“Favole al telefono” di Gianni Rodari: divertirsi a rigirare il Maestro
Ogni discorso riportato di Gianni Rodari, il quale fu, sicuramente amato dagli alunni, anche maestro elementare, reca quel sentimento strambo che si chiama simpatia, cioè passione insieme, il che è un assurdo in cui pur tuttavia credo. È una promessa, spero non spergiura, che qualcosa di simile all’umanità possa esistere. Gianni Rodari è il più simpatico scrittore che abbia mai incontrato. Trovandomi per caso in quel celeste e sempre più affollato bar, in cui siedono, in tavolini separati, Hugo e Tolstoj, Nietzsche e Krishnamurti, Dirac e Majorana, Siddharta il Buddha e San Francesco, noto ora che si sono approssimati al banco, tenendosi a braccetto, il Rodari e il più atroce Marchese di cui mai ebbi notizia: chissà di cosa vanno discorrendo…
Dice il saggio (Gianni): “Si può parlare di uomini anche parlando di gatti e si può parlar di cose serie e importanti anche raccontando fiabe allegre.” – non credo ve ne siano di meno essenziali. Poi continua: “Una storia non nasce per un atto di volontà. Se ha una morale, ce l’ha perché viene fuori da sola, io non ci penso mai, prima…” – io nemmeno, è lei che pensa me.
Ognuno ha il suo metodo operativo, la botta segreta come quella che ha reso celebre il Corsaro Nero: “… tra genitori e figli vorrei arrivare come un compagno di giochi, come uno che accende un fuoco, che tiene vivo un dialogo, che aiuta a guardare il mondo, ad amare la vita.” Tutti questi riporti sono tratti dalla splendida Nota introduttiva, che non è firmata e quest’assenza finisce per renderla ancora più preziosa.
Nell’iniziale C’era una volta… Gianni dice che il signor Bianchi era in trasferta sei giorni su sette e ogni sera chiamava al telefono la figlioletta e le narrava una favola. Rodari dice che “raccontava una storia alla sua bambina.”
Narrare è la forma contratta di gnarigàre, che deriva dalla radice sanscrita gnâ, conoscere (da cui gnosi). Simile è l’origine di raccontare, che indica la ripetizione di una narrazione. E si sa che a ogni ripetizione si giunge a un cambiamento, non esistendo due attestazioni uguali del medesimo evento. In arşân si dice: cuntêr mia dal bâli e s’intende che è avvenuto un ri-conto della narrazione, la quale è sempre primeva che, se ripetuta diventa un raccontar per l’ennesima volta, con l’ennesima variazione sul tema. Domanda da tre punti: si può narrare per la prima volta un qualsiasi accidente umano?
Gianni precisa che le favole sono corte perché: “il ragioniere pagava il telefono di tasca sua, non poteva mica fare telefonate troppo lunghe.”
Il cacciatore fortunato: è colui che anziché lepri e fagiani, torna dalla mamma con “tre arrabbiature belle grasse. Chissà come saranno buone, con la polenta.” Consueto detto arşân: mej un óss che in d’al fôss e anche mej un óss che ch’un bastòun (penso che non ci sia bisogno della traduzione). Il primo si può sgranocchiare, l’altro serve a battere.
Il palazzo di gelato: di rado si mangiavano dolci, perché c’era crisi, durante e subito dopo la guerra. E si sognava di tutto, anche “un palazzo di gelato proprio sulla Piazza Maggiore” di Bologna. “… e i bambini venivano di ontano per dargli una leccatina.” Mia nonna Linda, che non sapeva di lettera, però ricamava le sue iniziali sul cuscino e che tanta fame aveva tanto patito da bambina, quando nessuno la vedeva (a parte me), se ne andava quatta quatta in sala, apriva uno sportellino e sgraffignava qualcosa di estremamente prelibato, che quând l’era céca, an gh’era brîşa (briciola nel senso di mica di pane, anch’essa diventata un avverbio di negazione. Céca non significa che non ci vedeva, ma che era piccola e lo rimase al compimento della sua ultima età. Quel qualcosa quasi magico era una zolletta di zucchero).
La passeggiata di un distratto: Giovanni è un ragazzino sbadato (come me), che perde pezzi (un braccio, un piede, una gamba, un orecchio, il naso), che le amiche della mamma riportano a casa sua. La mamma è un po’ disperata per tanta distrazione che ogni volta mostra di avere il figliolo, che quando rincasa le chiede se manca niente, e se è stato bravo. Lei risponde: “Sì, Giovanni. Sei stato proprio bravo”. Mia madre, quando uscivo, chiedeva se avessi tutto con me. Al che io controllavo e m’avvedevo che mi mancava quella cosa e quell’altra. Allora lei, nel congedarmi, mi domandava ancora se m’ero ricordato di portare meco la testa. E io le dicevo: Dai mamma! Un giorno, mentre andavo a catechismo, mi capitò di attraversare la strada, stando attento a camminare sulle strisce ma non all’auto che stava sopraggiungendo, e per un pelo non stavo per perdere ogni cosa!
Il palazzo da rompere: “a Busto Arsizio, la gente era preoccupata perché i bambini rompevano tutto”. Il ragionier Gamberoni ebbe una luminosa idea: “costruire un palazzo da rompere e obbligare i bambini a farlo a pezzi.” Proposta meravigliosa, subito accettata e messa in opera dalla giunta comunale. Il risparmio finale fu enorme: “due stramilioni e sette centimetri”. Gli adulti finirono per sostituire gli infanti che alla fine non ce la facevano più a scassare tutto. E nel farlo si sentirono bene, ringiovaniti. I soldatini di quand’ero ragazzo sono stati rovinati non dal tempo e dall’incuria, ma dalla mia iconoclastia giovanile, nonché da quella che sentì nel suo cuore mio figlio, che me ne ruppe alcuni. Quando lo fece ero sui quarant’anni e ne soffrii. Grazie a Gianni sono guarito da tanta mestizia.
La donnina che contava gli starnuti: siamo a Gavirate, nel varesotto (che mi fa venire in mente il risotto). Il vezzo di quella donnina è dei più strani: sa dire che, si sternuti, “il farmacista ne ha fatti sette”, di cui “cinque prima di mezzogiorno”, mentre “il parroco ne ha fatti quattordici”. Il signor Delio, nonostante un lungo appostamento, non ne vuole sapere di starnutire. Quel tipo si accorge che la donnina e le sue amiche pettegole lo stanno spiando e getta “una bella manciata di pepe nello spruzzatore del moschicida” su quell’assemblea di comari, che cominciano a starnutare (tanto per cambiare il verbo) e iniziano la loro conta, ognuna per conto suo, finendo per malmenarsi. Mia mamma mi chiese una volta cosa facevano tre sternuti. Dato che non seppi rispondere, lo fece lei: un raffreddore! Poi mi domandò cosa facevano tre scorregge (dalle mie parti hanno due erre, mentre i marroni ne hanno solo una, perché bisogna risparmiare nella vita). La risposta è un segreto di famiglia e ve lo dirò a voce.
Il paese senza punta: “Giovannino Perdigiorno era un grande viaggiatore”, somigliava a un certo Miclâs: che gh piasîva magnêr, bèver e andêr a spâss. Giovannino (un Gianni più piccino ancora) è ora in un posto magnifico, dove le rose non pungono, nemmeno le sciabole, e i chiodi addirittura sono stati aboliti per legge: “facciamo tutto con la colla”. Se compi un’infrazione succede che s’acquisisce il diritto di schiaffeggiare la guardia. Chi si rifiuta, come Giovannino, viene riaccompagnato alla frontiera. Paese che vai, sciocchezze che trovi. Mia mamma era severa, anche il mio maestro Paoli che, se sbagliavo, mi donava una sberla e pretendeva che gli dicessimo Grazie. Amo il ricordo di quell’uomo: in solaio ho ancora tutti i doni che meritai per ogni cosa bella che avevo fatto. Di mia madre non ho che splendidi aneddoti da narrare. Come quella volta che, per una mia marachella, mi gridò dalla finestra una frase del tipo: Quando vieni su te le suono! Al che io continuai a trastullarmi come se niente fosse. Quando salii mi precipitai da lei e le chiesi di essere punito subito così non ci pensavo più. Fui graziato.
Il paese con l’esse davanti: ah, Giovannino, ora sei in un luogo dove il temperino è uno stemperino, che fa crescere le mine alle matite. Inoltre, “col nostro ‘staccapanni’” la gente trova i panni da mettersi, e mai li attaccherà da nessuna parte. “La macchina ‘sfotografica’” non fa foto ma caricature, mentre “lo ‘scannone’ è il contrario del cannone, e serve per disfare la guerra.” Finalmente ho capito perché quando ho un languorino corro subito a s-famarmi. Con una s si potrà s-alvare il mondo (non so se c’entra ma in arşân alvêr significa alzare; questo voleva fare quel celebre siracusano: sollevare il mondo con una leva, che potrebbe essere l’amore).
Gli uomini di burro: Giovannino ora è nel “paese degli uomini di burro”, che “a stare al sole si squagliavano” e “dove al posto delle case c’erano tanti frigoriferi.” Ovvio che, attaccato al frigo “c’era un telefono con cui parlare con l’inquilino”. Anche il re è di burro e vive in un elettrodomestico “d’oro massiccio”. Quando esce, d’inverno ovviamente, va “in un’automobile di ghiaccio”. Dice che, se il sole facesse un giorno capolino, verrebbe subito arrestato e sbattuto “in prigione dai miei soldati”. Mia madre, quando mi cascava un oggetto, mi dicevo che a gh avîva al mân ed butêr (noi arşân siamo un po’ francesi e un po’ celti), cioè le mani butirrose.
Alice cascherina: “… che cascava sempre e dappertutto”, ma davvero ovunque: “nella bottiglia”, “nel cassetto delle tovaglie e dei tovaglioli”, finendo per addormentarsi, senza pensare che qualcuno avrebbe poi chiuso il cassetto. Quando si sveglia, comincia a battere contro il legno, e le aprono, e tutti sono felici e contenti, così di solito finiscono le favole. Un giorno feci finta di andare a scuola, ma mi scocciavo di uscire per fare focaccia, che a Salerno si dice filone, ma il senso è quello (cibo + fuga), perché fuori stava fioccando alla grande. Decisi di rintanarmi in solaio, e per cinque ore mi lessi tanti di quei giornalini che mi stancai e alla fine m’addormentai. Mi svegliai quando nel sogno mi scappava la pipi. Anche nella realtà. Erano le due. Scesi pian pianino le scale proprio mentre papà stava uscendo per vedere dove caspita m’ero cacciato. Fuori stava sempre nevicando e il fatto che il mio cappotto fosse asciutto non depose a mio favore.
La strada di cioccolato: “tre fratellini di Barletta una volta, camminando per la campagna, trovarono una strada tutta liscia e tutta marrone.”, che era, manco a dirlo, di cioccolata. Subito la leccarono un po’, poi la divorarono che è il verbo giusto per tutto quello che sa di cacao. Alla fine non seppero rinvenire la strada di ritorno, perché se l’erano mangiata tutta! Capirono soltanto di non essere né a Bari, né a Molfetta. S’imbatterono in un contadino gentile che li riaccompagnò in quella città che tanto amai, quando la visitai con le mie due consanguinee, non solo per il castello ma anche per il lungomare dedicato a Pietro il veloce, detto la Freccia del Sud. Il giorno prima eravamo andati a Molfetta. Io sono un caffeinomane, anche perché ad Amalfi dicono non meno di tre e non più di trentatré (caffè). Dissi alle due parenti di andare avanti che poi le avrei raggiunte in Duomo, dove mi recai dopo aver sorbito quel liquido fumante. E dove non le trovai. Le chiamai allora col cellulare, e dissi che le stavo aspettando all’interno dell’edificio religioso. Anche noi, mi dissero. Girai per quella splendida ma piccirilla chiesa e non le vidi. A Molfetta c’era una Cattedrale (che a Reggio e ad Amalfi coincide col Duomo, ma lì no), che non era lontana (per fortuna la cittadina è più piccola di Shanghai). Mentre mi stavo recando per un vicolo da loro, anch’esse fecero lo stesso, seguendo però un altro tragitto. Al secondo tentativo c’incontrammo a metà strada. Anche noi felici e contenti!
A inventare i numeri: la tabellina che inventa Gianni inizia con “tre per uno Trenta e Belluno” e finisce con “tre per dieci pasta e ceci”. Poi dice che a Modena si conta così: unci dunci trinci, quara quarinci, miri miminci, un fan dès”: fanno dieci in emiliano. Mio zio Polimondo, detto Mondo, era un gran furbacchione. Una volta mi chiese quanto faceva 1 e 1 e io dissi Due! Lui mi corresse: faceva 11.
Brif bruf braf: “Due bambini, nella pace del cortile, giocavano a inventare una lingua speciale per poter parlare fra loro senza far capire nulla agli altri.” – e uno diceva “brif, braf” al che l’altro rispondeva: “braf, brof” e via a ridere! Una signora dice che quei monelli erano sciocchi. Un signore che è presente non è d’accordo. E finge di capire. E comincia a tradurre le altre espressioni che essi vanno dicendo. Al che la signora gli chiede se ha capito. Lui glielo spiega: per quegli infanti il mondo è troppo bello. E quando lei gli chiede se lo è davvero, risponde: “Brif, bruf, braf”. Quando ero zicu (che a Pixuntum vuol dire piccolo) esisteva questa filastrocca che serviva per contare a chi fra due amici toccasse: am-bu-stai-pisi-pisi-pisi-cai-am-bu-stai. A seconda del caso, nessuno voleva iniziare, oppure insisteva per farlo.
A comprare la città di Stoccolma: “al mercato di Gavirate capitano certi ometti che vendono di tutto”, contribuendo all’entropia universale. A un barbiere viene offerto di comprare la capitale della Svezia “in cambio di un taglio di capelli con frizione.” – l’offerta viene accettata con entusiasmo. Quando quel Figaro va a controllare la sua proprietà, parla in italiano e nessuno lo capisce, ma tutti sono gentili e gli sorridono e lui è felice che i suoi sudditi tanto bene gli vogliono. Pensa di aver fatto un gran bell’affare, pagando a buon mercato una città con un milioncino di abitanti. “E invece si sbagliava, e l’aveva pagata troppo. Perché ogni bambino che viene in questo mondo, il mondo intero è tutto suo, e non deve pagarlo neanche un soldo, deve soltanto rimboccarsi le maniche, allungare le mani e prenderselo.”
Giannino, ammiro il mio ottimismo. Ma spiegami allora perché la mia donna amalfitana, quando l’accompagno in un negozio, mi dice di non aprir bocca, che il mio accento arşân potrebbe recare dei guai alle nostre finanze!
A toccare il naso del re: “Una volta Giovannino Perdigiorno decise di andare a Roma a toccare il naso del re”. E ci riuscì, con la conseguenza che “altri cittadini si affrettarono con entusiasmo a imitare l’esempio di Giovannino”, e a quel sovrano cominciava a dolere il naso. Un giorno un amalfitano di nome Raffaele (ora non c’è più, ma come te, Giannino, egli vive in me e queste righe ne sono la riprova) lavorava in un albergo, dove alloggiava Anthony Quinn. Raffaele scommise con un amico che, in segno di cortesia, avrebbe toccato il grillo del grande attore messicano. E così fece alla prima occasione. Anthony rimase per un attimo sorpreso, ma poi sorrise e a sua volta toccò il pesciolino di Raffaele. Poi un giorno qualcuno mi spiegherà perché in un luogo, gli si dà il nome di un animaletto che in genere salta, mentre in quell’altro esso va nuotando. Ho un colpo di genio: si dice saltare in padella! Il tuo racconto, Gianni, finisce così: “Giovannino tornò al paese soddisfatto.” – anche Raffaele.
La famosa pioggia di Piombino: “Una volta a Piombino piovvero confetti” e “fu una grande giornata”. Una volta, uscendo dalla Cattedrale di Amalfi, piovve del riso addosso a me e a mia moglie. Ricambiammo la cortesia con dei confetti che mi aveva venduto a Bagno (che strano nome, vero?) un rivenditore di dolciumi che aveva un inconfondibile accento toscano.
La giostra di Cesenatico: “Una volta a Cesenatico, in riva al mare, capitò una giostra” che aveva un che di miracoloso: “ai bambini doveva parere fatta di cioccolato, perché le stavano sempre intorno in ammirazione e facevano i capricci per salirvi.” Gli adulti poi scoprirono il perché: con essa si saliva dove normalmente non era possibile giungere: “si sorvolava l’Oceano Pacifico con tutte le sue isolette, l’Australia coi canguri che spiccavano salti, il Polo Sud, dove milioni di pinguini stavano col naso per aria…” – e numerose altre regioni lontane. Un anziano salì e vide tutto questo, se non di più: “scese traballando” in tutti i sensi, ma decise di dir nulla a nessuno, per tema che gli si facesse notare che “alla sua età è pericoloso andare in giostra, perché vengono le vertigini.” A Casalmaggiore, col collo leggermente torto, accompagnai mia figlia su un ottovolante, che si ergeva proprio in piazza. In genere, su quel mostro si sale quando si è in basso e solo poi si cresce d’altezza. Così fece anche in quel caso. Arrivammo in pochi secondi al massimo dell’altezza e lì quella bestia di ferro decise di fermarsi, rimanendo come in attesa per qualche minuto. Mi venne allora da stringere le mie gambe attorno a quelle di Anna. Al che lei mi disse di non preoccuparmi, ché non aveva mica paura. Lei no, io sì (ancora non gliel’ho confessato). Scendemmo sani e salvi, dopo una trepidante mezz’oretta!
Sulla spiaggia di Ostia: dove “i Romani d’estate vanno a migliaia di migliaia” e “sulla spiaggia non resta nemmeno lo spazio per scavare una buca con la paletta, e chi arriva ultimo non sa dove piantare l’ombrellone.” Arriva un tipo che aprì il suo ombrellone, “diede un’aggiustatina al manico e subito l’ombrellone si sollevò per aria, scavalcò migliaia di migliaia di ombrelloni e andò a mettersi proprio in riva al mare, ma due o tre metri sopra la punta degli altri ombrelloni.” Tutto bene, tutto normale, tranne un fatto, quel genio non era uno sbruffone, ma uno che sbuffava a chi gli chiedeva d’insegnargli il modo di svolazzare in quel modo: “… quello sbuffava e tornava a leggere”. A me non interessa sapere chi fosse, ma solo dire che quando andai a Ostia non avevo né ombrellone né sdraia. E mi sporcai tutto, perché la sabbia lì era nera (essendo ricca di ferro), per cui mi andai a lavare a mare. Poi tornai, mi lordai di nuovo e decisi di ributtarmi a mare, eccetera eccetera. Una parte di me sta ancora insozzandomi e tentando di pulirsi con quell’acqua miracolosa ma non troppo.
Il topo dei fumetti: che non è Mickey Mouse, suppongo, anche perché non parla yankee, ma dice solo “crek, screk, schererek” ma anche “crengh”, e poi “squash!” Il topino tapino vede un gatto e si spaventa assai. Ma poi scopre che si tratta di “un gatto dei fumetti”. Le due bestioline che possono fare, alla fine, se non abbracciarsi. Lo stesso capiterebbe a un interista e un milanista che s’incontrassero nel deserto del Sahara, oppure, che so, sul Pianeta che non c’è.
Storia del regno di Mangioia: Una famiglia di re voraci governò per anni quella terra. Il primo di cui si ha notizia fu “Mangione il Digeritore” che divorava il cibo ne piatto e poi il piatto stesso. L’ultimo fu “Mangione Nono, detto Ganascia d’Acciaio, che si mangiò il trono con tutti i cuscini”, che causò per questo la fine della sua dinastia. A me mia moglie fa sorridere quando, a vedermi un po’ chino sulla pietanza, mi dice che n’uócchio nun ver chill’àto.
Alice casca in mare: Alice conosce un ragazzo che le mostra che se vuole può, tuffandosi, tramutarsi in un delfino. Ci prova anche lei e quando è in acqua, al suo solito, si rintana dentro “in una conchiglia che stava sbadigliando”, ma “che subito richiuse le valve, imprigionando Alice e tutti i suoi sogni.” Alice pensa ai suoi che sarebbero stati in pena per la sua assenza e, facendo leva, riesce a “saltarne fuori e risalire a galla.” Gianni, tu dici che “Alice non raccontò mai a nessuno quello che le era capitato”. Ma allora Alice sei tu, come lo è Giovannino Perditempo, e tutti gli altri. Oppure a qualcuno Alice ha narrato ogni cosa.
La guerra delle campane: essere in guerra significava che “noi stavamo di qua e i nostri nemici stavano di là”. Il nostro “Stragenerale Bombone Sparone Pestafracassone” fece fondere le campane per produrre “un grossissimo cannone”. La stessa idea l’ebbe il suo antagonista: “il Maresciallo Von Bombonem Sparonen Pestafrakasson”. Alla fine i due disgraziati si spararono l’uno all’altro. Entrambe le armi si limitarono a riprodurre il suono delle campane (che fesse non erano): “Din! Don! Dan!” I due condottieri “salirono sulle loro automobili e corsero lontano”, fuggendo per la vergogna.
Che bella favola. Io ne ho una che non è graziosa, anzi è un po’ bruttina. Un mio avo era il miglior campanaro del suo paesino. Vinse anche il campionato che lo elesse il miglior campanaro della regione, e giunse poi in finale ai campionati italiani, dove fu sconfitto di una mezza scampanellata. Invecchiando perse un po’ della sua saggezza e iniziò a offendere malamente chiunque lo avvicinasse. In altre parole, a forza di suonare, diventò lui stesso un pochino suonato. Purtroppo non esitava a imprecare anche contro chi era stato il suo Datore di lavoro (detto anche Dominus) ma si spera che, quando l’incontrò lassù, Quello seppe perdonarlo.
Una viola al Polo Nord: “l’orso bianco fiutò nell’aria un odore insolito”, che si rivelò una violetta, che “all’alba fu vista appassire, piegarsi sullo stelo, perdere di colore e la vita.” Cessò di vivere, ma “il suo ultimo pensiero” fu questo: “Ecco, io muoio… Ma bisognava pure che qualcuno cominciasse…”
Sono certo, Gianni, che tu hai letto Se il seme non muore di Gide. Se non ce l’hai in biblioteca, dimmelo che te l’impresto.
Il giovane gambero: che decide un giorno di camminare in avanti, andando contro la volontà di suo padre e sgomentando il resto della famiglia. E se ne va via da quella tribù, dopo aver abbracciato la madre e salutato tutti gli altri. Incontra poi “un vecchio gamberone dall’espressione malinconica che se ne stava tutto solo accanto a un sasso”, che gli dice che per la sua mania di andare all’incontrario (anche lui in avanti) ha sempre patito la solitudine. Anch’io a volte mi chiedo se è giusto essere Stefano, ma poi penso a Gianni, e mi dico di sì.
I capelli del gigante: un tipo erculeo non era furbo come i suoi fratelli, anzi, lo era, ma solo quando aveva i capelli lunghi. I suoi parenti se ne erano accorti e gli tagliavano apposta la chioma, senza lasciarla mai crescere. Un giorno il gigante s’ammalò e i fratelli, che s’erano sempre approfittati della sua ingenuità, ma che gli volevano bene, lo fecero curare, dimenticandosi nel frattempo di tosarlo. Quando gli “tornarono le forze”, egli s’alzò e “li legò come salami e li caricò sul carretto”. Li fece poi partire su un treno diretto chissà dove e disse: “Adesso il padrone sono io”.
Questa favola mi fa ricordare quella frase che disse qualcuno: se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Ogni rivoluzione reca in sé il proposito di riportare un ordine speculare a quello precedente. Questa è stata la tua favola più triste, caro Gianni.
Il naso che scappa: tu stesso, Giovanni, segnali l’origine gogoliana del racconto, che fu emozionante quando lo lessi. Il tuo un po’ meno, perché fa sorridere. Un naso scappa dal suo padrone perché è stufo de quelle unghie lunghe che lo martoriano, nello scaccherarlo. Il naso questo troppo conosciuto! Senti un po’ quanti detti arşân su questo organo poco silente: arghnêr al nêş, storcere il naso (ma anche risêr al nêş, arricciandolo); andêr a nêş: andare a naso, intuire, tirêr só ed nêş: fiutare, tirando su col naso, rumorosamente; bagnêr al nêş a tótt, bagnare il naso a tutti, dominarli; butêr in dal nêş, rinfacciare; dêr ed nêş, non gradire; dêrgla in dal nêş, rintuzzare; fêregh al nêş, farci il naso, abituarsi; fêr un gróp al nêş. fare un nodo al naso per non scordarsi; fumêregh al nêş, fumargli il naso, adirarsi; metrègh al nêş, cioè il becco; picêr in dal nêş, picchiare nel naso, rimbeccare; vèdregh fin ala punta dal nêş, portare i paraocchi.Grazie naso mio, ti sarò per sempre debitore.
La strada che non conduceva da nessuna parte: è quella che solo chi ha il cuore puro sa percorrere, per esempio Martino Testadura, che oltre ha quel muscolo cardiaco, aveva, come indica il suo nome un’ostinazione che desta sospetti, che raramente viene capita e quasi mai perdonata. Poiché la gente dice che quella strada “non va in nessun posto” e che “è inutile camminarci”, egli non riesce a evitare di seguirla, nonostante le buche e le erbacce che sono in essa disseminate. Al termine del cammino, trova un castello, dove “una bellissima signora”, che lo sta aspettando, lo saluta con allegria. Lei gli mostra tutti i tesori, regalandogli tutto quello che vuole. Martino riparte verso il suo paese, dove “fece grandi regali a tutti, amici e nemici,”, e dove narra la sua strabiliante avventura. Subito molti si precipitano “giù per la strada che non andava in nessun posto”. Nessuno trovò nulla, “la strada, per loro, finiva in mezzo al bosco contro un fitto muro d’alberi, in un mare di spine.” Della strada che conduce ad Amalfi amo tutto, le chiese con le cupole multicolori, quella di Vietri, con i suoi cinque negozi affiancati in cui si vendono oggetti di ceramica, coi due faraglioncini appaiati, la chiesetta di Cetara, il cancello ghiaioso, verso Capo d’Orso, sempre chiuso, eppure sono anni che io e lui ci vogliamo bene, forse perché non reca da nessuna parte, o forse solo a se stesso, e il mare azzurro cobalto, e le montagne del Cilento lontane, che oggi magicamente s’intravedono, l’aria è tersa più che mai, eppure siamo già in autunno, e fra poco è Natale.
Lo spaventapasseri: Gonario, “l’ultimo di sette fratelli”, trova lavoro come spaventapasseri incendiario. “… faceva su e giù per i campi, e di tratto in tratto si fermava e dava fuoco a un pizzico di polvere”, spaventando così gli uccelli. “Una volta il fuoco si appiccò alla giacca di Gonario”, per cui si deve tuffare “in un fosso”, spaventando “le rane, che fuggirono con clamore, e il loro clamore paventò i grilli e le cicale, che smisero per un attimo le cicale.” Gonario era rimasto scioccato da quell’avvenimento, tanto che “i passeri si fermarono su un albero a guardarlo”, senza poterlo consolare: avete mai visto uno spaventapasseri consolato da dei pennuti? Questo è il mondo, ognuno vede nell’Altro un antagonista o, quando va bene un concorrente. E se è un amico, non bisogna mai abbassare la guardia. Solo gli amici possono tradirti.
A giocare col bastone: “Un giorno il piccolo Claudio giocava sotto il portone, e sulla strada passò un bel vecchio con gli occhiali d’oro.” – chissà perché erano aurei?! Al vecchio cadde un bastone e “Claudio fu pronto a raccoglierlo” e a porgerlo al vecchio, che glielo volle regalare. Il ragazzino scoprì ben presto che il abstone era magico. Bastava che lo picchiettasse per terra e succedeva un po’ di tutto. Verso sera Claudio rivide il vecchio, che gli parve un “signore qualunque, un po’ affaticato dalla passeggiata”. Provò a restituirgli quel bastone magico, ma lui non lo volle. A lui non seriviva più di tanto, si sarebbe pittosto appoggiato al muro. Se ne andò poi “sorridendo, perché non c’è più felice al mondo del vecchio che può regalare qualcosa ad un bambino.” – che forse gli ricorda qualcuno, chissà… Perché i maghi usano una bacchetta, che in questo caso ha la forma di un bastone? Ci ho pensato su e ho forse capito (ma potrei sbagliare). L’uomo è l’unico animale che crescendo perde due zampe e poi quando è ormai tardi ne acquista una. Ma, quando ha raggiunto inseguito la sua magia, può soltanto regalarla.
Vecchi proverbi: sono indicati tanti proverbi, ognuno col suo carattere e significato. L’ultimo è “Quando la pera è matura casca da sé”. Io ne uno che gli assomiglia in parte: da un pòm a’ n pōl mia nâser un pîr. Io sono figlio di mio padre e di mia madre, nonché nipote dei miei nonni.
L’Apollonia della marmellata: c’era una volta la signora Apollonia che era una maga della marmellata. Tutti l’amavano perché lei donava a chiunque la sua arte, senza chiedere nulla. A una disgraziata fece una marmellata di ortiche, tale “da leccarsi le dita.” L’Imperatore “volle provare anche lui la marmellata dell’Apollonia, e lei gliene dette un piattino, ma l’imperatore dopo la prima cucchiaiata si disgustò, perché c’era caduta dentro una mosca.” La signora Montanari una volta mi disse che quando staccava una ciliegia dall’albero non gli dispiaceva se ci trovava un baco dentro. Oltre che la frutta, diceva, avrebbe finalmente mangiato anche un po’ di carne. Era una donna semplice e abbastanza povera, la signora Montanari.
La vecchia zia Ada: era una buona donna, che “tutte le mattine sbriciolava un biscotto su davanzale”, prima per un uccellino, poi per “i suoi piccoli”. Poi la zia Ada morì. E gli uccellini attesero invano quelle briciole. E un po’ se la presero con chi li aveva abituati così bene, non sapendo della sua dipartita. Anche mia madre, anche quando la senilità l’aveva colpita, continuò a mettere dei pezzetti di pane sul davanzale. Un giorno li lasciò cadere nell’appartamento di sotto. Quando la vicina mi fermò per dirmelo, con un tono di voce che non mi piacque io le risposi peggio ancora. E ancora me ne dolgo.
Il sole e la nuvola: si parla di quell’astro a cui dobbiamo qualcosa, in pratica tutto. Una nuvola non capiva granché del suo dono quotidiano al mondo, e si lamentava come fanno certe bisbetiche. Il sole non rispondeva affatto alle sue provocazioni. “Solo al tramonto contò i raggi che gli rimanevano: e guarda un po’, non gliene mancava nemmeno uno. La nuvola, per la sorpresa, si sciolse in grandine. Il sole si tuffò allegramente nel mare.” Era la fine di febbraio, a Pixuntum, e faceva un freddo cane. Un mattino il tempo parve cambiare, ma non faceva ancora caldo, nonostante che la primavera fosse lì lì per venire. A sera uscì uno straordinario sole. Dal mare s’alzò, per ripicca, una folta nebbia, e quell’astro annegò dentro di essa. Il re che doveva morire: “era malato a morte e si disperava.” un mago gli disse che aveva una sola speranza di salvarsi: doveva cedere il comando “all’uomo che ti somiglia più di tutti gli altri”. Furono fatte ricerche e si convocarono numerosi pretendenti a quel tragico trono: nessuno riusciva a soddisfare quel criterio di somiglianza. Un mago vide “un mendicante storpio, gobbo, mezzo cieco, sporco e pieno di croste”: andava benissimo! “Ma il re non volle assolutamente ammettere di assomigliare al mendicante. Tornò al palazzo tutto imbronciato e quella stessa sera morì, con la corona in testa e lo scettro in pugno.” Quale morale trarre dalla fiaba, se non l’unica possibile? I due erano fratelli senza manco saperlo.
Il mago delle comete: “Una volta un mago inventò una macchina per fare le comete. Somigliava un tantino alla macchina per tagliare il brodo…” – ma a nessuno interessò. Allora “una sera che aveva più fame del solito trasformò la sua macchina per fare le comete in una caciotella toscana e se la mangiò.” L’importante nella vita è contentarsi e tirare avanti. Vedrai che un giorno anche le comete serviranno a renderti più felice. È più importante l’anima o la pancia? Mentre rispondi, vado a cena.
Il pescatore di Cefalù: un giorno pescò un pesce che era invece un bambino, piccolissimo. Se lo portò a casa e lo sfamò, nonostante che il suo appetito fosse enorme. Il bimbo-pesciolino gli indicò dove pescare. E la barca fu riempita di ogni ben di dio. “In breve tempo il pescatore arricchì, comprò una seocnda barca, poi una terza, poi tante…” Divenne sempre più ricco, e mentre le cose gli andavano sempre meglio, lui iniziò a maltrattare i suoi dipendenti: “li pagava poco, e se protestavano li licenziava.” Il bimbo-pesciolino lo avvertì che “quel che è stato fatto si può disfare”. Il pescatore lo pigliò e lo gettò a mare. La tua storia finisce con un interrogativo: “Voi cosa fareste” al posto del bimbo pesciolino? La mia risposta è nulla, già aveva fatto troppo.
Il re Mida: tutto quello che toccava diventava oro. Non ne poteva più, la sua vita non era d’oro, ma di c.. Si rivolse al mago Apollo che gli fece un incantesimo, che però richiedeva un tempo di “sette ore e sette minuti giusti”. E gli disse che “in questo tempo tutto quello che toccherai diventerà cacca di mucca.” Secondo voi il suo orologio funzionò, oppure andò avanti, diciamo di sette minuti? Se ci si pensa quello che ci cambia la vita sono i brevi avvenimenti. Non l’eterno tempo che li ha preceduti.
Il semaforo blu: che non era né rosso né verde né giallo. Nessuno seppe cogliere l’occasione per volare Altrove. Io sì. Perché ora veleggio nel prossimo racconto che si intitola:
Il topo che mangiava i gatti: era un topo di biblioteca, che amava leggere, pardon, mangiare gatti, cani e persino rinoceronti, che sapevano “di carte e d’inchiostro.” Intendeva: le figure di cani, di gatti e di rinoceronti. E anche “un elefante, un frate, una principessa, un albero di Natale.” Mentre il topo di biblioteca riesce a sfuggire a un gatto in carne e ossa, io ricordo quella volta che mia moglie fu invitata a casa da una vicina che, scusandosi del disordine, disse che c’erano dei gatti fin sotto il letto, ma che non aveva fatto in tempo a lavare il pavimento. Mia moglie si chinò per vedere l’ungulato felino e solo dopo che si rialzò la donna le spiegò che, in arşân, gât sono i batuffoli di polvere che nascono per germinazione spontanea ovunque, ma soprattutto sotto il letto.
Abbasso il nove: “Il tre nel tredici sta quattro volte con l’avanzo di uno, scrivo quattro a quoto. Tre per quattro dodici, al tredici uno. Abbasso il nove…” – e qui cominciano le incomprensioni e con esse i guai per lo scolaro che sta computando. Un po’ come quella volta che tentai di estrarre la radice quadrata di un albero. Rischiai l’ernia discale, non riuscendovi.
Tonino l’invisibile: il sogno di ogni scolaro, il mio per esempio, diventare invisibile al momento dell’interrogazione. A Tonino riuscì. Ma poi non fu più capace di tornare in questo mondo, dove è difficile sfuggire ai propri impegni. Finalmente incontrò il solito vecchietto (che nei tuoi raccontini non mancano mai, specialmente quando non si sa che pesci pigliare), che lo vede “tutti i giorni andare e tornare da scuola.” Egli fa parte degli invisibili e gli dice: “Di me non si accorge nessuno. Un vecchio pensionato, tutto solo, perché mai i ragazzi dovrebbero guardarlo?” Tonino si sentì salvato e ringraziò l’anziano. Non vale tanto la presenza fisica quanto il valore che si ha. Né serve celarsi, quando si è innocenti. A volte lo si fa per timidezza, o per una momentanea necessità.
Una volta fu organizzata una partita di calcio aziendale. A me è sempre piaciuto giocare a pallone ma ero un po’ fuori allenamento. Decisi però d’impegnarmi. La sfida era contro quelli della sede di Parma. Chi s’era assunto il ruolo di allenatore decise che io dovevo giocare in difesa e m’indicò l’attaccante da controllare. Per tutta la partita né lui né io toccammo la palla, tanto lo marcavo come un francobollo che è azzeccato a una lettera. Quando la partita finì (8 a 6 a nostro favore) sentii qualcuno chiedere, mentre era sotto la doccia: Stefano non è poi riuscito a venire? Di me s’era accorto solo il mio avversario, che per tutto il tempo aveva imprecato, perché non fu mai servito dai compagni.
Tante domande: del tipo: “Perché i cassetti hanno i tavoli?”, oppure: “Perché le code hanno i pesci?”, o anche: “Perché l’ombra ha un pino?” Faceva sempre la domanda opposta a quella che ci si aspettava. Ancora: “Perché la barba ha la faccia?” Dopo la sua morte si scoprì l’arcano: per tutta la vita s’era messo le calze al rovescio “… e così non aveva mai potuto imparare a fare le domande giuste. A tanta gente succede come a lui.” A me, per esempio. Mia madre era molto arguta. Quando mi capitava di uscire mi gettava sempre un occhio e a volte s’accorgeva che avevo la maglia col davanti nel di dietro, oppure il dritto nel rovescio, e m’avvertiva, senza umiliarmi. Diceva: Tótt i cojòun în bòun a mèterla ala dréta, ma per na volta fa finta d’èsser cojòun! Insomma, dovevo fingere di essere come tutti gli altri. Non so se mia mamma, che era severa ma anche benevola, m’abbia reso migliore. Di sicuro ha informato la mia anima.
Il buon Gilberto: sua mamma gli fece l’esempio di Filomena, che era così legata alla sua genitrice che “le porterebbe l’acqua nelle orecchie.” Gilberto, non era invidioso, ma buono. Aveva però il vizio di prendere tutto alla lettera. Cercò di imitare l’esempio di Filomena, non avendo capito che era un’allegoria. Le sue orecchie non riuscirono a portare l’acqua alla mamma assetata, e questa gli diede due scapaccioni. Allora decise di usare il secchio.
La parola piangere: lo dici all’inizio che “questa storia non è ancora accaduta, ma accadrà sicuramente domani.” – e poi narri di un paese in cui non sanno la parola “piangere” e nemmeno cosa siano le lacrime. Potrei sbagliare, ma ti dico cosa disse mia nonna Palmina a proposito di un litigio che c’era stato fra due figli suoi. Quando pretese la spiegazione, gliela diedero e poi le chiesero perdono, ognuno attribuendosi la colpa. Non sempre era così e la nonna prese la cosa con allegria. Poi disse ai miei zii che era normale litigare ogni tanto, purché non si esagerasse. E indicò Fabio, il loro cugino, che era un po’ ritardato, ma sempre sereno. Disse che quello non si arrabbiava mai perché non era normale. Non disse di seguire il suo esempio, ma di moderare un po’ il loro carattere.
La febbre mangina: il nonno fa da medico alla bambola della nipotina, che si ammala quando lei ha un po’ di febbre, “per farle compagnia”. Il dottore della bambola prescrive: “sciroppo di matita blu” e “massaggi con una carta di una caramella all’anice”. Poi diagnostica “un po’ di raffreddore, un po’ di raffreddino e due etti di fragolite acuta”, guaribile con “queste pastiglie di stupidina sciolte in un bicchiere di acqua sporca”, da servirsi però “in un bicchiere verde perché i bicchieri rossi gli farebbero venire il mal di denti.” Quando “la bambina si sveglia guarita”, il nonno “vuole visitarla personalmente” e le dice: “… dica trentatre… dica perepepè… provi a cantare… tutto a posto: una magnifica febbre mangina.” Di andare a scuola mica avevo tanta voglia e questo fin da bambino e in questo fui davvero precoce. A volte fingevo di non svegliarmi e mia mamma mi scuoteva tanto forte che capivo che non l’aveva bevuta. Poi m’inventavo dei mali immaginari, che rientravano tutti in un’unica tipologia: la cosiddetta schitumbice, il cui etimo mi è ignoto. Quando mostravo dei sintomi un po’ dubbi, mamma mi diceva sa gh’ét la schitumbice?
La domenica mattina: Francesco fin dalla sua prima età “mostrava già molta inclinazione per la medicina e la chirurgia”. Quando suo padre Cesare si faceva la barba col rasoio, suo figlio “si sedeva sullo sgabello ad aspettare” che se si feriva, avrebbe potuto curarlo. Suo padre gli voleva tanto bene che si tagliava apposta. E così “Francesco poteva entrare in azione. Asciugava la stilla di sangue a suo figlio, disinfettava e attaccava il cerotto.” Quando ero sui dodici anni facevo a gara con Carletto a chi aveva più sbucciature nel ginocchio. Secondo voi, chi vinceva?
A dormire, a svegliarsi: “C’era una bambina che ogni sera, al momento di andare a letto, diventava piccola piccola…” – a volte diventava “una formica”, oppure “una farfalla”. Poi ricresceva. E “con uno strillo balzava dal letto e cominciava la nuova giornata.” Mia mamma non era magra, anzi, aveva un fisico da contadina, con dei bei muscoletti. Da anziana e per la malattia che aveva, era diventata assai magra e i muscoli erano spariti. Poi anche lei svanì del tutto, una sera, dopo aver cenato e dopo che l’avevamo messa a letto. Ora la ricordo come quando io ero piccolo: immensa, autorevole e a tratti dolcissima.
Giacomo di cristallo: “Una volta, in una città lontana, venne al mondo un bambino trasparente”, che “si chiamava Giacomo” e “la gente gli voleva bene per la sua lealtà…” – anche perché, essendo trasparente come un cristallo, le bugie si sarebbero notate subito. A causa della sua sincerità non sapeva adeguarsi alla verità di regime, e il tiranno del paese lo fece sbattere in prigione. Poi successe il miracolo: anche la prigione divenne di cristallo e “spandeva intorno una grande luce”.
Morale: “… la verità è più forte di qualsiasi cosa, più luminosa del giorno, più terribile di un uragano.” Dimmi Gianni il perché a Pixuntum si dice che chi rice a verità vol ess’accisu? Durante il fascismo, c’erano i fanatici del duce, e c’erano gli oppositori, che pagarono con la vita, oppure dovettero scappare. Giuseppe Prezzolini sceglie di diventare un apote, uno che non intendeva bere la verità di regime. Ognuno ha il diritto di scegliere l’eroismo che fa per lui.
Le scimmie in pagine: “le scimmie dello zoo decisero di fare un viaggio di istruzione, andando di qua e di là, girando in tondo”, dapprima meravigliandosi per “come è istruttivo viaggiare”, per poi finire per tediarsi per “come è noioso il mondo”. Esse “viaggiavano, viaggiavano, ma non erano uscite dalla gabbia, e non facevano che girare in tondo come i cavalli della giostra.” Giro giro tondo, casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terra! – così si diceva una volta, e pure adesso, che il mondo è piccolo come un cervello umano, coi suoi collegamenti elettrici e chimici.
Il signor Fallaninna: era un tipo “tanto delicato che se un millepiedi camminava sul muro lui non poteva dormire per il rumore e se una formica lasciava cadere un granellino di zucchero balzava in piedi spaventato…”. Temendo “la polvere sotto i piedi” quando doveva per forza camminare, “si faceva portare in braccio da un servitore molto robusto”, che si chiamava Guglielmo, che un bel dì, stanco per tanta fatica, lo buttò dalla finestra. Fallaninna “cadde su una cacchetta di mosca e si fece una macchiolina sui calzoni”, che manco si vedeva a occhio nudo, ma Fallaninna “era tanto delicato che morì dal dispiacere.” Nel mio condominio c’era un anziano che si chiamava non dico come. A Nondicocome non volevo male, ma era pesante con noi ragazzini e si lamentava sempre perché facevamo rumore e a volte pestavamo il suo orto (ammetto che era così). Poi Nondicocome diventò sordo e dovette usare il bastone per camminare. Essendo un po’ grosso nessuno della sua famiglia era in grado di portarlo in spalla. Rimase sempre chiuso in casa, silente al mondo e il mondo silente a lui. Infine fu infilato in una buca, che venne ricoperta con della terra. Andò a vèder al pianti da la pêrta dal raîsi, che è quella che non vediamo mai se non in quel momento.
Uno e sette: sette amici di sette città differenti, ma che sono poi la stessa persona, hanno solo il nome diverso. Fra tutti il mio preferito è il cinese, che e si chiama “Ciù”. Io conoscevo suo cugino, che si chiamava Et-Ciù, e che era sempre raffreddato.
L’uomo che rubava il Colosseo: giorno dopo giorno, uno strano tipo si prendeva un pezzo di quel celebre monumento e so lo portava a casa, prima in cantina e poi in solaio, poi “sotto i divani, dentro gli armadi e nella cesta della biancheria sporca”. Ormai non sapeva più dove mettere quei reperti archeologici. Ma lo stesso si diresse al Colosseo, e lo trovò che “era sempre al suo posto, non gli mancava un arco.” – qualcosa non quadrava. Era quasi morente, quando tornò in quel mitico luogo e finì per capire che le due parole mio e nostro sono ugualmente legittime, ma la seconda lo è di più, prima inter pares. Quel che manca alla mia città è una pinacoteca di un certo livello: ne esistono un paio che non sono male, nulla di eccezionale (a parte un presunto El Greco e dei dipinti di artisti reggiani dell’800). I depositi dei musei e gallerie più grandi d’Italia sono intasati da opere egregie che nessuno potrà mai ammirare, se non qualche eminente e fortunato studioso. Ti chiedo, Gianni, di farti promotore, sempre che Lui ti dia una licenza, dell’iniziativa che da anni ho in mente: destinare ai musei delle altre città quelle opere neglette. Senz’impegno, con tanto amore.
Ascensore per le stelle: “A tredici anni Romoletto venne assunto come garzone al bar Italia”. Il più esigente dei clienti era un certo “marchese Venanzio” che aspramente criticava il benché minimo ritardo delle sue ordinazioni. Un giorno, non so come, prima di arrivare da quel rompiscatole, Romoletto aveva attraversato il mondo intero e buona parte del sistema solare, o almeno così gli parve. Quando giunse fu ovviamente mal redarguito per il ritardo. La cosa positiva era che “le bevande erano ancora ghiacciate a puntino”.
Il filobus numero 75: anziché verso Piazza Fiume, si diresse verso Civitavecchia, tra le proteste dei seri professionisti che tanta fretta avevano di andare a guadagnare il soldino. Poi qualcosa accadde e tutta quella pregiata marmaglia sembrava contenta che il filobus “andò a fermarsi sulle soglie di un boschetto fresco e profumato.” Quando guardarono i loro orologi, videro che “segnavano ancora le nove meno dieci.” Albert (Einstein) fu il primo scienziato moderno che disse che il tempo era un’illusione, ma poi lo inserì nello spazio, di cui divenne la quarta dimensione. Julian (Barbour) proclamò The End of Time. Stephen (Hawking) tentò una volta di scrivere la sua Breve storia. Pare che tutti i tentativi di parlarne siano rimasti carenti di qualcosa, forse per mancanza di tempo. Lo dice il detto che, per la pressia, la gatta fece i micini cecati.
Il paese dei cani: Giovanni Perdigiorno si recò in un paese dove la gente, che aveva sempre parlato il meno possibile, disimparò a farlo e ormai solo abbaiava: “le novantanove villette sembravano diventate novantanove canili”. Andò a parlare col sindaco, che gli rispose: “Bau! Bau!” A me vien in mente un detto: uomo che parla non morde. Per questo bisogna sempre dire la propria, senza però offendere.
La fuga di Pulcinella: che “era la marionetta più irrequieta di tutto il vecchio teatrino”. Lui, che odiava i suoi fili, un bel giorno scappò. Aveva tanta fame e freddo. Non morì però: “perché le marionette non possono morire.” Fu seppellito dalla prima neve, “sotto una morbida coperta bianca”. Ed è ancora, per quel che si sa, là sotto, ma si prega, in caso di ritrovamento, di non attaccargli “un filo in testa”. L’uomo ha bisogno di libertà, nonché di legami. Di solitudine, nonché di compagnia. Sic homo est. Quando Atropo reciderà quel filo, si potrà confidare nella memoria di chi rimane quassù, o quaggiù (e questo è il compito della scrittura).
Il muratore della Valtellina: fece una brutta fine, quando “cadde nella gettata di cemento armato”, e sparì, “chiuso in uno dei pilastri della costruzione, e ci stava un po’ stretto, ma a parte questo pensava e sentiva come prima.” Quando una bomba distrusse l’edificio, egli morì per davvero. Quando giro per la mia campagna ogni tanto incontro dei vecchi ruderi abbandonati, che nessuno più cura e non vuole nemmeno vendere, in attesa di chissà quale occasione. Intanto quei muri paiono gemere per tanta indifferenza umana. Io so cosa significhi fare il muratore, perché fui garzone. Non ero eccezionale, ma secondo il mio maestro (così lo chiamano ad Amalfi) una volta dimostrai tutto il mio valore: con una martellina scrostai tutto l’intonaco di una parete. Chissà che cosa lei avrà pensato di me.
La coperta del soldato: il piccolo Gennaro fu ceduto a dei girovaghi, che lo portarono un po’ dappertutto e gli insegnarono le lettere dell’alfabeto. E tu concludi così: “E che bella storia è questa, anche se non finisce e rimane lì, a mezz’aria, come un punto interrogativo senza risposta.” Non se se hai capito che io odiavo andare a scuola. Per evitarla fingevo a volte di aver mal di milza (m’ero scordato di dirtelo): due volte su tre fingevo, una mi faceva male davvero. Ricordo con piacere le figure della abbecedario: quella ventina di esserini che ancora mi sanno emozionare. Non c’è nulla di più bello che pigliarle dalla scatola (cranica) e di metterle in fila, come tante ochette.
Il pozzo di Cascina Piana: le famiglie sono divise e ognuno va a raccogliere l’acqua dal pozzo utilizzando una propria corda, non fidandosi di lasciarla in mano d’altri. Poi accade un miracolo: qualcuno accoglie nella sua casa un partigiano che era molto ammalato e lo nascose nel granaio. Fu poi chiamato il medico che cominciò a curarlo. Tutte le donne del paesino, pensando “ai loro uomini lontani”, presero a ben volere quel disgraziato e a portargli ogni ben di dio. Quando il partigiano, guarito, uscì e vide la corda, “le donne, arrossendo, gli spiegarono che ogni famiglia aveva la sua corda.” Allora capirono “che erano diventate amiche e sorelle, e non c’era più ragione di tenere undici corde”. E “decisero di comprare una catena, coi soldi di tutte le famiglie, e di attaccarla alla carrucola.” La sorte di quel disgraziato era stato il collante che era mancato fino ad allora. C’è chi si chiede perché Cristo si sia fatto crocifiggere, lui che era figlio unigenito di Dio. Ma tu, Gianni, confideresti in chi vive tra gli agi e l’indifferenza verso il prossimo? E in chi vuol dominare sugli altri senza donare il suo sangue?
Case e palazzi: un muratore ha costruito case in tutto il mondo, ma poi era finita che era “rimasto senza casa” e ora viveva in un ricovero: “… così va il mondo, ma non è giusto.” Quando dicono che la giustizia non è di questo mondo, cosa intendono? In quale altro mondo si vorrebbe esistere? Non certo in un luogo dove a comandare è un Altro, ma questo è un brutto discorso, lo so.
Il maestro Garrone: si lamenta che la scuola era “tale e quale di mio nonno Garrone e dei suoi compagni”, i ragazzi di Cuore, per intenderci. “Ma chi mi aiuta?”, ti domanda. La Befana è troppo impegnata coi regali, anche se pare che essi d’ora in poi arriveranno col corriere (che costa meno). È un mondo di m… Una volta a Natale la neve nascondeva quell’aulente massa marrone, che ora invece si attacca ai piedi e la sua puzza dura un anno esatto. Poi ne spalmeranno della nuova.
Il pianeta della verità: un certo “Brun” che abitava nel “pianeta Mun” inventò, tra l’altro, “la macchina per dire le bugie, che funzionava a gettoni.” Il bello fu che in breve, essendo molto veloce e prolifica, finì le bugie da raccontare e “la gente fu costretta a dire sempre la verità.” Se Borges disse che la memoria è fatta di oblio, allora si può anche dire che ogni bugia è fatta di verità. E viceversa.
Il marciapiede mobile: “Sul pianeta Beh hanno inventato un marciapiede mobile che gira tutt’intorno alla città.” Una cosa simile la vidi qualche anno fa in un fumetto, forse fosti tu a ispirare l’autore. Ora capisco perché una volta, che ero a Milano con papà, un vigile si avvicinò a un gruppetto di persone e disse loro: dovete marciare coi piedi, sennò che marciapiede è! E questi cominciarono a camminare per i fatti loro e si dispersero nella nebbia mista al fumo delle fabbriche.
Cucina spaziale: dico solo un antipasto: “Ghiaia di fiume in salsa di tappi”; una minestra: “Rose in brodo”; una pietanza: “Tristecca di ferri” (di quelle che amano Tex e Carson, alte tre dita, con una montagna di patatine dislessiche). Ti dico una cosa che non vorrei evitare, ma talvolta mi capita: magnêr dla râbia: preferisco la gomma da masticare arabica.
La caramella istruttiva: ora andiamo sul pianeta Bih, dove “non ci sono libri”. Quasi quasi me ne scappo su pianeta Buh! A volte mi sembra che tu sia in una specie di Sistema Solare invisibile che non sarebbe spiaciuto a Italo (Calvino). Qui “per i bambini dell’asilo ci sono delle caramelle istruttive”, che fanno imparare un po’ di tutto. Quando la desti alla tua bambina, lei “ha cominciato subito a recitare una buffa filastrocca nella lingua del pianeta Bih”, che tu riporti, io no. Anche perché pure “io non ci ho capito niente”. Ti dico ora la mia prima poesia (avevo già dodici anni, essendo un po’ ritardato): sono un poeta, non ho la pancia, ho l’epa.
Il pulcino cosmico: il quale arriva a Pasqua dentro a un “uovo di cioccolata”. Egli viene da un pianeta il cui tempo è successivo al nostro di un quarto di secolo. Quindi è arrivato venticinque anni prima di quando è partito (forse è andato più lento della particella più lenta che ci sia: il po-lentone).
Non voglio dire null’altro che la sua missione è d’incontrare l’agente segreto che lo riporterà a casa (ma allora che cavolo di missione è? Gli sarebbe bastato non partire!). Lo trova: è “Gino Tibolla” il figlio del professore. Il pulcino cosmico è contento, io pure perché posso volare fino al racconto successivo.
Processo al nipote: “Rossi Alberto” è accusato di aver offeso un parente dicendo che “lo zio è padre di tutti i vizi”. Poi la verità viene a galla: s’era scordato un apostrofo, intendendo “l’ozio”.
Gianni, ti offendi se passo già al prossimo, il cui titolo però non promette nulla di buono?
A sbagliare le storie: si parla di “Cappuccetto giallo”, che poi diventa “Cappuccetto Rosso”, poi “Cappuccetto Nero” e poi fa così tanti errori nella trama che chi lo sta ad ascoltare non può fare a meno di dire: “Nonno, tu non sai proprio raccontare le storie, le sbagli tutte.” A quel povero avo confesso una mia colpa giovanile: scrissi una volta (ero già più che trentenne) la favola incredibile di Cappuccetto Rotto. Un giorno, se capita, te la racconto.
Promosso più due: è l‘amena e tragica storia di “un dieci” che a forza di operazioni molto delicate ma necessarie diventò prima “un otto”, poi “un quattro” e poi finalmente “un dodici”. E risolse per il momento il suo problema di autostima.
L’omino di niente: “Niente” da segnalare, se non che è il penultimo racconto.
Storia universale: che è così universale che sta in meno di mezza pagina. È un invito rivolto a chi legge (me compreso): “rimboccatevi le maniche, c’è lavoro per tutti quanti”. Prima di coricarsi, mamma si lavava per bene i piedi e si rinfrescava un po’ dappertutto. Poi andava a nanna e quand’era ancora nel corridoio, diceva fra sé e sé, incurante se qualcuno l’ascoltasse: Che bela invensiòun l ē al lètt! Questa era la sua vacanza, assopirsi la sera. Anche la mia, che sonno m’è venuto all’improvviso! La mattina dopo ti chiedo se hai notato che ho parlato di tutti i tuoi racconti, avendoli tutti scalati, ma non con eguale attenzione. Ci tornerò forse un giorno? Questo è… come diceva Totò, indicando un ombrello: ovvio!
Pare che Messner, dopo aver raggiunto la vetta di 11 vette alte più di 8.000 metri, si sia fermato a 50 metri dalla cima dalla dodicesima e ultima. Voleva lasciar qualcosa d’incompiuto, per poterlo un giorno ritentare. La mia infanzia è appena agli inizi e un giorno tornerò da queste bande.
A Cogne l’estate scorsa sorbii, meditando, il mio primo e al momento unico caffè valdostano, e dal tavolino di quel bar potei ammirare il Massiccio più bello delle Alpi. Secondo me è più facile salire in Paradiso che scalare tutte le sue cime in un’unica giornata, o in un’intera vita. Poco fa scesi in strada e mi diressi verso via Adua. Scorsi un’automobile, parcheggiata sulla sinistra, che a un certo punto si mosse verso di me. L’autista mi vide e frenò, non senza gridarmi qualcosa col viso arcigno. M’avvicinai al finestrino e gli feci segno d’abbassarlo. Questo fu il dialogo fra le nostre due anime gementi:
Hai bisogno di parlarmi?
Eh?
Cosa stavi dicendo poco fa?
… boia!
Eh?
… boia!
Ah! Secondo me tu sei una gran brava persona!
… non sono una gran brava persona!
Ciao!
Ciao!
L’avevo provocato, compiendo una piccola rodarata, parlando per antifrasi e con tono ironico. Lui poteva scendere dal veicolo e decidere di venire alle mani. Non lo fece, anzi mi parve un po’ imbarazzato, non aspettandosi forse la mia reazione. Poteva andare peggio. Ma non sempre funziona usare deridere gli errori del prossimo. In genere è pericoloso. Meglio farlo scrivendo, che vivendo. Non so, però.
Bisogna sempre capire quali siano le cose da dire e da fare, e cosa è meglio trattenere dentro di sé.
Prima del tuo libro avevo letto un romanzo di Süskind il cui profumo mi aveva sconvolto. I tuoi raccontini brevi e infiniti, e così semplici in maniera tanto complessa, m’hanno aiutato a ritrovare il mio buon umore. Hanno svolto una funzione da analgesici: non curano il male di vivere, non rimettono in piedi un cavallo stramazzato, ma scorrono e gorgogliano come rivi a volte strozzati, e s’incartocciano anche come foglie riarse.
Gianni, per te “la fiaba è il luogo di tutte le ipotesi: essa ci può dare delle chiavi per entrare nella realtà per strade nuove, può aiutare a conoscere il mondo…” Noi bimbi siamo l’unica speranza che abbiamo per il domani.
“I bambini capiscono più di quel che noi sospettiamo, sono disponibili per ogni audacia, non soffrono di schematismi, ignorano i regolamenti ufficiali dei generi letterari, apprezzano l’umorismo, adorano i giochi di parole, distinguono a occhio nudo le immagini piene da quelle vuote, le fantasie ben nutrite di realtà da quelle puramente automatiche…”
Accetto e condivido i complimenti e ti aspetto alla prossima. Arrilleggerci!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Gianni Rodari, Favole al telefono, Einaudi