’opera.
Stefano conclude il suo intervento aiutandosi con una battuta fabbresca: “tra le pertinenze sono comprese anche le impertinenze”. Etimo è verità solo etimologicamente? Non esiste risposta e non la scopriremo leggendo.
Nella Presentazione colgo: “Il senso delle parole non è intrinseco ma differenziale. È definito dalla loro posizione nelle frasi e nel discorso ed è continuamente negoziato nel corso delle conversazioni.” – ancora quel fin troppo fluido panta rei, a cui farebbe eccezione un Motore Immobile: la Parola di Dio. Certi orecchi hanno l’illusorio potere d’ascoltarla. Amavo definirmi ignorante di Dio, d’ora in poi sarò sordo, cieco e muto (si fa per dire). E non sentirò manco i sapori.
“Avrei messo la mano sul fuoco che la parola Abiura fosse in rottamazione. Non figura neppure nell’ultimo codice di diritto canonico! Ma è meglio non giurare su nulla, c’è il rischio di dover Abiurare.” –lo stile di Paolo è colmo di espressioni fintamente truci, facete con retrogusto amaro, talvolta corrosivo, mirato a neutralizzare il finto mito, per tentare poi di ricostruire un nuovo avviso, un monumentum (anche a me piace giochicchiare coi vocaboli), sfruttando quel residuo di verità che giace (da millenni) nell’etimologia. Giova ricordarsi che pur cogliendo l’origine sanscrita di un termine, mai si saprà chi è il primo genitore, come nella riscostruzione di un albero genealogico, che parte sempre da una coppia d’umani, ma prima…? Chi c’era?
“Ma l’Agenda non è solo un mezzo di comunicazione intimo. I veri destinatari sono gli altri, i contratti e e i conflitti che ci legano a loro.” – Anche quella del Premier, della serie però: vi dico come armarci e come vedervi partire.
C’è differenza se si parla “di Anima e di Animo…” – la prima “ha una qualità spirituale passiva, mentre l’Animo è un principio attivo di volontà e di affetto.” – la prima è Altrui (l’abbiamo solo in comodato d’uso), il secondo è quel mistero che coviamo in proprio, dentro di noi.
“C’è una segreta complicità tra i media e le Armi, i mezzi di comunicazione e di distruzione di massa”: i primi sono i canti ispirati (da chissà chi) che millantano o minimizzano i secondi.
“… il lessico è lo stesso: obiettivi, puntatori, lenti, telemetria, messa a fuoco…”.
Si è tutti correlati, entangled: “Liberi di assolvere l’Assoluto per mancanza di prove ma, se aborrite il termine, d’ora in avanti dite: ‘relativamente sì’.”
Non pare che sia previsto alcuno scampo dallo scempio: “Ora la politica è più mediazione che meditazione, più contenitore che contenuto e il suo Adcolto tende naturalmente ad Auditel…”.
L’etimo è il verace e imperfetto depositario di informazioni: “il significato infatti non è scritto nel DNA dei vocaboli, ma nella volontà di rimotivarli, di far parlare le parole. Quindi, anche se non prova niente, l’etimologia può dirla lunga.” – come la savia nonnina che ci racconta le favole. E ognuna di esse è foriera di verità, di morale, d’errore e di mistero.
“… a volte una parola può eccedere il suo significato, ma i significati possono poi travalicare le parole. Riordate però: le possiamo sempre disdire!” – repetita juvant.
Certe fabbriate mi paiono flaianate: “… Sarebbe poco saggio sognare e poco filosofico disperare: sforziamoci a un tragico ottimismo…” – nell’ossimoro è celato (ammucciato, dicono nel Cilento) l’ineffabile.
Un dono inaspettato: “cecchino” deriva da “Cecco Beppe”, alias “Francesco Giuseppe”: tiremm innanz direbbe ora Amatore Scesa, detto anche Antonio.
Scoppiettante informazione: “la parola munizioni ha la stessa etimologia di comunicazioni”.
Una richiesta umanitaria: “… i Clandestini non vorrebbero essere importunati e fotografati sena permesso. Perché non si rivolgono al garante della privacy?” – essendo alieni alla tribù, è ovvio che siano da essa alienati.
I termini stranieri… “esprimono la diversa sfumatura di un significato già esistente.” – come competività che deriva non da competere ma da competivity. Come bar, da barra, il quale proviene a sua volta dal celtico bar, ramo. Più m’attorciglio negli etimi e più m’accorgo che le sorprese non difetteranno mai.
Rido, Paolo, alle tue battute e, se ci sei, batti un colpo, anche solo una pacca sulla spalla mentre sto riscrivendo: “… a caval Condonato non si guarda in bocca.” – in realtà mi pare che sia più un Cavaliere, anzi, il… E mica ti fermi, perché la tombalità del condono vale per tutti: anche per “quello con il piede nella tombola…” – ché, in quel miserando caso, “piove sul diluvio”.
Ancora: “… Non è facile certo trovare l’accordo, che viene dalla parola cuore, strumento piuttosto scordato…”.
Per quanto attiene le parole (ma lo estenderei a quella enorme minutezza che chiamiamo cosmo): “Verità e valore sono sempre lontani dall’equilibrio.” – in bilico eterno fra mille probabilità divergenti, come la particella emessa da una spingarda, che attraversa al contempo tutte le innumerevoli fenditure che l’umano studioso gli ha predisposto, e che chissà dove approderà.

Ringrazio il Prof Paolo Fabbri di aver (pur tacitamente) citato un diario esistenziale del mio Henry Miller, dicendo di “un incubo insomma, ma con l’aria condizionata.”
Passerò l’ultimo mezzo secolo della mia vita a capire questa tua frase: “L’etimo del vocabolo Futuro è creare…” – e i successivi settant’anni a tentare di controbattere. Poi, per l’incipiente eternità, ci sederemo a consumare una birretta o un gin fizz (così capiremo che sapore ha).
Un dono da due soldi (d’oro però): “la parola è Parabola e la ‘favella’ Favola…” – e il lupus la sa più lunga dell’agnus, e il belante più lunga dell’ululante (dipenderà dalle condizioni meteo).
“L’etimologia non questione di verità ma di preferenze!” – che sia un fatto ideologico? Qualcosa è indicato nel paragrafo dedicato a Marionetta (da Santa Maria; da cui anche mariolo; il pupazzo da pupa – e a volte penso che la vita sia un gran bel teatrino!).
Parli di “entropia dell’oblio”, dove tutto è dimenticato, perché privo di energia. Preferisci l’unico ricordo che vige nella Singolarità del Buco Nero?
E se fosse cosmologicamente meglio alternare le due tendenze?
Sappi che esse già si avvicendano continuamente, come due coniugi che ogni giorno s’appiccicano, che dà più l’idea dell’italico bisticciano. E poi, ogni sera…
“Il linguista non si nutre di una sola radice…” – essendo un bel glottone… dai che sto imparando!
Lo sai, ancor più che Ennio, tu mi ricordi Italo (Calvino): infatti l’hai citato cinque volte.
Intese come password, “le parole sono più facili da dire e da dare, che da capire e mantenere.” – perché mutano nel tempo e, mentre le dici, sono già altro e altrove, scambiate come una camicia in lavatrice. E chi le ascolta capisce altro ancora. Nel ricordarle un altro ancora gli parranno. E poi svaniranno, ma non è così: si saranno tramutate in nuove forme.
“… appena trovato, l’etimo è già perduto…” – immanente come il resto; nulla v’è di certo se non l’incertezza. E nulla vi è di definitivo, nemmeno l’emozione che ancora sto provando nel rileggerti.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Paolo Fabbri, Segni del tempo, Meltemi, 2022