“Aršân” di Luciano Pantaleoni: i reggiani sono teste quadre

Sono ancora scombussolato dalla lettura di Aršân di Luciano Pantaleoni, raccolta che tenta, riuscendovi, d’illustrare “I reggiani narrati attraverso i proverbi, i modi di dire, le storie, le canzoni e le filastrocche della cultura popolare”.

Aršân di Luciano Pantaleoni
Aršân di Luciano Pantaleoni

Per chi è anglofono c’è pure, precîsa cme un dî indal... l’opportuna traduzione: “The Reggiani narrated through proverbs, idioma, stories, songs and rhymes from the local culture”. E questa è la prima, strabiliante, novità. L’intero testo è stato tradotto da uno che, a ôc, a occhio, ma più che altro a orecchio, non mi pare nativo di Masinsâdegh, Massenzatico, un certo Bernard Keeling, e stavo per scrivere Sir Bernard Keeling, tanto gli sono grato per il suo prezioso lavoro. A volte ho utilizzato la sua traduzione per capire meglio un concetto, come può capitare leggendo un’opera complessa com’è questa. Di rado ho notato che la traduzione non è letterale, ma (leggermente) interpretata: una cosa che capita ai vîv, avrebbe detto mia mamma. Un mio dato biografico: io faccio parte di quella lost generation degli anni ‘50 e ‘60 a cui le istituzioni hanno negato l’uso del dialetto, anche tramite cartelli come quello che era nell’atrio della mia scuola media, che ammoniva che non era consentito parlare nella nostra lingua materna. La motivazione era chiara: ormai esisteva solo la lingua di Dante, e non anche quella di sîn Luîs (l’arguto zio di mia madre) e di Zilôch (famosa macchietta arşâna, Ulderico Zilocchi, vedi Wikipedia, dove il testo è integralmente in dialetto). I miei mi parlavano in italiano, anche se, quando mia madre m’inseguiva per donarmi alcune sue indicazioni pedagogiche (eufemismo), la lingua con cui m’intimava di non scappare che tanto mi prendeva prima o poi, che mi doveva informare delle ragioni della sua ira, era il dialetto (che a volte fingevo di non capire). In verità, lo so comprendere abbastanza bene, anche se talvolta il mio personal dialecter, Denis Ferretti, il massimo grammatico arşân, almeno per quel che so io, mi bacchetta un po’ per la mia pronuncia e soprattutto per la mia ortografia un po’ imprecisa.

Con tutto il rispetto bacchetterebbe anche l’autore, che spesso ignora la corretta accentazione e che, a volte sceglie, per motivi suoi, di non distinguere fra la s di sasso e la ş di asola; non nel titolo, però, dove una similare š rende il suono giusto: so che alcuni scrivono anche arzan, ma in effetti non è lo stesso suono, mentre š o ş per me pari sono.

Intuisco, ma non sono sicuro, che l’autore abbia volutamente tralasciata un’estrema accentazione, per rendere più fruibile la lettura a chi la ignora. Forse ha fatto bene, o forse no: si tratta di una scelta operativa, a mio parere.

Il volume è bello da ammirare e da sfogliare e assai ben corredato da immagini disegnate (la grafica è curata da Erika Profumieri e da Martino Nicolini). Mi domando chi sia l’autore di quegli schizzi e disegni, se sono tratti da precedenti pubblicazioni o realizzati apposta per quest’opera magnifica.

Perché m’ha scombussolato? Perché essa è imperfettamente perfetta, nel senso che dice tanto ma solo una parte dell’universo dialettale (come se fosse soltanto la punta di un iceberg) e perché mi ha aperto un mondo che non conosco come vorrei. La maggior parte delle espressioni dialettali riportate m’erano ignote, oppure già le sapevo, ma con delle varianti. Per esempio: “Bagnol e po’ Parigi”, io la sapevo: a gh ē Gavâsa e po’ Parigi; secondo un mio cugino: a gh ē Cadiaşâr, Ca’ degli Azzarri (la via principale di Gavassa), po’ al rèst ed Gavâsa e po’ Parigi.

Mi auguro e sento che presto seguiranno altre opere realizzate dal medesimo autore o da altri appassionati del vernacolo reggiano.

So di una celebre freddura di due miei concittadini che, incontrandosi per caso nella capitale francese, si salutano col consueto modo arşân, che tanto meraviglia chi non è abituato allo strano humour di noi cosiddette tèsti quêdri, come ci definiscono i confinanti: che t gnèsa un càncher, cme stêt?!, Bèin! e té?, fâcia ròta, cme t la vàla?!”. Ovviamente nessuno dei due intende né augurare un tumore (un brót mêl) all’amico, né giudicarlo persona da poco: sono semplici esclamazioni del nostro vernacolo. Dopo una mezz’oretta di chiacchiere in reggiano, uno dei due salta su e dice: Ma scusa, siamo a Parigi, che è sicuramente una bella città, ma noi siamo reggiani!, e allora perché ci ostiniamo a parlare in francese?

In effetti il nostro idioma è una lingua decisamente francofona, anche se occorre precisare che entrambe sono basate sul latino, mentre nella grammatica arşâna c’è anche un influsso germanico.

Torno al libro, perché capisco che, essendo io un appassionato dell’argomento, tendo a esagerare nei contributi personali. Un pregio dell’opera di Pantaleoni è il rigore e la capacità di sintesi, grazie a cui è riuscito a essere discreto e al contempo esaustivo, nonché accurato nella scelta degli argomenti.

Dopo una necessaria introduzione, che di fatto è già un capitolo dell’opera, in cui tanti argomenti sono descritti con minuzia, senza mai esagerare nelle dosi degli ingredienti, come se l’autore stesse confezionando dei piatti prelibati per un pranzo di nozze, si passa alla disamina di numerosi argomenti, in cui si esaminano gli influssi che derivano dalle regioni e dalle città confinanti e, principalmente, dai loro abitanti. Da essa si può verificare il grado di campanilismo che appartiene tanto a noi reggiani, quanto al resto delle contrade italiche.

Scopro per la prima volta in vita mia che i Mudnèis, Pavarotti e Vasco Rossi e C., sono detti “nusòun”, con “la testa rotonda, alla quale tengono particolarmente, ma anche dura come una noce”: dei gran testardi, per la mà! (cioè: mamma mia!) Poi si dice anche: “I Mudnes iin semian e mocò” – traduzione: “The Modenesi are dumb and haughty”, “tonti e altezzosi”. E ne meritano altre, di definizioni, ma non posso riportare tutto quello che sto imparando, sennò non finirei più! Solo l’ultima, dai: “Chi a n’è mia mât, l’è mia ed Mòdna.” – la quale, a parte ‘sta particolarità, per me è una città splendida dove non so se vorrei abitare, ma che ogni volta che la vedo mi pare sempre più bella. Regalo ora all’autore una frase palindroma: andom a Modna! Che ne vale sempre la pena!

I reggiani sono brava gente, anche se non te la mandano a dire. È gente passionale. Pochi sanno che molti reggiani aderirono negli anni ’20 al fascismo, diventando poi una terra di partigiani antifascisti. Se devono combattere, rischiando la vita, lo fanno (io forse no, ma chissà a che tribù appartengo!). E ora un proverbio che la dice tutta: “Una parola déta al cōr/ la vèl de più che seint dutōr”. Una parola detta al cuore (ad altri cuori) ha un valore terapeutico. Si sa però che il reggiano l ē brót ma s-cèt, è brutto ma schietto. Siamo dei contadini di probabile origine gota, e alora? ‘Sa gh ē di problema? Ci vantiamo di sapere di humus e a anche un po’ stallatico! Ecco ora un detto molto saggio e universale: “Quand la vîn sira/ l’è sira a ca ed tút.”

Interessante il capitolo dedicato alla vera divinità dei reggiani: “Al lavōr”, che per noi significa anche questione, problema, necessità. Ricordo un simpatico siculo che diceva che noi, ‘sto fatto, lo mettevamo un po’ dappertutto: Che brót lavòur, che bel lavour!, oppure, semplicemente: Che lavòur! E lui non capiva perché: lavorare è importante, diceva, ma perché abusarne dialetticamente? Se la necessità c’è, si risolve, e morta lì! Noi reggiani lavoriamo anche mentre, dormendo, a sòm a drê a vultêr galòun, stiamo girando, nel sonno, l’anca d’appoggio. Io non svolgo più un’attività lavorativa, essendo, si fa per dire in quiescenza, ma scrivo con la medesima passionalità. Oh, l ē un lavòur anch còl-lé!

Noi reggiani siamo contadini perché le nostre mamme lo erano, nonché i papà e tutti gli avi, dal tempo di Carlo Cotica (anche da prima, anche perché non si sa chi sia costui). Mica è colpa nostra. Delle donne reggiane (e lo scopro a pagina 99), si dice che “I gh’an i ôs grôs e i’ucîn fûreb”: “they have big bones and smart eyes”. Essendo contadini, i nostri antenati (ora non più) soffrivano la fame, per cui dicevano (e lo si dice ancora): “t’è brút cme la fâm”, “you are as ugly as hunger”.

L’autore poi passa a esaminare vari detti legati ai singoli comuni reggiani, accennando anche alle frazioni che, nella loro ottica, sono realtà a sé stanti, ognuna amante della propria indipendenza e del proprio campanile. A tutti i comuni dedica almeno una pagina, ad alcuni anche due o tre.

Una cosa che fa riflettere: “Šurch/ l’è al paes di Magiari.” Infatti: “raccontano che a Zurco si sia fermata una carovana di zingari e che si siano imparentati con le famiglie del luogo”: per cui, si può ben dire che Reggio (e provincia) è una terra aperta all’immigrazione. Forse un fatto analogo è capitato a Cavriago, dove dicono che la gente è più furba che altrove perché a magna dla mêrda ed séngher, merda di zingaro: noi reggiani siamo un po’ così, furbetti, ma a Cavriago lo sono di più. En passant, in quel paese sono anche fedeli alla linea: in una piazzetta si staglia ancora la celebre statua di Lenin che, una volta, ai tempi della famosa madonna piangente di Tarquinia, anche dai suio occhi lasciava scorrere delle lacrime, uno scherzo di qualche burlone, immagino!

C’è sempre il senso del proprio valore, a volte un po’ esagerato:Qui ed Cavrèra iin di Parigin…” – in ossequio a quel mito che sempre aleggia, come abbiamo visto a Gavassa e a Bagnolo, ma pure a Vilaròta ed Lusêra, che, notoriamente, “l’è un cantoun ed Parigi”.

I reggiani non sono dei coglioni, assolutamente no! Sono dei campanilisti, e se possono cercano di risparmiare. Ecco che quattro comuni montanari confinanti, ma i cui centro non sono limitrofi: Bušâna, Culâgna, Algûn’c e Ramsè si sono riuniti in un’unica municipalità. Si provi a dire agli amalfitani e gli atranesi che ne dovrebbero seguirne l’esempio, poiché i loro centri distano meno di un chilometro!

Passo alle riflessioni finali dell’autore, che cita Gramsci e Pasolini. Specialmente quest’ultimo recrimina sulla “sostituzione di valori e di modelli sulla quale hanno avuto un gran peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la televisione…” – e mi sovviene che si potrebbe proporre, più che alla mia, alla generazione dei miei figli, una nuova edizione della trasmissione Non è mai troppo tardi, in cui, ricordo ancora, come se l’avessi vista ieri, quell’arzilla ottantenne che negli anni ‘60 aveva appena imparato a scrivere. Anche i ventenni di oggi potrebbero imparare a leggere e a scrivere in dialetto. Anzi, dovrebbero, finché possono, salvare il salvabile, in nome dei loro stessi figli. Ricordo i detti di mia mamma, così come gli slogan di Carosello. Ne propongo due che danno, a mio parere, la giusta immagine di noi reggiani, e soprattutto dell’antica saggezza che ormai pare in via d’estinzione: Piânşer fa trî e réder fa trî e Vâgh e vègn e fâgh du gîr, e abbozzo una traduzione in albionico: crying is three, laughing too e I go and i come back, making two trips.

Luciano Pantaleoni
Luciano Pantaleoni

Noi figli di quegli anni straordinari siamo riusciti a cogliere dai nostri genitori il loro ormai disperso idioma, ma ai miei consanguinei non so che capiterà. Sono come quei bimbi ferini che erano stati allevati da orsi e lupi, e poi salvati e solo in taluni casi istruiti nella loro umana cultura.

Etimo è verità, o meglio ricerca dell’eteos, del vero, all’interno di un logos, un discorso. Grazie al mio matrimonio con una donna mezzosangue, si fa per dire, per metà della costiera amalfitana (madre) e per meta di quella cilentana (padre), ho acquisito due nuovi dialetti, che i miei figli conoscono più del reggiano perché colà essi sono ancora di uso comune, inteso e parlato dai piccoli come dai grandi. Una volta feci da interprete tra un amalfitano e un pisciottano, che faticavano un po’ a comprendersi.

Nel Cilento, ma anche in Sicilia e in buona parte del Sud, ma non a Salerno, a Napoli e ad Amalfi: ammuccià è nascondere, ammucciaredda è il gioco del nascondino. L’origine del termine si riferisce al normanno, mucher, che significa celare alla vista. In arşan, mucêr è ammucchiare, forse (anche) per nascondere alla vista, quel che c’è sotto. Lo stesso vale per catêr, trovare in reggiano, e per accattà, comprare in campano, entrambi dal francese acheter, tutti derivati dalla matrice latina captare. Del resto, il raffreddore a Rèş non si prende, as ciâpa. Quando uno prende una cosa volontariamnte si usa il verbo tōr, da tollĕre; tōr via è togliere. Non si finirà mai di studiare le lingue: che casino! L ē prôpia un gran bèl caşèin glotòlogich!

Ecco che lo studio della lingua diventa il gioco più bello, perché ti permette di rivivere quel che un tempo era la norma, la vita che scorreva, come la nostra, quotidianamente, forse meno varia dell’attuale, ma di certo meno angosciante. Un po’ come giocare a Monopoli, fingendo di essere titolari di un bel conto bancario. Di quel gioco esiste anche la variante con i topos reggiani.

Sto pensando al dolore che i nostri avi hanno provato nel veder morire i propri figli, per stenti o per malattia. Ogni età, ogni evo, ogni eone ha i suoi problemi. Avere coscienza del passato, che pur cessato di fatto esiste ancora nella memoria (per cui ancora C’È!), grazie alla glottologia, come anche all’archeologia, o alla paleontologia, ci aiuta a comprendere i tre sempiterni arcani: Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andremo?

Non si saprà mai rispondere, ma noi aršân o arşân, che nemmeno sulla s dolce andiamo tanto d’accordo (prendendo ognuno spunto dal proprio cortile di casa, backyard), abbiamo dei carismi unici al mondo (ma l ē na mèşa batûda, ânsi, trî quêrt!).

Leggendo Genetica del cane dalle origini al futuro del già citato grammatico, nonché cinofilo, Denis Ferretti, scopro che (mia sòul a Rèş ma un po’ dapertót) lupo, coyote, dingo e sciacallo sono stretti parenti del cane, tutti tra loro incrociabili e in grado procreare figli fertili, e non sterili come il mulo e il bardotto, figli di asini e di cavalli.

A Reggio siamo molto avanti con la genetica sperimentale. In tutti il mondo ci sono gli asini a due zampe e i rimbambiti, come anche da noi (mica pochi, tra l’altro). A Reggio però sono riusciti a compiere un esperimento eccezionale: da una coppia composta da un inbanbîda (con la n mi raccomando, come in inglese!) e un êşen, tant ân fa, l ē nasû un inbanbèsen, purtroppo non sterile!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Luciano Pantaleoni, Aršân, Incontri editrice, 2021

 

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