“Ivanhoe” di Walter Scott: un eroe al momento non disponibile
Devo questa lettura di Ivanhoe, capolavoro di Walter Scott, a Elias Canetti che un giorno mi confessò (tra le righe de La lingua salvata): “Ma quella non è storia! Sono soltanto degli stupidi cavalieri con le loro stupide armature!” Quel dì mi venne da sfidare l’inclito Maestro di lettura, promettendogli che gli avrei dimostrato che non v’è nulla di stupido che non sia, al contempo, stupefacente.
Comincio a reagire per iscritto al termine del Capitolo XXX. Poi spiegherò il perché (o almeno ci proverò). Primo insegnamento ricevuto: il mondo è un’accozzaglia di privilegi mascherati da idealismo: “Tutti i sovrani di stirpe normanna avevano sempre mostrato una smaccata predilezione per i sudditi normanni” – gli altri, gli aborigeni anglosassoni, erano umani di serie B, che già dovevano baciarsi i gomiti se non erano costretti nelle riserve dai conquistatori francofoni che li avevano asserviti. Il loro linguaggio franco-normanno era di matrice latina, per cui anche oggi gran parte dell’inglese presenta un gran numero di vocaboli di tale origine.
Secondo grande insegnamento: “gli inevitabili rapporti tra i padroni della terra e gli esseri inferiori e oppressi che la coltivavano diedero luogo alla graduale trasformazione di un idioma, composto dal francese e dall’anglosassone, grazie al quale potevano reciprocamente comprendersi.” – impartendo comandi da una parte, assolvendoli dall’altra.
Descrizione di paesaggio che potrebbe aver ispirato il lacustre Manzoni: “Il sole stava calando su un’erbosa radura della foresta di cui abbiamo parlato all’inizio del capitolo. Centinaia di tozze querce fronzute, che avevano forse assistito all’imponente marcia dei soldati romani, stendevano i loro lunghi rami nodosi sopra un folto tappeto d’erba deliziosamente verde…” – e Walter continua poi per un bel po’, addentrandosi anche nella descrizione di alcune misteriose figure “che completavano questo paesaggio” e del loro abbigliamento allieta con minuta dovizia di particolari sia lo scrittore che il lettore.
Quando Wamba (il buffone) e compagnia bella parlano, usano la lingua anglosassone che “era parlata da tutti i ceti inferiori, eccetto i soldati normanni e i servitori personali dei grandi feudatari.” E, poiché “questa conversazione in lingua originale sarebbe di difficile comprensione per il lettore d’oggi, e per sua utilità ci sia consentito presentarne…” – un’opportuna traduzione.
A pagina 10 v’è una delle tante, a volte lunghe, a volte quasi interminabili N.d.A. Questa riguarda l’egoismo di Re Guglielmo che oppresse le genti con le due “Leggi forestali”, con cui limitò all’inverosimile la possibilità venatorie ai disgraziati (e proletari) anglosassoni.
Particolarità linguistiche: “… quando la bestia è viva ed è affidata a un servo sassone, è chiamata con il suo nome sassone, ma diventa normanna, ed è chiamata porco quando è portata nella sala del castello al banchetto dei nobili…” – e lo stesso capita al povero bue che si normannizza in “Boeuf” quando è servito in tavola. Quante cose stiamo imparando, eh, Elias mio?
Dice Walter in una nota: “Io non pretendo di accampare il diritto a simili licenze della mia professione, ma non consento nemmeno che l’autore di un romanzo storico moderno sia costretto a limitarsi a quei soli elementi di cui può essere dimostrata l’esistenza nei tempi da lui descritti, e ad attenersi a ciò che è plausibile e naturale e non contiene anacronismi.” – Walter, sento che Ludovico Ariosto, che tante ne sparacchiava delle sue, nel vero senso della parola (per esempio quando scrive di Cimosco, “che s’ha fatto/ portare intanto il cavo ferro e il fuoco”, cioè un archibugio), annuirebbe, forse anche bofonchiando, alle tue sagge parole.
Era un “travagliato periodo” in cui “nessuna abitazione” poteva essere “priva di difese”, se non voleva “correre il rischio di essere saccheggiata e incendiata nello spazio di una notte.”
Ulteriore notiziuola che merita una standing ovation: lords significa “distributori di pane”; vale la pena di leggere la N.d.T. che, precîş cme un dîi in dal cûl, ti corregge: “significa ‘guardiano del pane’” – che vuol solo dire che, se non lo custodisci, ti scorderai prima o poi di distribuirlo.
Una nota ittico-antropologica: “tranne forse i pesci volanti, non esisteva razza sulla terra, nell’aria o nell’acqua, che fosse oggetto di una persecuzione così incessante, generale e implacabile come quella che subivano gli ebrei in quel periodo” – di questo fanne pure cenno alla tua mamma spagnola, caro Elias.
“Normanni, sassoni, danesi e britanni, per quanto ostili fossero tra loro, si disputavano il vanto di chi detestava maggiormente questo popolo, perché odiarlo, ingiuriarlo, disprezzarlo, depredarlo e perseguitarlo era considerato un dovere religioso.” – o tempora o mores!, ma anche, per antifrasi: nulla di nuovo sotto il sole! La colpa maggiore di quei semiti era che “il poco denaro contante disponibile nel paese era nella maggior parte nelle mani di quella gente perseguitata.” – e ‘sto fatto dovrà essere prima o poi spiegato a chiare lettere e insegnato nelle scuole di ogni ordine e grado. Nonostante le tasse esose e ingiuste, “gli ebrei accrescevano, moltiplicavano e accumulavano ingenti somme di denaro, che trasferivano dall’uno all’altro grazie alle lettere di cambio, invenzione di cui, a quanto dicono, il commercio è loro debitore, che consentivano di trasferire da una paese all’altro le loro ricchezze, così che, quando erano minacciate in un posto, potevano essere messe al sicuro in un altro.” – beh, che dire? Sembra quasi che, in assenza di giudei, sparirebbe la moneta e si tornerebbe al semplice baratto delle risorse. Una chiosetta: gli ebrei non sono cittadini serie b o c. Sono parassiti del corpo sociale che però servono se si ha bisogno di finanziamenti.
Ragionamento molto cattolico: “difendere un ebreo contro un saraceno non può essere giudicato indegno di un cristiano.” – di un gesuano no, s’azzarderebbe a dire Vito Mancuso.
A pagina 78, nella N.d.T. n° 7 si dice che “è improbabile che il principe Giovanni potesse nutrire la speranza di un prestito dagli ebrei di York, massacrati in massa nel marzo del 1190”: R.I.P.
“‘Sono più pronto di voi ad affrontare la morte’ rispose il Cavaliere Diseredato, perché era con questo nome che lo sconosciuto si era fatto registrare sull’albo del torneo”: allora non erano in uso carta d’identità, patenti e tesserini sanitari. Ma chi era costui? Qualche sospetto un lettore avveduto lo dovrebbe pur avere, anche senza consultare Wikipedia…
Come succederà a Wembley meno di un millennio dopo, “l’ovazione del pubblico, l’agitare di sciarpe e fazzoletti, le generali acclamazioni degli spettatori attestavano il loro interesse per questo incontro, il più equilibrato e spettacolare che si era svolto quel giorno. Ma non appena i cavalieri ebbero ripreso il loro posto, il clamore degli applausi si spense in un silenzio così profondo e assoluto che la folla sembrava aver quasi paura di respirare” – sto pensando a quando un impavido attaccante è lì per tirare il calcio di rigore che potrebbe sancire la vittoria della sua squadra. Chi, fatalmente, perse “fu all’altezza della sua fama, e se non si fossero spezzate le cinghie della sua sella, forse non sarebbe stato disarcionato. Ma proprio questo accadde, e sella, cavallo e cavaliere e cavaliere rotolarono a terra in una nuvola di polvere.”
Si è fatto un nome, si dice. Senti un po’, Elias: “… tra i tanti e bizzarri giuramenti che i cavalieri si imponevano a quei tempi, nessuno era più frequente di quello che li vincolava a mantenere l’incognito per un certo tempo, o fin quando non era compiuta una particolare impresa.”
Si ha una mezza idea su cosa tema il Principe Giovanni, che regna come un despota nell’isola: egli trema “al pensiero che dalla fessura della visiera di quell’armatura gli giungesse in risposta la voce profonda e terribile di Riccardo dal cuore leonino.”
Dice bene Gurth, quando afferma di non temere “di essere scoperto da nessuno, se non dal mio compare Wamba il giullare, del quale non riesco mai a capire se è più furbo o più matto.” – quello è un tipo che dice sempre quello che pensa ma che non ignora che, come dicono nel Cilento, chi rice a verità vol esse accisu e, per precauzione, la mette dapprima in ridere e poi vede un po’ come butta.
Walter, quando scrivi, mi pare di vederti comodamente seduto a casa tua, ma sei sempre un ottimo anfitrione quando affermi: “Dobbiamo ora spostare la scena nel villaggio di Ashby, o piuttosto in una casa di campagna nelle vicinanze, di proprietà di un ricco israelita.” – come fa un ospitante quanto invita gli ospiti a seguirlo in una stanza adiacente al salone da pranzo.
L’ebreo, mentre conta i denari, pare che preghi: “settantuno, settantadue… il tuo padrone è un bravo giovane… settantatré… un ottimo giovane… settantaquattro… questa moneta è stata limata nel mezzo… settantacinque… e questa sembra un po’ leggera… settantasei…” – a quaranta Giuda s’era già impiccato. L’ebreo ne voleva donare uno al latore della presente sommetta, ma sfortunatamente per Gurth il tintinnio fu squillante e autentico; “lo zecchino era pieno, nuovo di zecca, e anche un tantino superiore al suo peso.” – e se lo tenne, quel miserabile quanto opimo giudeo.
Gli israeliti (ma quanti nomi hanno!) non tengono mezzo misure: o fanno ridere (coi loro cappelli scemi, eh Haim Baharier?); oppure fanno incavolare, per non usare un’altra parola. Intanto, alla fine del Capitolo XII, si scopre che il Cavaliere Diseredato è, ora malamente trapassato dalla “punta di una lancia”, il nostro eroe, Ivanhoe.
Un tale, chiamato (che sia un nom de plume?) Locksley compie un atto che mi pare di aver già sentito da qualche parte. Durante una sfida che deve stabilire chi sia il migliore arciere, la sua freccia “andò a colpire quella dell’avversario, frantumandola.”
Dice un certo de Barcy all’amico (forse è meglio chiamarlo solidale) Waldemar (che c’entri Voldemort?): “del principe Giovanni tu pensi ciò che penso io, che è troppo debole per essere un sovrano di polso, troppo dispotico per essere malleabile, troppo arrogante e presuntuoso per essere popolare, troppo volubile e insicuro per essere a lungo un sovrano di qualsiasi tipo…” – ma ideale per chi intende “elevarsi e fare fortuna, e perciò tu lo aiuti con la tua politica, e io con le lance dei miei compagni di ventura.”
Walter, almeno a parole, sei anche un ingegnere edile: “Quando era stata intera, la costruzione non aveva superato i sedici piedi di lunghezza per dodici di larghezza, e il tetto, piuttosto basso in proporzione, era posato su quattro archi concentrici che si alzavano dagli angoli, ciascuno sostenuto da un tozzo e robusto pilastro, e i costoloni di due degli archi erano ancora in piedi, anche se il tetto era crollato nel mezzo, mentre era rimasto intatto sugli altri.”
“Le Noir Faineant” – il cavaliere nero detto fannullone dalla folla, perché aveva notato una sua neghittosità nel torneo, che s’alternava a gesti d’immenso valore, si presenta a un eremo, chiedendo ospitalità, anzi, esigendola. L’eremita, messo alle strette, gli apre il portando, rivelando d’essere tutt’altro che patito, anzi: “I due uomini si sedettero, guardandosi gravemente l’un l’altro, ciascuno pensando di aver realmente visto una figura più robusta e aitante di quella che gli stava di fronte.” – ad Amalfi, per antifrasi, li chiamerebbero sciupatielli.
Nel corso del parco pranzo che presto si trasforma in una pantagruelica libagione, in una tua nota, avverti che il fraticello non è che il “chierico di Copmanhurst frate Tuck, il gagliardo confessore della banda di Robin Hood, e frate minore nell’abbazia di Fountain.” – minore ma niente affatto gracile. Io non faccio parte di quei “lettori, per quanto poco eruditi nella letteratura gotica” che “avranno riconosciuto” quel fratacchione. I due massicci personaggi si fronteggiano con analoga e ingombrante personalità, stimandosi reciprocamente, misurandosi forse anche l’augusto ventre.
Ironico il fratone quando, accennando all’acqua della fonte del “benedetto patrono San Dustano”, dice che quel sant’uomo “battezzò con quell’acqua molte centinaia di pagani, ma non ho mai sentito dire che ne abbia bevuta.” – scivola meglio nel canaluzzo un bicchierotto di lambrusco! Hic!
“Il motivo di questa interruzione può essere spiegato soltanto riassumendo le avventure di un altro gruppo di personaggi, perché, come insegna il vecchio Ariosto, non vogliamo insistere a tenere continuamente compagnia a ogni singolo personaggio del nostro racconto.” Rammenta una N.d.T che “Scott ha spesso paragonato la sua tecnica narrativa a quella dell’Ariosto” e che “anche Byron riprende questa analogia” quando “definisce Scott l’Ariosto del nord”. Ne convengo come posso, avendo letto anni fa il Furioso ed essendo arşân tésta quêdra cme l era ló.
Il Cavaliere Nero chiama chierico il frate, ma questi gli replica: “Per San Giorgio e il drago, non sono più un frate, quando non ho la tonaca sulle spalle. Con indosso la giubba verde, bevo, bestemmio e corteggio le ragazze come ogni allegro boscaiolo del West Riding.” – come ogni cattolico degno del suo nome, rumoreggiando anche col suo trombone posteriore (mia intuizione).
Ogni tanto, per esempio a pagina 219, la N.d.T. avverte di una svista cronologica dell’Autore. Tiremm innanz!, disse un eroico Amatore. Intanto a pagina 223, scrivi che l’ebreo Isaac, “seduto in un angolo della cella, e con le mani intrecciate, i capelli e la barba scarmigliati, il mantello e l’alto cappello bordati di pelliccia, poteva rappresentare, in quella luce fioca e spezzata, un ottimo spunto per un ritratto di Rembrandt, se il celebre pittore fosse vissuto a quel tempo.” – e lo fu, grazie a te!
Il pensiero, dopo che all’Ariosto, vola al Boccaccio (e al Chaucer) quando leggo il dialogo fra la “Gentildonna Urfied” e un servitore di Brian de Bois Guilbert. Lei gli augura: “… un canile sia la vostra tomba!”, lui la chiama “vecchia baldracca”.
A pagina 300 (Capitolo XXVIII) “stava ormai calando la sera quando Ivanhoe riprese i sensi, destandosi da un intermittente torpore tra quelle confuse sensazioni che solitamente accompagnano il risveglio da un sonno profondo.” Quando si riprende, animato anche grazie alle sapienti mani della “deliziosa Rebecca”, amorevole figlia del ricco ebreo, si rivela per quello che è: “un cattolico troppo devoto per indulgere in questi sentimenti nei confronti di un’ebrea, e Rebecca, che l’aveva previsto, proprio per questo motivo si era affrettata ad informarlo del nome di suo padre e della sua stirpe. Eppure, non senza un tocco di debolezza femminile, la bella e saggia figlia di Isaac non aveva saputo reprimere un intimo sospiro nel vedere che lo sguardo di rispettosa ammirazione, non disgiunta da tenerezza, con cui Ivanhoe aveva fino allora guardato la sua sconosciuta benefattrice si era immediatamente tramutato in un’espressione fredda, ritrosa e compassata, densa di significati non più profondi di un senso di gratitudine per una cortesia ricevuta inaspettatamente da una persona di razza inferiore.” – potenza della fede!
Rebecca si rivela donna saggia e capace di accettare la realtà: dice che il “suo popolo” è “esperto nel curare le ferite, ma non altrettanto nell’infliggerle”, ma gli promette di avere la possibilità di indossare di nuovo l’armatura, nel tempo di “otto giorni”, ma solo se avrà “la pazienza di ubbidire alle mie disposizioni.” – trasformandosi in tal modo la sua padrona, sia pure a tempo determinato.
A un certo punto è tale la confidenza fra i due che lei, sporgendosi un po’ fuori dalla finestra, gli fa un completo resoconto, anzi, un’accurata e appassionata tele-cronaca degli scontri fra sassoni e normanni che stanno avvenendo all’esterno. Eccone uno stralcio: “Il Cavaliere Nero” pare che sia caduto, dice Rebecca, ma poi si corregge: “No, non è così! Sia benedetto il nome di nostro Signore! È di nuovo in piedi e si batte come se avesse la forza di venti uomini nel suo braccio… Gli si è spezzata la spada e prende un’ascia da un arciere… incalza Front-de-Boeuf colpo dopo colpo, il gigante vacilla e si piega come una quercia sotto l’ascia del boscaiolo, e cade… è caduto!”
Gente che ama la pugna, piccola, media e grande, anche in formato tascabile, se occorre: il Cavaliere Nero “si avventa nella mischia come se fosse invitato a un banchetto; ha qualcosa di più della semplice forza, sembra quasi che l’animo e lo spirito del campione accompagnino ogni colpa che sferra ai nemici. Dio lo assolva dal sangue che ha versato! È terribile ma anche affascinante vedere come il braccio e il cuore di un solo uomo possano trionfare su centinaia di altri.”
Il cattolico Ivanhoe spiega alla disgraziata ebrea: “voi non potete capire quanto sia difficile per chi è addestrato alle imprese cavalleresche rimanere insensibile come un prete o una donnicciola quando tali imprese sono compiute intorno a lui! L’amore per la battaglia è l’alimento di cui ci nutriamo, la polvere della mischia è il nostro stesso respiro! Noi non viviamo, né desideriamo vivere quando non siamo più vittoriosi e celebrati. Sono queste le leggi della cavalleria, fanciulla, cui ci siamo votati e offriamo tutto ciò che abbiamo caro.” – più chiaro di così si muore, ma solo dopo aver fatto fuori centinaia di nemici. La ragazza fatica a capire: “Voi non siete cristiana, Rebecca, e vi sono sconosciuti quegli elevati sentimenti che gonfiano il cuore di una nobile fanciulla quando il suo amato compie qualche impresa che testimonia il suo ardore. La cavalleria! La cavalleria, fanciulla, è la nutrice degli affetti alti e puri, il baluardo degli oppressi, la riparatrice dei torti, il freno al potere del tiranno. La nobiltà sarebbe un vacuo nome senza la cavalleria, e la libertà trova nel suo scudo e nella sua spada la protezione migliore” – si tratta di un vuoto esistenziale che è reso colmo da gesta eroiche e omicide, che sostanziano un nulla, proteggendolo dalla sua vana illusorietà.
La donna, ascoltata la predica, “‘come conosce poco questo cuore’ soggiunse tra sé ‘se pensa che debba essere necessariamente ospitare codardia e meschinità, solo perché ho criticato la celebrata cavalleria dei nazzareni!” – e oggi scopro che la mia famiglia oltre che reggiana era nazzarena.
Nel caso meno peggiore l’anelito che spinge verso la pace è inteso come indizio di debolezza, diversamente è segno di vigliaccheria, quando non di stoltezza.
“Poi, avvolgendosi nel suo velo, si mise a sedere lontana dal cavaliere ferito, voltandogli le spalle, e si sforzò di rafforzare l’animo no soltanto contro i mali incombenti dall’esterno, ma anche contro quelli più insidiosi che la minacciavano dentro di sé.”
In questo mondo in cui la ragione consiste nell’idealizzazione della propria, unita alla condanna dell’altrui, l’antagonista è un se stesso che vive in modo simmetricamente opposto ma speculare. La pena che si prova per un eroe non può che essere identica a quella che si sente per il suo alter-ego. Front-de-Boeuf stava tirando le cuoia, ed “era giunto il momento in cui tutte le sue terre e ricchezze svanivano davanti ai suoi occhi, e lo spietato barone si sentiva stringere il cuore, pur indurito come una pietra, nel vedere davanti a sé la desolata tenebra che lo attendeva. La febbre del corpo accresceva l’ansia e il tormento della mente, e sul letto di morte i suoi sentimenti ridestati di terrore si mescolavano e combattevano con la fiera e inveterata ostinazione del suo carattere, in una tormentosa tensione mentale che può essere paragonata soltanto a quelle terribili situazioni in cui i lamenti sono senza speranza, il rimorso è senza pentimento e l’angoscia della situazione presente si accompagna al presentimento che non può né cessare né essere alleviata.” – che svanirà per sempre e d’incanto.
Front-de-Boeuf, ormai agli ultimi sospiri, sente ridere: “Chi ride? Ulrica, sei tu? Parlami, strega, e ti perdonerò… perché soltanto tu o il signore dell’inferno potrebbe ridere in questo momento! Via, vattene via!” – Ulrika era bella e giovane, quando divenne la sua schiava. Ora non più. Tutto scorre, anche la miseria umana. “Ma sarebbe impietoso dilungarsi oltre nella descrizione della morte dell’empio parricida.” R.I.P., una buona volta! Che ora devo attaccare il barbacane del Capitolo XXXI.
Questo Locksley, che sempre più mi rammenta qualcuno, accetta “di assumere il comando degli arcieri”, chi più di lui! Dice: “… e potrete impiccarmi a quest’albero del convegno se sarà permesso ai difensori di affacciarsi alle mura senza essersi infilzati da tante frecce quanto sono gli spicchi d’aglio in un prosciutto di Natale.” – castellani e gastronomi avvisati mezzo salvati.
Walter, ora inserisci una poesia che dici ispirata “alle antiche poesie degli scaldi, i menestrelli scandinavi” e che presenta versi che si possono definire crudi: “Tutti devono perire!”, ripetuto due volte; e anche: “Banchettate al desco della strage,/ alla luce della sala in fiamme!”; e così si conclude: “Salda sia la vostra spada quando il sangue è caldo,/ e non risparmiate, né per pietà né per paura,/ perché la vendetta ha un’ora soltanto,/ e anche l’odio deve aver fine!, E anch’io devo perire!”
Io non riesco a identificarmi con nessuno di questi virtuosi eroi, ma sono d’accordo sul senso della poesia, tratta dall’esergo del Capitolo XXXII, “antico dramma”, quando leggo: “Credi a me, ogni Stato deve avere la sua politica,/ i regni hanno editti, le città hanno costituzioni,/ e anche il brutale fuorilegge nella foresta/ mantiene qualche parvenza di civile disciplina…”
Siamo in un hood (mio aiutino per il lettore di questo ipocrita lettore), dove è Locksley il capo, che si scusa, dicendo: “Perdonatemi la licenza, nobili signori” – perché s’era “insediato su un trono di zolle erbose sotto i rami nodosi dell’enorme quercia”, ma lo deve fare perché “i miei selvatici sudditi non avrebbero molto rispetto per il mio potere, se nei miei domini cedessi il posto ad altri mortali.”
Rowena dice al prigioniero de Bracy di perdonarlo “come cristiana”, e quel sempre veritiero di Wamba commenta che questo significa “che non lo perdona affatto”. Connessa alla confessione è sempre una pena, piccola, media o grande, a seconda del caso.
Il Cavaliere Nero dice d’essere grato a Cedric per avergli insegnato “il valore delle virtù sassoni” – ogni cultura ha le sue, l’importante è diventare poliglotti etici.
Esempio di distribuzione hoodesca del bottino: “… con encomiabile imparzialità. Una decima fu accantonata per la chiesa e per altre opere pie, una parte destinata al fondo comune, un’altra fu assegnata alle vedove e agli orfani degli arcieri caduti, o a messe per anime di coloro che non ne lasciavano, e il resto fu spartito tra i fuorilegge, a seconda del rango e dei rispettivi meriti, e tutte le questioni controverse furono lasciate al saggio giudizio del loro capo, sempre accettato con assoluta deferenza.” – non erano previste elargizioni a ricconi e nobilastri che estranei alla pugna. E questo già è una cosa… Le risorse vanno a chi lavora (ammazzando non solo il tempo), non a chi si gratta placidamente la pancia.
Si assiste ora a una diatriba fra l’opimo fratellone e il miserrimo ma ricchissimo ebreo. La tralascio perché mi ripugna. Ricordo solo che “il comandante” dice al Cavaliere Nero che non sono stati fatti prigionieri, in quanto “nessuno abbastanza importante per chiederne il riscatto”; si trattava di “un branco di poveracci, e li abbiamo lasciati libero di cercarsi un altro padrone.” – l’unica libertà possibile, non sempre però.
Il comandante della hood sta meditando su quale riscatto chiedere per i due benestanti catturati, il priore cattolico e l’usuraio ebreo. “Il luogotenente della banda” (che poi non sarebbe altri che un piccolo Giovannino) ha un’idea: “far stabilire dal priore il riscatto dell’ebrea, e dall’ebreo quello del priore…”. Al che il suo capo gli dice: “Sei matto come un cavallo” – però l’idea gli piace assai. Tralascio di riportare alcunché delle rispettive (divergenti, ma complementari) contumelie dei due opimi personaggi, ché tanto fastidio mi recano fastidio, acuendo il mio disprezzo per la loro miserevole vanità. Fatto è che, grazie a tale brillante idea, si è alzato il prezzo del riscatto, che s’impegnerà a versare in toto l’ebreo, anche in nome e per conto del suo esecrato avversario (che poi dovrà restituire per intero, ben inteso, chissà se anche con gli interessi).
A pagina 382 de Bracy confessa a un incredulo Fitzurse di aver incontrato Riccardo Cuor di Leone, che “mi ha fatto prigioniero e mi ha parlato”, al che il Principe Giovanni “impallidì, barcollò e si aggrappò al dorso di una sedia di quercia per sostenersi, come se fosse stato trafitto da una freccia in pieno petto.”
Il Capitolo XXXVII è dedicato al processo intentato da questi cattolici nei confronti dell’ebrea meravigliosa, l’inquietante Rebecca, che aveva ammaliato con la stregoneria un cavaliere che aveva fatto voto di donare la sua esistenza alla difesa dei valori e dei luoghi della fede.
L’esergo è ora tratto da una tua poesia, insomma citi se stesso, e la sua esegesi è inutile, essendo indicata con cura negli ultimi due versi: “ma più crudele ancora fu la legge che alzò la verga/d’un tirannico potere e lo chiamò potere divino.” – tutte le religioni, nessuna esclusa, tende a manovrare gli uomini contro gli uomini, costi quel che costi.
“Il tribunale, costituito per il processo dell’infelice e innocente Rebecca, occupava la parte più elevata in fondo alla sala…”.
Il pio Brian de Bois-Guillbert era da tutti riconosciuto “come vero e fervente campione della Croce, per le molte imprese di valore compiute dal suo braccio in Terrasanta per purificare quei luoghi santi dal sangue degli infedeli che li contaminava.” – e questo passo fa intendere che, nell’opinione dei cattolici, quel che occupava il loro Luogo Sacro era da disinfestare e derattizzare dagli altri umani parassiti.
Nella lettera con cui la sempre idealizzata (da parte tua, Walter) ebrea invia al padre, ella gli chiede di cercare un paladino che sia in grado di difendere il suo nome e onore, e finisce consigliandogli di recarsi in esilio volontario a Cordova, “perché, per la razza di Giacobbe, è meno feroce la crudeltà dei mori che quella dei nazzareni in Inghilterra.” – al che, ancora e per sempre, occorre ricordare che panta rei! L’unica cosa che pare radicata nel cosmo è l’intolleranza culturale connaturata nello spirito umano.
Il padre spiega all’amico che lo accompagna che per i gentili “con l’oro puoi comperare il loro valore, così come con l’oro puoi comperare la tua salvezza” e che “l’oro è il loro dio, e per il denaro sono pronti a impegnare la vita, oltre che la terra.” – senti da che sinagoga vien la predica!
Lo sciancato che, grato a Rebecca che l’aveva curato anni prima, s’era offerto d’informare Isaac della richiesta della figlia, dentro di sé, li chiama “cani di ebrei!” – e pensa: “Non mi hanno degnato della minima attenzione, come se fossi uno schiavo, un turco o un ebreo circonciso come loro…” – ogni essere umano ama essere considerato come portatore di un suo intimo valore. Molti conflitti sorgono da tale necessità.
Caro Walter, non so se sei davvero l’inventore del romanzo storico, ma più leggo Ivanhoe e più mi rendo conto che per te importa donare al lettore un tuo pensiero nutrito dal disprezzo della psiche umana, che devia da quella virtù che terrebbe a unire le genti, se la base in cui essa è edificata non fosse resa marcia dalla diffidenza. In tal senso va intesa anche la Fede, spesso costruita sulla propria, poi giudicata infame, antitesi. Chi si fa martire è colui che vuole testimoniare il messaggio del suo personal prophet, che magari intimava di amare il prossimo come se stessi, pur dando a Cesare quel che apparteneva a quello. E che diceva di abbandonare i propri familiari per seguire tali folli e disumane idee.
Sto rileggendo il dialogo che c’è tra Rebecca e Bois. Guilbert, personaggio che oserei definire, all’arşâna, brót ma s-cèt, brutto ma schietto, non simpatico, ma nemmeno fetente. Lui pone la sua adorata, per cui ha perso davvero la testa e quasi tutto il resto, non però la sua dignità, di fronte all’esigenza di scegliere: o fugge con lui oppure lui sarà costretto ad ammazzare come un cane il cavaliere, chiunque egli sia, che oserà difendere il di lei delicatissimo onore.
La virtù di questa donna è a volte quasi nauseabonda, tanto è eccessiva. Fra i due contendenti (lui e lei in questo caso) il mio favore va al guerrafondaio nonché egoista templare, l’unico personaggio in tutto il romanzo che accetta di farsi vittima della passione amorosa (o forse subisce tale situazione). Gli altri sono diversamente educati verso altri, non meno deprecabili, però sublimi ideali.
Lui dice che “è vero”, che “son come hai detto, Rebecca, passionale, indomito e così orgoglioso che in mezzo a tanti sciocchi vuoti e ipocriti bigotti ho conservato la prevalente forza d’animo che mi pone al di sopra di loro. Fin dalla giovinezza sono figlio delle battaglie: ambizioso nei miei progetti, fermo e inflessibile nel perseguirli, e tale devo rimanere, orgoglioso, inflessibile e immutevole, e di ciò il mondo avrà la prova. Ma tu mi perdoni, Rebecca?”
La risposta di lei, tipicamente muliebre assomiglia alla micia che si morde la coda: “Come mai una vittima ha perdonato il suo carnefice.”
Il cavaliere soffre di vaticinio, quando ammette: “sto bene come un infelice condannato a morire entro un’ora.” Il suo fine però sarebbe un altro: “E invece fuggirò in qualche terra lontana”, laddove “non sono ancora penetrate la follia e il fanatismo…” – che detto da un cavaliere del suo sacro giuramento pare, anzi, è un’eresia.
A pagina 469, avviene la reciproca agnizione: il Cavaliere Nero e Locksley si dichiarano i rispettivi nominativi: “Riccardo d’Inghilterra” e “Robin Hood” (da un po’ s’era capito). La nostra squadra (i latitanti Robin Hood & C. esclusi) si reca alle esequie di Athelstane, erede di Cedric, presso il castello di Conighsburg di proprietà di quest’ultimo, che è il padre che aveva diseredato Ivanhoe, quando questi aveva scelto di seguire il suo re nell’esperienza in Terrasanta.
Con un atto di bacchetta magica narrativa, Athelstane resuscita (non v’è nulla d’esoterico ma il tutto è così macchinoso da descrivere!) e, quando il risorto dice al parente che è giusto che Rowena sposi Ivanhoe, essendo i due follemente innamorai, come d’incanto Ivanhoe, Riccardo e Rowena stessa si dileguano, avendo di meglio da fare (Rowena più che altro perché, essendo sparito Ivanhoe, si stava imbarazzando un po’).
Athelstane risorgendo, sente un languorino allo stomaco, per cui invita chi è rimasto al desiato desinare, “prima che ne scompaiono altri”. Ameno, quest’epicureo….
Ivanhoe, che è (ancor più dell’Orlando ariostesco) l’eroe più in cassa malattia della storia, aveva seguito il padre di Rebecca che l’aveva poi condotto nel luogo dove Rebecca era stata condannata o a morire o a farsi rappresentare da un paladino, che si sarebbe contrapposto al suo innamorato, il tutto sommato onesto Bois-Guilbert, che quando scorge il rivale quasi gli viene da ridere, ben sapendo che, malmesso com’è, non potrà resistere alla sua eroica violenza. Al primo scontro “il cavallo affaticato di Ivanhoe e il non meno provato cavaliere caddero, come tutti prevedevano, davanti alla lancia puntata e al poderoso destriero del templare.”
Come in altre occasioni epiche, la partita finale sarà truccata o, meglio, corretta dalla divinità: a Bois-Guilbert non resta che recarsi a vèder l’êrba da la pêrt dal raîşi, l’erba dalla parte delle radici, “ucciso dalla violenza delle sue stesse passioni” – a gh ē s-ciupê un côlp!, gli è venuto un colpo, un infarto, forse. Riposi in pace, quest’ipercinetico campione della cristianità (deviata).
Grida, un altro deviato: “Questo è davvero il giudizio di Dio!” – un provvidenziale deus ex equo e Rebecca l’ebrea maledetta è salva!
Walter, sei un mago dell’espressività e lo dimostri scrivendo: “la folla, come un pavido cagnolino, che osa abbaiare solo quando l’avversario gli ha voltato le spalle, alzò un timido grido, quando la retroguardia dello schieramento uscì dal campo.”
Nell’ultimo capitolo Rowena riceve l’inaspettata visita di Rebecca che le dona un più che mirabile gioiello come regalo di nozze. La novella sposina di Ivanhoe la invita a rimanere, promettendole protezione, ma lei, orgogliosamente, rifiuta, dicendo, tra l’altro: “Un abisso ci divide, e la nostra educazione, la nostra fede impediscono a entrambe di colmarlo.” La sua antagonista (che tale è che forse tale si considera dopo che entrambe le madonne esibiscono la rispettiva vetustà, sollevando il proprio velo) le dice: “Voi avete potere, rango, autorità e influenza, noi abbiamo la ricchezza, fonte della nostra forza e della nostra debolezza…”.
Rowena auspica di farle cambiare la fede, ma quella l’ē bèla e s-cèta: “Non posso mutare la fede dei miei padri, come si cambia un abito inadatto al clima in cui andrò a vivere.”
Un gran psicologo sei, quando scrivi che “la voce di Rebecca fu increspata da un involontario tremito e da una tenerezza che forse rivelava più di quanto volesse esprimere…”.
Riporto la quartina che chiude il romanzo: “La sua morte era destinata in terra straniera,/ davanti a un’ignota fortezza e per mano sconosciuta./ Lasciava un nome che faceva impallidire il mondo,/ per insegnare una morale o adornare un racconto.” I versi furono “composti da Johnson in onore di Carlo di Svezia”, ma ben si adattano al Cuor di leone: il vero dominus ovunque lo conducevano i suoi regali passi.
Della Lettera di dedica al rev. dr. Dryasdust, membro della Società di studi storici, residente nel Castle-Gate di York, colgo alcuni passi significativi. In essa citi, la traduzione delle Mille e una notte di Galland, osservando che i vari elementi orientali “li ha mescolati con sentimenti ed espressioni così comuni da renderli accessibili e interessanti” – tanto che meglio furono assimilati dai suoi lettori. “Perciò questi racconti, pur essendo meno orientali che nell’originaria stesura, erano molto più adatti al mercato europeo.” – hai capito, il nostro Galland!
Sei ben consapevole di non essere uno storico esente da errori (ma chi lo è?) e che certe sviste erano per te (come per chiunque) inevitabili, e ti auguri che “sfuggiranno all’attenzione dei lettori in generale,” e che questo non capiterà ai tuoi più severi e accigliati esegeti, essi “saranno forse più comprensivi conoscendo le difficoltà del mio compito.”
Nella Prefazione dell’autore a ‘Ivanhoe’ stai riportando le perplessità di chi pensa che Rebecca sarebbe stata una moglie più affascinante per l’eroe in via di guarigione (essendo lei anche una medichessa, ‘na medgòuna, diremmo noi arşân, esperta in pozioni mediche e altro). Le giustificazioni che stai ora ponendo sono deboli, ma efficaci. E danno bene l’idea della realtà. Chi le leggerà, capirà.
Un’ultima abnorme enormità: tu sei l’inventore del romanzo epico-etico-etnico-estetico-esoterico-essoterico-etimologico e chi più ne ha più ne emetta! Pertanto: storico! E almeno questo è un dato di fatto.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Walter Scott, Ivanhoe, Mondadori, 2013