“La versione di Barney” di Mordecai Richler: Jewish and Goyish
Sono giunto al termine della lettura del capitolo 5 de La versione di Barney di Mordecai Richler, e ho capito il senso di questo libro: non si può commentare alla fine, ma solo in itinere, andando sempre in avanti, scegliendo di volta in volta quale amarena staccare dalla pianta, sventrarla, succhiarla e buttare alla fine la buccia.
Sono fresco reduce dall’incontro (purtroppo solo ideale) col narratore statunitense John O’ Hara (Siamo di nuovo amici) e a volte mi pare che questo romanzo di Richler ne riecheggi un po’ l’abuso di antifrasi e di battute politicamente scorrette, poi m’accorgo che qui c’è un elemento in più: quello ebraico. Non so dire se O’ Hara abbia avuto israeliti fra i suoi antenati (nonnina semper certa est, nonninum numquam), però anche lui non scherzava, anzi lo faceva in modo eccessivo. La differenza è che qui l’autore, anzi, l’io narrante, è Barney Panofsky, ma di fatto è Mordecai Richler che funge da burattinaio. Mi auguro di non avere detto una banalità, una verità che in genere si tace per discrezione. Barney non è mai discreto, e io voglio essere peggio di lui, anche se non sarà facile.
Un certo Terry McIver in Il tempo, le febbri, scrive che Barney ha ammazzato un uomo. Scopo del libro è screditare tale assurda tesi. Barney dice di aver in mano “nella mia mano coperta di macchie brune, rugosa come un dorso di lucertola – il coso per la minestra, cui ancora non riesco a dare un nome.” Quando il figlio Mike gli chiede: “Intendi il mescolo?” – Sì!, finalmente ha la risposta che cercava. Al momento è messo così, Barney. Talvolta anche il suo lettore.
Un esempio della sua ironia: “Se appena hanno studiato a Oxford o Cambridge, o guadagnano più di centomila sterline l’anno, non sono più ebrei, ma ‘di origine ebraiche’. Che non è la stessa cosa.” Diverse allegorie, nella medesima pagina, sono ancora più espressive, ma l’unica è leggere, anche tutto d’un fiato, il libro. Perciò andiamo oltre.
Con una certa frequenza, a piè di pagina, spunta una nota di Mike, che corregge un’inesattezza, specie nelle citazioni, del suo svagato padre, che pur rompendo un po’, rende l’idea di quello che è forse, il principale suo problema, una specie straordinariamente comica di demenza senile. Barney ha però un pensiero più greve degli altri: “E se Miriam e io non ci fossimo più riconciliati?”.
Ora sta cercando di ricordare il nome di un autore russo che va per la maggiore: “Di nome faceva Max – anzi, Maxim – e di cognome come quei cani goyim, quelli della regina. Maxim Corgy? Cerchiamo di non farci ridere dietro. Uffa, come si chiamava l’amico di Bess? Porgy. Maxim Porgy? Assolutamente no. Ecco, Gorkij. Maksim Gor’kij.” – alla fine s’è ricordato dell’apostrofo!
Quando chiede al suo avvocato se può querelare il suo calunniatore, questi gli risponde: “Non saprei. Mi sembra che il tizio sia piuttosto bene informato.” – e ciò non mi pare di buon augurio.
“Era il 1989. Salto di palo in frasca, lo so. Ma il fatto è che mi trovo qui alla scrivania, con poco tempo davanti, la vescica costretta agli straordinari dalla prostata in fiamme, la sciatica che non mi dà pace, e un enfisema incombente.” – ed è giusto che sia tu, Barney, a dominare la tua narrazione.
T’imbatti in uno che sta peggio di te, Hymie, uno che “non poteva fare a meno di pensare che chiunque venisse dopo di lui era nato troppo tardi.” – affetto da una leggera forma d’egotismo, con tre figli, e la descrizione che fai di loro è tanto sontuosa quanto miserevole. Dopo alterne vicende, Hymie ti chiama a Parigi, ma a te scoccia lasciare la tua Miriam, che invece ti dice che le togli l’aria e che è un bene che tu te ne vada per un po’. Poi ti raggiunge, e Hymie la cattura con la sua verve, e in quel pranzo tu facesti un po’ la parte di Aznavour in Io tra di voi, anzi, di Raimondo Vianello in una sua celebre parodia.
Dici, e la responsabilità è tutta tua (io sono soltanto l’obbligato solidale che potrebbe pagarne il fio): “… il Dio toccato in sorte a noi ebrei è famoso per essere crudele e vendicativo…” – ma anche “il primo cabarettista giudeo.” – a cui i successori si sono ispirati. La scenetta dell’episodio biblico di Abramo e Isacco è assurdamente magnifica e anche a me pare di scorgere Geova che si spancia dalle risate in faccia a quei due bifolchi, padre e figlio.
“Sto divagando. Lo so, lo so benissimo. Ma questa è la mia storia, ed è anche l’unica che ho, quindi se non vi spiace vorrei raccontarla a modo mio.” – mi pare giusto.
Descrivi i tuoi genitori con un’assoluta mancanza di rispetto, ma sicuramente non racconti frottole. Voi ebrei, dici, siete come quel cane che “a forza di prender calci impara a stare in guardia. Noi calci ne prendiamo da duemila anni, quindi non è che siamo più furbi, siamo solo più attenti.” – anche il finto Messia è stato preso a sberle in faccia da altrettanto tempo e forse lui, nonostante l’etnia, ancora non si è svegliato da quel suo divino torpore.
“Sto andando ancora fuori tema. Parlo di tutto, tranne di quello di cui dovrei. Ma questa è la vera storia della mia vita dissipata, che è fatta essenzialmente di oltraggi da vendicare e ferite da rimarginare.” – e a volte non basta una vita; fatichi a ricordarti qualcosa che sta sulla punta della tua lingua, forse anche a ricordare dove sta la lingua, per cui dici: “Dio santo, fra poco non mi ricorderò neppure come mi chiamo io”.
Clara, la tua prima assurdamente assurda moglie, pittrice, era una che “tocchignava sempre tutto e tutti.” – e che, già da semplice compagna di vita, pareva vogliosa di tutti gli altri più che di te: “Sarebbe bellissimo andarcene da qualche parte a scopare, solo che c’è qui Rompolo…” – diceva indicandoti con scocciata indifferenza. Non è bella, ma schietta sì, quando ti apostrofa: “Oh, non mi hai mica comprato, sai. Con la mia passera ci faccio quello che voglio.” Farà una brutta fine, per cui ti scappa scritto: “… non avevo idea di cosa stesse succedendo. Se lo avessi saputo, forse sarei riuscito a salvarla. Mea culpa, come sempre. Merda, merda e merda” – e alôra màinla, direbbe l’arguta mamma mia. Mangiala!
Intanto insegui i nomi dei sette nani, scocciando il figlio, che si lamenta: “Porca puttana, papà. Non mi sono nemmeno lavato i denti.” – al che gli dici che speri di non aver svegliato Sally, che in realtà si chiama Dorothy. Mi sembri ben messo (antifrasi)…
Quando fai la conta delle cose che sai, scopri che hai tre figli: “Michael, Katee, e…” – per fortuna ti ricordi il tuo piatto preferito – “… lo spezzatino al rafano con latkes.” – e gran parte del tempo lo passo, per causa tua, a cercare su Google (per via dei tanti termini francesi, yiddish e di alcuni altri idiomi che spargi ovunque) e alla fine concludi con la solita banalità: “il mio unico, grande amore, si chiama Miriam…” – hai pochissime idee, ben confuse, ma quella sarà per te sempre chiarissima.
Vi entrano in casa dei poliziotti e vi chiedono i documenti: “… Clara si era rannicchiata tutta tremante sotto le coperte tirate fino al meno. In fondo al letto spuntavano i piedi, con le unghie ciascuna di un colore diverso. Un vero arcobaleno…” – ritornando poi a letto, ti dice, tutta incavolata: “‘Sti luridi vermi mi hanno vista la passera. Li ho beccati mentre la guardavano” – per fortuna che “i gendarmi ormai la stessero buttando in ridere…”.
Una necessaria confessione: “Una volta la Seconda Signora Panofsky mi ha detto che al posto del cuore al posto del cuore un grumo di rabbia” – idem per me, talvolta, chiedi ai miei amici, se ti capita d’incontrarne qualcuno.
Vai avanti e indietro, indietro e avanti, come pare a te. Ora sei a Parigi, 9 ottobre 1951 e leggi una “lettera di papà”, che non mi va di commentare. Questa è la mia reazione e decido io cosa trattenere e cosa gettare. Per esempio questo: “Se la mia prima moglie fosse ancora viva vorrei invitarla insieme alla Seconda Signora Panofsky e a Miriam a colazione da Le Mas de Oliviers. Sì, mi piacerebbe riunire intorno a un tavolo i tre naufragi coniugali dell’esimio dottor Panofsky. Di quel cinico, puttaniere, ubriacone, di quella ‘pianola’, come diceva Terry, e forse anche di quell’assassino di Berney Panofsky…” – prima o poi e finirai per dire tutto quello che sai di quell’irrisolto caso giudiziario.
“Se fosse vivo, oggi Boogie avrebbe settantun anni, e sarebbe credo ancora alle prese col suo primo romanzo, quello destinato a lasciare il mondo a bocca aperta.” – che è la molla che scatena ogni scrittura, puntare alle tonsille altrui più che alle proprie.
“So che alle undici deve venire qualcuno a intervistarmi, ma non riesco a ricordarmi chi, né perché…” – chiedi in giro, dai…
Dopo esservi vicendevolmente maltrattati, lei (la pazza) ti chiede: “E vuoi sempre bene a quella pazza della tua Clara, vero?” – e la tua risposta non dà adito a dubbi: “In tutta onestà, non lo so.”
scrivi: “Il mio problema è che non riesco mai a cogliere il nocciolo della questione. Ora, alla mia età fraintendere le ragioni degli altri può anche non essere più così grave, ma non capire perché io mi comporto in un certo modo lo è eccome.”
Hai un sacco di grossi problemi. I principali sono: sei un tifoso demenziale dell’Hockey e bevi troppo. Non ne ho parlato finora perché sei forse quello che ne trangugia meno degli altri, di alcol. Forse. La sposi, Clara, perché ti dice di essere incinta, anche se poi perde un feto (che è nero e non ti assomiglia). Forse vi lascerete, o forse no, o forse sì. No: lei pensa bene di papparsi troppi barbiturici. E crepa. “Tracannai d’un fiato quattro dita di vodka, quindi chiamai la polizia e l’Ambasciata americana.” E poi ti va di accennare per la prima volta alla “Seconda Signora Panofsky…” – che sarà sicuramente di una noia mortale di fronte alla prima.
Bello e penosissimo il tuo confronto col tuo mancato Primo Suocero. Chi ne vuol sapere di più legga il romanzo. Il pensiero per Clara ti impedisce di scrivere, se non a sgoccioli, come se fossi il malato di prostatite che sarai un giorno. Ora riprendo a leggerti. A domani, caro, per la mia reazione. L’ultima cosa che ho pensato, penando, prima di addormentarmi, è stata la frase di Heine che citi: “Un amico gli chiese di riconciliarsi con Dio. E la risposta fu: ‘Dieu me pardonnera. C’est son métier.’” – lo stesso che fu di mio papà, che colgo l’occasione per salutarlo. Riprendo a scrivere con la luce del sole, ché l’altra al momento non m’interessa.
“Ogni tanto, fatalmente, mi capita di incontrare la Seconda Signora Panofsky” – che sarà l’eroina, si fa per dire, non incontrastata della seconda parte del romanzo (1958-1060).
Spari le tue solite battutine: “Morty dice che adesso va molto gonfiarsi il seno con l’olio di soia. Strizzi un capezzolo e puoi condirci l’insalata.” – che non sono poi così male, ma che alla fine un po’ disturbano. Sono quasi 200 pagine che ne spuntano almeno due o tre a pagina. A spararle non sei solo tu, Panofsky, ma un po’ tutti. Non siete una massa di lestofanti, ma di pelandroni che parete tutti su un pullman in gita scolastica a fare a gara a chi le spara più grosse.
“… Ho riavvolto il film della mia vita, cercando di tagliare – e in qualche caso di rigirare – tutte le scene che non erano venute bene.” – e questo cosa vuol dire? Che la vita è un film e che il regista siamo noi, o meglio la nostra memoria ingannatrice e produttrice di fiction.
“La testa va per conto suo, e la memoria è confusa. Negli ultimi tempi ho pensato e ripensato, con uno sforzo degno di miglior causa, ad alcuni fatti del passato. E tuttavia non riesco a dominare i miei pensieri; so già che prima o poi un episodio increscioso verrà a turbarmi il riposo” – capita a chi mette in moto la sequela di atti che ogni volta ri-creano la nostra esistenza.
A pagina 219-220 spari una serie estenuante di calunnie per cui dovresti andare a processo, che non ripeto per evitare noie giudiziarie, mi chiedo solo come non t’hanno mai querelato (lo dico a Mordecai).
“La Seconda Signora Panofsky non leggeva per il piacere di leggere, ma per tenersi al corrente” – io leggo per il dolore di poterlo fare. Alla fine finisco anche per informarmi, ma si tratta di un fatto incidentale.
Parli dei tre fratelli Marx, ma non ti viene il nome del terzo. Ci pensa nella nota il caro figlioletto: “Chico. In molti film compariva anche un quarto fratello, Zeppo.” – e poi c’era Gummo, a cui il pur puntiglioso tuo consanguineo non pensa, attore teatrale, ma più un manager forse.
Secondo Irv, “… gli israeliani ormai sono gli unici antisemiti che ci rimangono…” – un’antifrasi, immagino; oppure no? Precedentemente, ma non chiedermi dove, perché ho cercato un po’ indietro e non ho trovato e, dopo il tuo ho altri, libri cogenti da fare miei, il tuo amico semita si lamentava che l’antisemitismo era in calo e che la cosa rendeva problematica l’affiliazione di elementi nuovi nella sua congrega, il che significa che, anche in questo fatto degli ebrei, c’è bisogno di massa da ardere per creare nuova energia, che sia almeno potenziale. “Presto Israele diventerà un paese goyish come qualsiasi altro…” – e ora tocca a te, lettore di un lettore, di cercare il termine su Google.
Barney, hai deciso di sposarti con questa fantomatica “Seconda Signora” che porta il tuo cognome e poco più. Vedi un tesoro di ragazza e chiedi chi è, e quello ti dice di vergognarti, ma come ti sei appena sposato (si chiama Miriam)! Inoltre, la tua seconda neo-sposina, tutt’altra tempra della pittrice!, ti dice, un po’ indispettita mi pare: “Non voglio più vederti andare dal barista per farti dire il risultato della partita. È la sera del nostro matrimonio. Lo trovo offensivo…” – conosco un tifoso del Rovigo Rugby che farebbe come te. Ricordi con precisione (si fa per dire) chi quel fatidico giorno segnò (“Geoffrion” e “poi ha segnato Bonin”); poi quel fetente di tuo figlio ti corregge: “fu Pillford, su azione Armstrong-Brewer” – su Bonin invece c’hai preso; tuo figlio è probabilmente più avvezzo all’uso dei motori di ricerca, e arriva a indicare persino il minutaggio esatto.
Sempre quella magica serata, “avevo visto Miriam circondata dal solito codazzo di ammiratori” – e la cosa non ti fa piacere, ma capisci che devi solo aspettare il tuo turno, ma oggi ti stai sposando, non so se te lo rammenti. La becchi finalmente e le proponi di fuggire con te. Lei non è entusiasta della proposta e ti dice: “D’accordo. Passiamo prima a fare un salutino a sua moglie?”. Ti sta andando buca, ragazzo.
Confessi a Boogie (che è ancora al mondo) di essere “perdutamente innamorato”. Non ti sei accorto che alle tue spalle incombe la tua Seconda non Meglio Indicata Mogliettina, che fa: “Anch’io, tesoro” – e poi ripete “Anch’io”. Finzioni, illusioni, magie dell’amore! O balle cosmiche?
Insegui Miriam sul treno che la dovrà portare a casa, abbordandola come fa una nave di pirata inglese a un galeone spagnolo pieno d’oro. Tralascio la schermaglia (anche in questo caso basta leggere il libro). Da segnalare l’ennesima nota del solito puntiglioso figlio che, dati alla mano, mette in dubbio orari e situazioni.
Scrive: “Eppure, quando ho sottoposto queste incongruenze a mamma, le sono venute le lacrime agli occhi. ‘È tutto vero,’ ha detto ‘tutto vero’ dopodiché è scoppiata in singhiozzi, e non me la sono sentita a indagare oltre.” – e qui dimostra che, come si dice dalle mie parti, questo esegeta, preciso come un dito ficcato proprio lì, non è il più astuto a casa sua. La nota termina: “Ho scritto due volte alla Canadian Pacific per sapere a che ora fosse effettivamente partito quel treno la notte del 9 aprile 1959 ma sono ancora in attesa di una risposta” – speriamo, dai, che tutto prima giunge al suo termine (e poi se ne va e poi ritorna): tót à fîn.
La tua “prima notte di nozze” sei gonfio d’alcol e di miseria umana, la tua Seconda Non So Più Cosa ti dice che devi solo dormire un po’, tu neghi, “accarezzandole il seno” – subito prima, a quanto pare, “di crollare riverso in poltrona e mettermi a russare.”
Riporti un esempio di mollybloomiana telefonata della tua Seconda Cara a mamma sua, tre pagine fitte di sciocchezze e normalità, che sarebbero senz’altro piaciute al più triestino dei dublinesi.
Sei una miniera di termini ed è grazie a te che ho avuto il modo di conoscere questa “quiche lorraine”, una specie di pizza con l’erre moscia. Ne ho parlato in famiglia, ma dubito che qualcuno abbia la voglia di confezionarmela. La cercherò io a Parigi, dove prima o poi fuggirò.
Un tuo quesito che vorrei girare all’amico Haim Baharier: “Vorrei sapere perché il vecchio re David aveva il diritto di portarsi a letto giovani donne nubili e io no.” – abbozzo una risposta: per la stessa logica per cui c’è chi ha vinto al Superenalotto e chi no; poi c’è anche chi, come me, non ci ha mai giocato, ma siamo una minoranza. Altro regalo che mi fai: “Mi sono portato a letto la Vita di Samuel Johnson, libro da cui non mi separo mai – più che altro, casomai spirassi nel sonno, è quello che vorrei mi trovassero sul comodino” – casomai mettessi i piedi verso l’uscio (hai capito l’allegoria, vero?), non me ne fregherebbe più di nessun libro, essendo impegnato a inseguire le luci in quei tunnel, però è ancora grazie a te che mi sono deciso a sfilare il primo dei tre (ahimè non cortissimi) tomi di questa serie che acquistai a Inchiostro e Nuvole il 22.06.2015, traduzione di Ada Prospero, e che da quella data mi guardano storto come per dirmi, E allora! Ci vuoi leggere o no?
A pagina 281 quel rompiballe di tuo figlio mi rispedisce a pagina 26 (è peggio di un cartellino degli Imprevisti di Monopoli) perché attesti alcune tue incongruenze (il tipo di gonna di “Mrs Ogilvy” e il motivetto che canticchiava, che in effetti risultano diversi a seconda del tuo umore, ma più che altro del tuo Alzheimer).
La tua Seconda Figlia del tuo Secondo Suocero ti dice: “Papà vorrebbe farti entrare all’Elmridge” – e al solito non capisci che è un modo per farti entrare nel loro ristretto Circolo di Stronzi Blasonati.
A pagina 296 il tuo amico Norman, che beve più di te, dà la spiegazione prima, seconda, nonché ultima del tuo romanzo, chiamiamolo autobiografico. Sintetizzo. Dice che se qualcuno lo bendasse e poi qualcun altro, uomo o donna, gli confezionasse un igienico sesso orale, per lui sarebbe lo stesso: “Magari avrei un orgasmo lo stesso, chissà. A volte ci penso e mi viene quasi da vomitare. Ma scommetto che sarebbe uguale anche per te.” – per me no: anni e anni di studi letterari ancora non mi hanno confermato (né falsificato) il dato che l’Immaginifico Gabriele si fosse fatta togliere una costola per auto-bocchinarsi. Da che mondo è mondo per eiaculare occorre usare la fantasia e, nel caso in parola, nonché accarezzare i capelli dell’omaggiante. Ergo, non comprendo il busillis. Però capisco che in questo Barney Circus quello che conta è la fisicità, mentre l’anima c’è, come no, ma rimane a rispettosa distanza. Prima i cinque sensi, poi viene il resto.
Norman è uno yankee che soffre: “Barney, Barney, non so più chi sono, né cosa sto combinando. Mi siedo sul cesso e scoppio in singhiozzi, e devo aprire i rubinetti per non farmi sentire…” – e secondo il mio parere c’hai bisogno di un’omelia di padre Aldo Bergamaschi che finirebbe poi col chiederti, ma perché Dio ha creato il tuo pirulino? E tu risponderesti in modo analogo a quella ragazza che a una simile domanda, mirata però alle gambe, gli disse: E adesso non mi venga a dire che servono per camminare! Quel che vi manca, ragazzi, è una teleologia, anche atea come un ossimoro!
A pagina 303, rivendichi le stesse licenze di Laurence Sterne, anche se sei conscio “delle scemenze scritte in quella che sono giunto a considerare – con una certa magnanimità, e una scappellata al cardinal Newman – la mia Apologia pro vita sua” – e chi sarebbe costui?; ironizzi anche su Thomas Hardy, John Updike e su quella P.D. James che tante volte ho visto spuntare dalle bancarelle dei libri usati a un euro e mi sono sempre chiesto chi cavolo fosse, una “scrittrice che peraltro ammiro”, dici tu, una puntigliosa, che prima di arrivare al dunque “ci fa sapere tutto sul colore e il tessuto delle tende, la provenienza del tappeto, le sfumature della tappezzeria, la qualità e il soggetto dei quadri alla pareti, il numero e il modello delle sedie.” – una cagacazzo di talento, per dirla alla Giorgio Bocca, “una gran baleboste, o padrona di casa che dir si voglia” – m’hai incuriosito, la prossima volta che m’imbatto in un suo volumetto e sentirò la sua vocina che mi dice: comprami!, giuro che non mi metterò a fischiettare con nonchalance. Grazie dell’input vecchio.
Tralascio di riportare la risposta al quesito: “Ma tu lo sai perché gli scozzesi portano il gonnellino, Barney?” – in quanto la risposta raggiunge a mio modesto parere il punto più basso della tua narrazione, l’imo, che più che profondo mi pare molto scuro. Lo sai che è facile imitare l’umorismo ebraico? Basta fingere di esserlo, usando il metodo Stanislavkij.
La tua donna, Barney, scopre che sei un donnaiolo, o meglio è dire che subodora la cosa. Mentre te ne parla, a te urge leggiucchiare sul giornale le notizie inerenti all’ultima partita della tua squadra di hockey. Lei se ne accorge e s’incavola come una iena ebrea (simile in tutto per tutto alle giapete).
Un giorno la medesima “venne a picchiare alla porta della doccia”, per dirti che c’era il tuo puzzolente genitore al telefono, che poi ti dice che “Ha finito”, chi?, tua madre, che è appena morta.
Grazie a te scopro l’esistenza di Al Jolson, attore ebreo che si camuffava da negro, con la g. La mia teoria è che se mischi sessualmente un ebreo con una negra, o un colored con una figlia di Sion, secondo la nota equazione (Sem + Cam)/2 = Jafet, nasce un ariano. Non ho però alcuna documentazione idonea a comprovarla.
Quella borsa umana di tuo figlio annota che tuo padre non poteva ancora collezionare i numeri di Playboy, che pubblicò solo a fare tempo dal “dicembre 1963” (col paginone centrale dedicato a M.M). Basta capire il senso: collezionava varie riviste, tra cui, a partire da una certa data, Playboy.
Quel noto scoreggione viene allora alloggiato in un appartamento, dove ha una tresca (buon sangue giudeo non mente) con una domestica di “quarantott’anni, e due tette” che erano “dure così”, dice il tuo papà. La quale venere viene prontamente allontanata dalla tua Seconda Rompiballe, che intima alla nuova donna delle pulizie “di scendere nell’appartamento di Izzy solo quando il suo occupante era fuori.” Risultato è che quell’etilista una decina di giorni dopo “morì di infarto sul lettino di un salone di massaggi” – sic transit gloria iudei.
Una notizia che avrà delle serie conseguenze per tutti, lettore compreso: “Boogie giaceva fra le lenzuola fradice, e stava troppo male per scendere a pranzo” – e tu, gran pezzo di ebreo (il che non vuol dire niente: è come dire gran pezzo di reggiano) che non sei altro, lo lasci solo, mezzo andato com’è, a casa, solo con la tua non troppo adorata mogliettina, la quale ha appena scoperto la più assurda delle banalità, o meglio: la più banale delle assurdità, cioè che l’hai tradita. Quando vai a casa e per caso scopri che la stessa si trova ignuda nel letto del presunto prossimo grande scrittore yankee, nonché tuo affezionatissimo amico, riesci a dire, non trovando altre parole: “Tu… tu mi hai tradito!” – e con tua moglie è finita, col tuo “migliore amico” non ancora, perché con lui ti ubriachi un po’ svogliatamente, spari fesserie, e poi forse fai quello che l’io narrante di Dalle nove alle dieci disse al lettore che avrebbe fatto quel che doveva fare. Prima che tua moglie esca (per sempre o quasi) dalla tua vita, le dici (e lei ricorderà quando sarò chiamata a testimoniare in tribunale): “… penso di ucciderlo, ecco come penso di regolarmi, e dopo verrò a cercare te e tua madre.” – e certi lavori vanno fatti quando il ferro è ancora caldo.
La terza parte (Miriam) è dedicata all’unica donna che hai adorato (non ho scritto amato) in vita, la donna che ti ha dato i tuoi tre figlioletti. “Non credo di averglielo mai detto…” – Barney non è un fenomeno di memoria però – “… ma avrei potuto passare la vita a guardarla, beandomi del suo splendore.” – non so se però se avresti rinunciato per lei a alcol, sigari Montecristo e all’hockey. Posso però ammettere che in qualsiasi momento del tuo libro de-formato (poi ti spiego in che senso) di ricordi, qualsiasi argomento ti conduce prima o poi a lei; la seconda più citata delle tre mogli, ma a debita distanza, è Clara. La Seconda è soltanto la Terza e ultima tra cotanto seno. Scrivi, a pagina 377, “Miriam era stato il mio terno al lotto, la mia redenzione, il mio Oscar.” – che poi ti è stato ritirato, a quanto ho capito.
“Rettifico quanto ho detto in precedenza. Per quanto ondivaghi, questi ricordi a qualcosa approdano.” – come tutti i fiumi di parole, di gesti, di liquami vari, prima o poi incontrano il mare.
“… mi sono sempre salvato da tante situazioni difficili grazie a un sistema di bugie piccole grandi e medie. Mai dire la verità. Anche se ti colgono sul fatto, negare, negare sempre.” – Borges parlava di Finzioni, i testimoni di Geova di Verità che conduce alla Vita Eterna: qui ognuno deve scegliere, Enten-eller, Aut-Aut. Io scelgo te (almeno finché ti sto leggendo).
Colgo, a pagina 424: “Dio l’abbia in gloria. Ah, tra parentesi. Sto pensando di commettere un altro omicidio.” – che importa aggiungere che “la vittima in pectore era Blair.”? – colui che si matrimonierà o la tua amata terza mogliettina. O si accompagnerà, non risulta chiaro: colui che si coricherà al di lei fianco, per farla corta.
A pagina 426 parli per l’ennesima volta della “fossetta” di Miriam. Secondo me fu quella la singolarità che maggiormente ti attirò nel suo vortice.
“Sono tre anni che Miriam se n’è andata, ma continuo a dormire da una parte del letto, e appena mi sveglio la cerco. Miriam, mia adorata Miriam.” – tót i cajòun a gh ân…? La só pasiòun!
Lei non è meno sarcastica di me quando tu le dici che le consenti di non aspettarlo nel caso venissi condannato all’ergastolo (ah!, m’ero scordato di dire che sei ora in prigione per il presunto assassino di quel gran genio ciarlatano di Boogie, misteriosamente scomparso dopo che aveva alloggiato nella tua casetta sul lago e scopato la tua Seconda Moglie).
Miriam ti dice: “Ti pregherei di asciugarti la lacrimuccia, Barney. Se c’è una cosa che non ti si addice è la nobiltà d’animo” – occorre dire, a sua e a tua discolpa, che sei uno che anche quando spari delle balle, chi le sente, pur subodorando l’inganno, non può fare a meno di commuoversi.
Andiamo ora in aula, che ci stanno aspettando. Devo dire che i due azzeccagarbugli sono molto meno pesanti dei loro colleghi che hanno ammorbato centinaia di pagine di Una tragedia americana, di Theodore Dreiser, e di ciò ringrazio tu-sai-chi. Per un ammalato di scordarite acuta ti ricordi per bene (oppure le re-inventi?) le varie arringhe!
Sei molto umano, a pagina 441, quando scrivi: “Brutte notizie. Se date un’occhiata a pagina uno di queste mie memorie intermittenti…” – mi rifiuto! Ricordo benissimo che dicevi che scopo del presente papiello era di discolparti delle accuse fatte da quel tuo mancato amico che ora è venuto a mancare: McIver autore di un pamphlet con cui egli ti accusava dell’assassinio di quello scrittore precocemente fallito. Ora che anche McIver ha messo i piedi in direzione dell’uscio, confessi: “… ho pianto come un vitello…” – i quali non piangono mai nemmeno quando li conducono al macello.
Sul fatto che sei un assassino, dici: “Penso di no, ma a volte non ne sono più così sicuro. No, non l’ho ucciso. Non avrei potuto.” – e questo mi ricorda un dialogo che ebbi con un mio conoscente bipolare che era stato con una troietta: Avrai, usato il preservativo, spero. No! Come no!? Certo che l’ho usato! L’hai usato, allora? No…
Alla fine confessi: “… lo sono davvero, colpevole, anche se il mio è stato un peccato di intenzione…” – e di intenzioni, buone o cattive, dicono che è lastricato il sentiero che conduce all’inferno. Fai poi la telecronaca di una visita neurologica con un curiosissimo dottorino che vuol sapere da te quel che interessa a lui, domande del tipo che giorno è, che mese è. Quando assistevo a queste penose messe in scena tra lo specialista del reparto neurologia e la mia mamma, ricordo come lei ridacchiava a quel tipo di domande. Al quesito che stagione è, di solito ci azzeccava una volta su quattro. Ricordo la sua risatina quando le fu chiesto di gettare alle sue spalle un biglietto su cui le aveva chiesto di scrivere il primo pensiero che le veniva nella sua (ormai devastata) mente: Roba da mât, avrà pensato.
A proposito di dementi, a pagina 466 nel tuo dialogo allucinato col tassista m’è parso di cogliere un errorino nelle battute, cioè due tue dietro fila… “Ho detto di no”; “… sa quella libreria all’angolo”, poi il tassista dice: “Se sta per vomitare me lo dica, per favore, così mi fermo e non mi sporca la macchina.” – c’è un refuso oppure ormai sono partito anch’io?
Nel postscriptum di tuo figlio Mike, egli ammette: “Forse proprio perché non abbiamo mai comunicato molto, sono quello che soffre di meno al vederlo ridotto così.” Ebbe l’incarico di curare con note varie la pubblicazione del libro, e non mi pare che l’abbia fatto volentieri. Dice ancora: “Finché gli è rimasto un minimo di felicità Barney Panofsky ha mantenuto fede alle proprie convinzioni. E cioè che la vita è assurda, e che nessuno di noi, in pratica, capisce gli altri.” – e allora che senso ha essere sinceri e fermi nelle proprie convinzioni?
Tu sei uno che gira sempre attorno a qualcosa e a quel qualcosa tu pari come un satellite fisso, a volte stabile (perché mantieni la stessa velocità dell’Altro), a volte no, e i problemi nascono quando cambi all’improvviso il ritmo.
Vuoi ridere? Ho passato ore a cercare su Google i tanti termini yiddish che dissemini nel testo, per poi scoprire che, a pagina 487 e seguenti, c’è il puntualissimo glossario.
Per me tu sarai sempre a gute neshome! Fât a tó môd, però; un’ultima curiosità perché lo Yom Kippur prevede un digiuno di venticinque ore? Vi mettete avanti di un’ora per quello successivo? Ma vi rendete conto che nel 1973 ci fu… Non parliamone, dai! Altri misfatti incombono!
Fui parecchio sorpreso (nonché ammirato) quando lessi in Il cappello scemo di Haim Baharier che arca in ebraico è tevà, che significa anche parola. E tu di parole che veleggiano te ne hai sparate davvero tanto. Chissà quando riuscirai (con me appresso) a veleggiare sul monte Ararat.
Scusami, caro, se talvolta sono stato un po’ puntiglioso e provocatorio, ma sappi che la colpa originale non è mia, né del tuo pignolo figlioletto, né tua, ma è di Quello Là, il Vecchio Mordecai, il nostro comune Dominus che ci piace ogni tanto punzecchiare.
La Colpa Finale deve però ancora giungere a destinazione, e non finirà mai di tormentarci, almeno finché ci sarà un lettore che la va cercando in ogni riga o versetto scritto da Chissà Chi, In Fondo.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Mordecai Richler, La versione di Barney, Adelphi, 2000