“La terra senza sentieri” di Raffaele Catà: Jiddu Krishnamurti e la filosofia
La ‘e’ è una congiunzione, un collegamento: questo ci tiene, con altre parole, a sottolineare l’autore. Jiddu Krishnamurti, d’ora in poi Jiddu, non è un filosofo, non è nulla di quel potrebbe paragonarsi a un maestro, è un compagno di studi con cui si condivide l’aula, e che sia il più o meno dotato, il più o meno problematico è tutt’un altro discorso.
Egli ha vissuto tentando “di comprendere come il pensiero sia sempre un ostacolo a se stesso in campo psicologico” – e chissà se si può azzardare un’analogia col conflitto rivelato da Marcuse fra Eros e Civiltà, fra libertà e catene (anche familiari) e fra quel che si vorrebbe essere e quel che si dovrebbe fare. Un primo passaggio operativo potrebbe essere, anzi, è la riduzione all’indicativo di tutti i condizionali.
Tale atteggiamento può condurre alla constatazione di “come il pensiero non sia in grado di effettuare la rimozione dell’impedimento costituito dalle immagini che esso stesso ha proiettato.”
L’ immagine, per Jiddu, è foriera di possibili inganni, in quanto crea una fittizia separazione tra l’osservatore e il fenomeno osservato: quanto la stessa meccanica quantistica giudica irreale.
Il saggio di Raffaele Catà, La terra senza sentieri, descrive alcuni aspetti del ragazzino che fu adottato dalla Società teosofica, dopo che alcuni dei suoi adepti avevano scorto uno strano giovane “malnutrito” e “svagato”, ma “circondato da un’atmosfera pura e luminosa” e da un’aura “radiosa e priva di egoismo” – e infine condotto nel loro eremo, presso cui Jiddu dimorò per anni, essendo diventato “il Buddha che ritorna, il Cristo redentore, il tanto atteso ‘istruttore dell’umanità’” – quanta responsabilità per quel povero giovane!
Da tale splendente prigione, Jiddu scelse di andarsene dopo svariati anni, quando disse: “la fede è una cosa strettamente individuale, e non potete e non dovete organizzarla. Se lo fate essa muore, si cristallizza…”.
Quel che conterà, nelle scuole ispirate dal suo pensiero, sarà: osservare, essere osservati, ascoltare, essere ascoltati, mai giudicati né archiviati per sempre nel pensiero.
“… occorre ‘morire a ogni ieri’, sbarazzandosi di ogni autorità psicologica e spirituale, compresa quella di Krishnamurti stesso.”
Il capitolo 2.1., La verità è una terra senza sentieri, è il luogo dove ogni scrittore e ogni lettore si confrontano, nel senso che entrambi esibiscono il proprio pensiero, questo triste ammennicolo a cui non si riesce a fare a meno. Oggi io ascolto Catà, domani Catà ascolterà me, e poi io di nuovo lui.
“… la ricerca della verità non è una vera ricerca…” – per me è una ricerca (togliendo quell’ambiguo aggettivo), un cammino in un deserto in cui c’è poca acqua, tanta sabbia e ogni tanto un bel miraggio che splende in modo così fantastico da farci correre nella sua direzione. Chiamiamo verità l’interpretazione di quel miraggio, ma la nostra è una traduzione, un tradimento, teso a tramandare in primo luogo a noi stessi quel che appare là fuori.
Eubulide di Mileto fu colui che disse: “sto mentendo”, che è il paradosso che tanto appassionò Godel, ma che per me non è tale. Dire che si sta mentendo è dire che la mente sta fantasticando, mens-mentis è lo spirito, la psiche, l’anima, l’immaginazione.
Mente deriva dal sanscrito man-yate, pensare, misurare. Si mente con la mente e null’altro. Nel caso che Eubulide fosse stato onnisciente, sarebbe esistito il paradosso. Dicendo che stava mentendo, intendeva che aveva trasformato un dato travisato in un’immaginazione in qualcos’altro di sempre più incerto. È come scattare una foto che riproduce una sembianza, che chiunque continuerà a distinguere da essa; e poi manipolarla al computer, variando i colori e le fattezze: una finzione deformata in un’altra.
“… asserire l’indefinibilità della verità non significa affermarne per questo l’inesistenza e dedurne così l’impossibilità della conoscenza” – bisogna prima attestare la verità, la quale è (al momento) non disponibile in magazzino… La conoscenza esiste, ma è soggetta alle regole della falsificazione popperiana. Sui dogmi religiosi, infalsificabili, come dice Pappagone, non metto lingua.
“Per Krishnamurti la verità è qualcosa oltre il linguaggio-pensiero” – il vero scientifico può essere attestato, fino a che non sarà falsificato: una verità immanente e caduca.
Analogia fra verità e quel che (forse non) succede al di sotto dell’assurdamente piccolo, lo spazio di Planck: nessuna teoria scientifica conosciuta può metter lingua laggiù poiché ogni misura è troppo estesa per poter quantificare alcunché, ogni legge scientifica non può invadere quel mondo (che forse nemmeno esiste, forse nemmeno è) così minimo e imperscrutabile.
“Egli era interessato a osservare qual è lo stato della mente che si mette in cerca della verità…” – ed è quello che non ho mai compreso realmente di lui (non sono mai stato un discepolo, limitandomi alla lettura dei suoi saggi). Quando seppi che era morto (e la stessa cosa capitò con Henry Miller) rimasi attonito l’intero giorno. Era venuto a mancare un caro amico.
In analogia con la meccanica quantistica, Krishnamurti indaga il rapporto “tra l’osservatore e l’osservato…” – che si mutano a vicenda. Questa si chiama, credo, confronto tra omogenee realtà, e per chi si affida all’animismo (io, ogni tanto), tra le varie anime gemelle e correlate. Ogni osservazione vede il sorgere di un entanglement. Tutto il resto è un mito infondato. Anche quello che ho appena descritto? Im(probabilmente) sì.
Talvolta mi chiedo che cosa stia succedendo in questo preciso momento all’albero di noci che si trova a ridosso del balcone di Pixuntum, oppure al tubo di scorrimento dell’acqua (asciutto ora, perché non vi è nessuno in casa da fine agosto). Quell’essere arancione (illusione derivata dal fenomeno della luce) im(probabilmente) ignora la mia esistenza. Egli però esiste, alla stregua di quei quattro alberi di fico, o sono cinque? Nessuno di loro pare saperlo, ma non gliene cala nulla. Pur non cogitando come credeva Descartes, loro esistono, anche se nessuno li sta osservando. Si tratta di miti? Im(probabilmente) sì. Se qualcuno andasse a controllare, li vedrebbe, oppure no. Chissà…
La verità, una terra senza sentieri – inenarrabile? Una terra afarensis? Scrive Borges: “Il giardino dei sentieri che si biforcano è un enorme indovinello, o parabola, il cui tema è il tempo: è questa causa recondita a vietare la menzione del suo nome…” – e ognuno di noi è un obliquo Ts’ui Pen, il cui infaticabile romanzo è costruito in tortuosi meandri.
Il tempo c’è finché non scade: a gh ē piò tèimp che véta! La verità è al di là dello spazio-tempo, o esiste? Qual è la differenza fra questi verbi, essere/esistere? Possiamo ipotizzare, elaborare ingenuamente, cosa sia l’essere. Chi può affermare che, al di sotto dello spazio di Planck, ci sia (oppure no) Dio, o il Diavolo, o entrambi, (non) lì intenti a fissarci con indifferenza, riversando su di noi il loro amore/odio, la loro attrazione/repulsione, il loro ordine/caos. Sono, anziché esistere? Quien sabe?, direbbe Tex.
Possiamo provare a definire l’esistenza come quel che riconosce le leggi fisiche spazio-temporali. Bohr afferma che la particella esiste solo allorché è attestata, quando l’ente entra in collisione con un suo consanguineo (e tutte le particelle lo sono, originate dalla medesima singolarità). L’esistenza è ogni volta correlazione, entanglement, è quel che si agita nello spazio-tempo, ricordando quel che si era laggiù, dove non esisteva il disordine che ora domina il cosmo, che etimologicamente è ancora ornamento dell’ordine, da cui deriva cosmetico. Che sia tutto soltanto un fenomeno estetico?
Nella singolarità che è, tutto tace ed è immobile; l’entropia è la misura del caos che rumorosamente esiste e che si zittirà soltanto alla fine, per sempre, nel gelo previsto dal secondo principio della termodinamica. Ordine e disordine sono le due eventualità a cui il cosmo dovrà infine adeguarsi, Enten-Eller. La scelta avviene continuamente, attimo dopo attimo, in attesa dell’incerta soluzione.
“Krishnamurti, tramite vaghe intuizioni, considerava la matematica come vicina all’‘ordine supremo’ di tutte le cose…” – Einstein credeva in un dio inteso come principio, e la matematica era il linguaggio del cosmo, anch’esso fallace, o meglio: indecidibile (secondo Godel), portatore di fiction, di paradossi. Pur essendo vicina all’ordine supremo di tutte le cose, non è coincidente, per via di quegli infingardi e beffardi (miei concetti mitici, non scientifici né saggi) spazi di Planck. Quanti ve ne sono? Infiniti? “Risposta non c’è, o forse chi lo sa, caduta nel vento sarà…” – cantava Luigi Tenco, traducendo Bob Dylan. Parole, parole, parole… Pensieri, pensieri, pensieri… Finzioni, finzioni, finzioni…
“Per Krishnamurti la coscienza è una proprietà di uno stato mentale, piuttosto che di un soggetto, e proprio il rendersi conto dei nostri stati mentali sarebbe la condizione per realizzare l’identità psicologica tra l’osservatore e l’osservato.” – un’unica anima, divisa in innumerevoli parti.
Jiddu sente come “… le proiezioni psicologiche e i residui del vissuto distorcano i nostri filtri cognitivi…” – non potendo rinnegare la propria massa, che rallenta la luce, che raggiunge la massima velocità nel vuoto assoluto, che non esiste affatto.
“Krishnamurti intuisce così come la fine dei condizionamenti possa avvenire tramite il riconoscimento e l’osservazione dei medesimi, e non mediante il pensiero o la volontà cosciente di provi deliberatamente fine.” – resta soltanto da capire come. Occorre “aver coscienza dei propri stati mentali…” – per “percepire l’uguaglianza tra osservatore e osservato.”
Jiddu è stato un naif, un nativus, ed è (forse) il filosofo più banale e ignorante di sempre. Nel mio appartamento vive da decenni un individuo che si augura di seguirne il percorso, che vorrebbe cominciare a imparare ad imparare dal suo esempio. Banale deriva dal francese ban, proclama del signore feudale, da cui anche bando. Essere il signore di me stesso, senza condizionamenti né miei né altrui, è il mio sogno, che alcune volte m’attira e che altre respingo. La passione, kam’a, che mi lega alle altre particelle m’ottenebra la vista, e il legame mi stringe e duole. Socrate sapeva di non sapere. Io ignoro persino se so.
“Krishnamurti intuisce che quando la coscienza diviene oggetto di se stessa è come uno specchio di fronte a un altro specchio o, meglio ancora, come l’insieme vuoto…” – il numero degli specchi è infinito? Esiste un numero degli specchi? Esiste uno specchio ed è quel che, mutato, vi si riflette?
Scrive Jiddu: “Diventando consapevoli del movimento della coscienza, possiamo osservare la divisione tra il pensatore e il pensiero, tra l’osservatore e l’osservato, tra il soggetto dell’esperienza e l’esperienza. Scopriremo che questa divisione è illusoria. Allora rimane la pura osservazione, che è intuizione senza nessun residuo del passato. L’intuizione priva di tempo induce un profondo e radicale cambiamento nella mente.” – chiede l’anonimo uditore: è definitivo?
“… individuo” è “ciò che è in-diviso e non un ‘io’ particolare.” – “privato” – privato dall’Altro.
“… pienezza dell’esistenza” – è quel che “può fondarsi solo su di un vuoto e un silenzio interiore…” – che lascia pertanto posto a quel che è Altro. Tutto l’esistente si può dividere, tranne quel che è. E tutto quel che esiste si può sommare al resto. Allontanarsi, disperdersi, avvicinarsi, riunirsi: entropia e gravitazione.
Intrigante (e facilmente scordabile tanto è complessa) la disamina di Catà delle varie scuole di pensiero orientali, fondate, a mio parere, sulla dicotomia (anche occidentale) fra idealismo e realismo. Leggo di Jayanta Bhaṭṭa, Prābhākara, Vasubandhu, Dignāga e di tanti altri saggi, senz’altro tutti ottimi ragazzi, ognuno un vero in-dividuo, per cui vale (opportunamente modificato) il detto Tót i santòun a gh ân la só pasiòun – nel caso mio specifico indico il termine più mirato di cajòun. Ognuno di noi è appassionato dalla propria in-dividuale kam’a (passione in sanscrito, da cui amore, amicizia).
“Nel Laṅkāvatāra Sūtra, ad esempio, si legge che attraverso la meditazione noi ci rendiamo conto che la nostra coscienza superficiale non è che un frammento di un più ampio tutto.” – correlata a quel tutto. Anche un nostro pensiero lo è, ed è collegato agli altrui. Le sinapsi, elettriche o chimiche che siano, sono strutture che consentono la comunicazione fra i neuroni: tutto si agita continuamente in quell’in-dividuo che si collega alla comunità degli Altri. Si può rallentare o addirittura fermare quel turbinio? Jiddu pensava di sì.
“La coscienza e la mente sono dunque differenti, non solo per l’Advaita Vedānta, ma per tutti i sistemi della filosofia indiana. La mente è generalmente considerata come un senso interno, un prodotto di natura materiale e deve il potere dei suoi poteri cognitivi alla preponderanza del sattvaguṇa in esso.” – dove “Sattva indica l’essere, l’esistenza in sé, l’essere in quanto ente.” Domando: lo spinterogeno, la candela, la coppia conica al ponte (che non so a cosa serva), il volante, l’auto stessa è un esistente, mentre il suo scorrere in circonvallazione è un essere?
E = mc2 cosa indica? La trasformazione reciproca di essenza in esistenza, di carburante in moto? Lo stato fisico della particella è cosa ontologicamente diversa della sua forma ondulatoria? Dio è un’onda? E il riso orrendo dell’idiota, cos’è?
Due concezioni filosofiche, due caitanya: una eterna e l’altra caduca. Fu senz’altro un saggio appassionato chi ideo questa divisione.
Jiddu “pur ignorando i riferimenti testuali della filosofia indiana e non essendo interessato ad alcuna comparazione tra le sue intuizioni e ciò che nei secoli è stato via via sostenuto dalle varie visioni indiane, è, pur tuttavia, in qualche maniera accostabile alle concezioni indiane della coscienza…” – e vedo Jiddu accostato a quel quid, lo sguardo che, quieto, nuota nel Nulla.
Emozionante è l’ultimo capitolo che tratta degli incontri fra Jiddu e David Bohm, il fisico che inventò l’idea della variabile nascosta, per cui il suo discepolo John S. Bell sconfessò sia Einstein (Dio non gioca a dadi col cosmo) che Bohr (Dio sa quel che fa, più o meno). Bell affermò che Dio gioca a dadi ma bara. E poi ci lasciò, quattro anni dopo Jiddu.
Io credo, purtroppo religiosamente, all’“‘intuizione creativa’ o ‘visione interna’” – in inglese: “insight” – e sono pronto a salutare con gioia ogni scoperta scientifica che spieghi come i neuroni possano rigenerarsi e rigenerare una visione, sempre nuova e illusoria.
Jiddu era sopito in me e il volume di Catà l’ha risvegliato, donandomi degli insight che hanno scatenato, esageratamente (ex-agerare, uscire dall’argine per inondare gli agros) la mia reazione.
È il fine della scrittura, della lettura, della riscrittura.
Come avrei gioito se Jiddu avesse conosciuto Jorge Luis Borges!
“… sostenere che esistono cervelli differenti non implica necessariamente, nella visione qui proposta, impegnarsi ad affermare l’esistenza di io diversi, ma solo delle loro immagini create dal pensiero”: Jiddu, Raffaele e Stefano saranno per sempre entangled nella medesima, comune, imago.
Il “vuoto pullulante di energia dell’ordine implicato…” – Bohm allude alle particelle virtuali, che non ce l’hanno fatta, e forse non ci tenevano affatto, a esistere, e senza di cui nulla (forse) esisterebbe: il (forse) è un sempiterno e salvifico obbligo.
Il dialogo fra questi due esistenti “ha aperto la strada ad altri dialoghi negli anni seguenti…” – infiniti sentieri che si biforcheranno sempre di più, come mi auguro.
Scorrendo la biografia, noto con impavido orrore di aver letto soltanto 11 libri di Jiddu (nonché L’Antiguru di S. Holroyd).
Leggendo il capitolo 2.2, mi ero accorto d’avere una profonda ignoranza della smisurata letteratura orientale, indiana in particolare. Lessi, senza comprenderli granché, Baghavat Gita, Tao te ching e I Ching, mentre assimilai con una certa ansia Bardo thodol. Mi devo preoccupare? Quel che basta per rimediare.
Sono fiero di ricordare un aneddoto raccolto in chissà quale opera di Jiddu, il quale si trova su un taxi insieme ad alcuni filosofi che discettano in modo accanito sulla consapevolezza. Un pedone attraversa la strada senza curarsi del traffico, per cui il taxista deve frenare all’improvviso. Solo lui e Jiddu si accorgono dello scampato incidente. I ciarlatori no.
Vorrei davvero cominciare a imparare ma spesso mi sento come quel tale a cui uno zio disse che avrebbe dovuto dimagrire, essendo ancora tanto giovane. Al che, quell’anima spiritosa rispose: vado a mangiare e poi ci penso!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Raffaele Catà, La terra senza sentieri, Om Edizioni, 2021
Un pensiero su ““La terra senza sentieri” di Raffaele Catà: Jiddu Krishnamurti e la filosofia”