“Io che conosco il tuo cuore” di Adelmo Cervi: la storia di un Padre partigiano raccontata da un figlio
Ho appena finito di leggere Figlia della cenere, ultimo noir di Ilaria Tuti, in cui si dice che un serial killer è insieme un assassino e un artista, che dispone di una grande immaginazione, ed è dotato di una tecnica superiore all’omicida casuale. Non so, è probabile. Come lo è il fatto che anche il commentatore compulsivo di testi altrui sia una persona non del tutto normale che si pone degli obiettivi nella sua scrittura, che non scrive tanto per scrivere, ma perché ha la necessità impellente di farlo, come se dovesse partorire un vitello o andare di corpo in aperta campagna. Un’altra caratteristica di questo ignobile lettore è che spesso, per capire meglio l’autore analizzato, ne assume in parte le sembianze.
Il serial reader innanzi tutto deve seguire la sua vittima e colpire solo allorché il suo estro glielo consente. Se spera di essere autonomo nella decisione, si sbaglia di grosso, perché è la vittima che lo chiama quando pare a lei. In alcuni casi è solo alla fine del tragitto che egli può iniziare la sua azione. In altri casi è a un certo punto, allorché s’imbatte in un richiamo più forte di quanti lo hanno preceduto. In altri ancora, come nel presente (come definirlo?, romanzo, biografia, memoriale?), nel presente resoconto scritto da Adelmo Cervi, insieme a Giovanni Zucca, è stato Adelmo stesso che, a pagina 18, al primo capoverso del capitolo 3, gli ha lanciato il fischio d’intesa.
“È una domenica, potrebbe anche essere il lunedì dopo, ma viene più bella raccontata come se fosse una domenica, e dev’essere per forza una bella giornata, magari di primavera, con l’aria profumata e il sole e gli uccellini che cinguettano, e la campagna intorno che sembra il posto più bello del mondo – che poi lo è davvero.”
A casa mia sono le 21,35 e alcune cose non vanno bene, altre sì. Ma questa non è la mia storia, bensì quella di Adelmo su cui, come un virus che ha preso alloggio in un batterio, mi sto cercando d’ambientare e proliferare a poco a poco.
Ora m’accorgo che avevo sottolineato alcune righe nella pagina precedente, ma si vede che non bastava perché sgorgassero le prime gocce dal mio naso (siamo in piena pandemia, che mi pare un pleonasmo e forse lo è; e il primo sintomo del male dovrebbe essere lo sgocciolamento da una narice e nel mio caso è la sinistra, dove ho una stenosi procuratami da una caduta occorsami quando avevo tre anni mentre stavo correndo verso il venditore ambulante di coni gelati).
Di pagina 18 intendo tramandare queste parole: Aldo, padre di Adelmo, detto “Gino dei Rubàn” a chi gli ricordava che era domenica, “replicherà che è sempre il momento giusto, perché la politica, vedi, la politica non si riposa mai, e la lotta per il progresso delle classi sociali mangia tanta energia, ci ha bisogno di ogni minuto possibile, anche di questo, quindi come ti stavo dicendo…” – e i puntini li ha messi Adelmo su quanto ipotizza che il padre ha detto, e non io.
Esiste pertanto il serial politic, quello che non smette mai di esserlo o di pensare d’esserlo, neanche quando dorme: tót i cajòun a gh ân la só pasiòun! So qual è la mia, so qual è quella di Aldo, ma ancora ignoro cosa abbia costretto Adelmo a scrivere questo libro che non so come catalogare: romanzo, biografia, memoriale?
Diomira ha preferito le braghe del suo moroso alla veste del parroco e al fratello în scapê i cavâj, sono scappati i cavalli, s’è incazzato: “La domenica si va alla santa messa, sempre. Perché bisogna andarci, lo dice il parroco, lo dice il papa, lo dice il Vangelo!” – e non ci sono né santi né madonne, perché lo dice Aldo detto, “Gino dei Rubàn”, uno che “ha tre anni meno di lei, che è venuta al mondo nel novecentosei, però è maschio e i maschi comandano.”
Brutto affare il maschilismo che, come il futuro, è fatto di passato e ha il cuore antico, ma non per questo è giusto, ma allora funzionava così. Ora un po’ di meno.
Qua c’è un problema: anche pagina 20 è zeppa di sottolineature ed è meglio che faccia finta di non vederle, sennò non me la cavo con dieci pagine di reazione (è così che io chiamo le mie recensioni che tutto sono tranne che analisi sintetiche, ma a volte davvero esagero).
Vuoi sapere, Adelmo, perché sto leggendo il libro Io che conosco il tuo cuore? Perché quel pomeriggio non mi erano piaciuti certi tuoi commenti su quei dimostranti che per caso stavano facendo perdere tempo alla corriera CGIL che ci stava portando a casa da Milano, dove avevamo partecipato alla manifestazione sindacale antigovernativa (di fatto era una gita scolastica o poco più) perché si erano attardati a mangiare un boccone da qualche parte. In realtà non avevi intuito la verità: sulla corriera c’erano già quelli che avevano a una certa ora disertato la piazza ed erano andati per tempo a rifocillarsi e ora facevano la figura dei primi della classe. Poi tu cominciasti a parlare della tua storia e a dire che il comunismo e il cristianesimo avevano princìpi comuni, come non rubare, dare da mangiare agli affamati, da bere agli assetati etc, e qualcuno aggiunse non desiderare la donna d’altri, al che tu non mancasti di dire, in arşân, beh lì sono un po’ esagerati. E mi strappasti una mezza risata. Fatto sta che il giorno dopo andai in centro a cercare questo tuo resoconto (ormai ho deciso di definirlo così).
Lui, Aldo, “è così, sarà così fino alla fine. Molto severo e intransigente quando si tratta di princìpi: se si va a messa si va a messa e basta, e ci si comporta secondo certe regole di morale.” Sembra che in questo modo si risolvano le cose, invece: “mio padre non lo sapeva ancora, ma l’avrebbe scoperto presto che era capitato in un mondo che perseguitava e sterminava i diversi; che opprimeva i lavoratori sfruttandoli fino alla morte; e quando doveva liberarsi dei ribelli lo faceva senza scrupoli, come un cane che si gratta via le pulci.”
Alla fine non ce l’ho fatta a non riportare le tue parole (ma non sempre sarà così). Volevo dirti che ormai ho capito una piccolezza mica da ridere: entrambi, non so chi più dell’altro, siamo brutti ma schietti, il che non vuol dire che e sóm di brót mascètt!
Già dal 21 dicembre 1869, quando ci fu la rivolta del popolo contro la tassa del macinato, che costò un numero enorme di morti ammazzati dalle forze dell’ordine (chiamiamole così), “l’Emilia è rossa perché irrigata dal sangue dei morti, dei contadini, operai e partigiani vittime della repressione, della ferocia brutta e sporca dei fascisti e dei nazisti.” – e dei vili massacratori che li hanno preceduti. Per la pianura padana ci sono passati in tanti, Romani, Unni, Longobardi, e tutti hanno dato il loro sanguigno contributo.
“Chini sui terreni del podere di Olmo, i Cervi non hanno molto tempo per la politica. Devono lavorare, e tanto, perché sono poveri, senza il becco di un quattrino sbusato” – in arşân: sbȗş: qui e altrove tu ami disseminare queste perle dialettali che ogni tanto riporterò.
“Dice il proverbio che un raglio d’asino non sale in cielo.” – non lo sapevo, grazie. Mi domando se almeno quello che fece compagnia, insieme al bue, a quella coppietta di emigrati, abbia avuto modo di farsi intendere dal Principale.
Tuo padre va a militare e “un paio di braccia in meno in famiglia si sentono, eccome se si sentono” – anche questo reiterare un’espressione è dialettale, atalpodirtalpo! – che tradotto nella lingua di quel Dante significa lo puoi dire lo puoi. Si sentono sì due braccia in meno!
Tu non conosci troppi aneddoti riguardanti i primi sette mesi di naja di tuo papà e ti chiedi: “Si sarà ubriacato? Sarà andato in qualche casa di tolleranza insieme ai suoi commilitoni? Chi lo sa, era un uomo, non era un santo.” – era tuo padre, questo sai. Dici che “la cosa più bella è parlare con le persone. Ti siedi, bevi un bicchiere, ti guardi in faccia, parli, ascolti. E scopri che ci sono gli altri, scopri le vite della gente, di chi è più vecchio o ha vissuto più intensamente e sa più cose…” – assorbi la vita altrui, la pensi, tenti di descriverla e questo è l’origine della tua e della mia scrittura.
Un certo Borges diceva che la memoria è fatta di oblio. Con quel paradosso intendeva che bisogna chiudere gli occhi e ri-sognare la realtà. Le cose non si raccontano mai come sono avvenute. E mentre le narri, succedono di nuovo. Che ti piaccia o no. Il che non significa che occorra essere bugiardi, ma altrimenti veritieri. E ci gioco l’anima (anche la tua), tu sincero lo sei anche quando t’inventi un po’ le cose. Perché non puoi evitarlo, ormai. Tutto scorre e ormai l’acqua di tutti fiumi di allora è giunta al mare. Ma ne scende sempre della nuova.
“Ma ogni tanto, forse, alle favole bisogna credere. Non è forse a suo modo una favola, quella della liberazione dalla schiavitù dell’uomo nei confronti di un altro uomo?”
Mi fa piacere che tu dia dello “stronzo” a quel “giornalista che doveva scrivere un articolo sui Cervi”, a cui tua madre ebbe imprestato una foto di tuo padre “in divisa da fante del regio esercito” e poi se l’era fottuta per sempre. Che gli venga il caghetto cronico, o la puîda, la malattia che colpisce i polli. Ma non ce l’ha un’anima, quella bestia?
Tuo padre, per una mezza cavolata che ha combinato, viene condannato a tre anni di detenzione al carcere militare di Gaeta, la qual cosa è la sua fortuna e la sua disgrazia, in altre parole il suo destino di cui ancora, quasi un secolo dopo, si sta ancora parlando. In cella qualcuno gli chiede se sa leggere: “Mo’ sì che so leggere e mi piacciono molto le storie…” – e grazie a questa sua facoltà, “dietro le sbarre Aldo si è ‘voltato’.” Un altro Aldo, il teologo ribelle Padre Bergamaschi, direbbe che si è convertito (come quando si fa una conversione a U con la macchina). “… si è girato e ha cominciato ad andare nella direzione opposta…” – e addio, come si suol dire! A Dio!
“Il nuovo crocifisso di mio padre diventa la bandiera rossa con la falce e il martello gialli. La falce dei contadini e il martello degli operai. Il rosso del sangue e della speranza, il giallo del grano e dell’acciaio fuso.”
Doppia attività, d’ora in poi, per lui: “Da una parte c’era da lavorare nei campi, dall’altra c’era da lavorare fuori, in giro, per convincere quelli che sui campi ci sudavano ogni giorno che anche loro avevano dei diritti, ed erano sacrosanti e andavano difesi…”
Fai un elogio dei libri: e dici che “sono una gran cosa”, ma che a volte “sono faziosi, vogliono sporcare, demolire, abbattere.” – ed è il motivo per cui ognuno dovrebbe scrivere la sua storia, con la minor falsità possibile, attingendo solo alla finzione letteraria, che quella non deve mancare mai, ché serve a tenere su la verità però, e per null’altro deve essere utilizzata.
La mezzadria, questa carognata, dove il ricco faceva ai poveri dei contratti assurdi, per cui erano degli schiavi senza catene, come dici tu. E che poi, al momento della conta delle risorse, sapevano truffare ancora di più. La matematica s’impara a scuola, non a zappare.
Non posso non riportare, anzi sintetizzare il capolavoro strategico di tua “nonna Genoeffa che fa il buco nel pavimento della stanza da letto.”. Il tetto perde e quando piove allaga la soffitta dove il padrone, d’estate, manda i tuoi a dormire. Poiché lui non ci pensa proprio ad aggiustare il tetto, la Genoeffa fa un buco e così piove anche sulla testa del padrone. Ah ha ah! Il quale poi si decide a far riparare il tetto.
A me piace la tua ammissione: non ti è mai piaciuto lavorare la terra. Manco a me, anche se nel mio caso era solo un orticello. La terra è bassa, ma a me non scocciava tanto vangare, zappare e piantare, quanto strappare tutti i giorni le erbacce che proliferavano come le maldicenze della gente. Non avrei avuto problemi se fosse stato possibile farlo tenendo un libro in mano. E siamo sempre lì, al coglione che sente di dover coltivare unicamente la sua passione.
“Purtroppo per me, e un po’ anche per voi che mi dovete stare dietro, leggo molte cose, ma sempre in gran disordine, e le cose e le parole a volte sono granelli di sabbia in riva al mare, che dopo un po’ l’acqua e il vento se li portano via e non li rivedi più. Mentre a volte sono come quelle scheggine di legno, quegli spini che ti si piantano nella pelle quando lavori a far l’erba, a tagliare il frumento, a potare le piante…” – etc etc, va bene, maestro, sono d’accordo con te in tutto, ma ora è tardi, ti devo lasciare, vado a letto.
“Guardo il trattore, sempre quello, sempre più vecchio. Butto un’occhiata agli aratri o al carro – e se poi entro in cucina, o nella sala sulla Resistenza, si mete in moto la macchina dei ragionamenti, dei ripensamenti, e li rivedo come fossero tornati qui, oggi…”.
“Alcide guarda negli occhi i suoi figli, riuniti intorno al massiccio tavolo scuro della cucina. La cena è finita, le donne hanno già sparecchiato. Se fosse un film, si…” – ma non lo è, un film, è una scena che ti è entrata nella zucca e che mai ti lascerà. E che sempre avrà una sua nuova narrazione, di poco differente dalla precedente, ma somigliante, come se tu fossi un regista, come quel Puccini che nel 1968 diresse il film sulla loro vita… Ma tu sei anche un personaggio, non in cerca di un autore, ché quello sei tu, ma di una verità, non una basta che sia, ma la tua e quella di tuo padre, che sempre rimarranno correlate, unite per sempre.
Il 1.10.98, dopo le 17 noi tre andiamo (via Cadelbosco-Campegine) al Museo Cervi. Lo visitiamo quasi tutto (ad eccezione delle due stanze di sopra): vi sono un paio di mostre di quadri e una di foto della famiglia. Parliamo a lungo con la figlia di Agostino, uno dei 7 fratelli uccisi, che quel giorno aveva 3 anni. Eravamo in tre, mia moglie, mio figlio di tre anni e il sottoscritto.
Stufi dell’ingiustizia della mezzadria, ora si compirà il grande passo. “Basta con questa fregatura perenne. Il nonno e i suoi ragazzi hanno deciso insieme, discutendo i pro e i contro. Siamo fittavoli, siamo affittuari. Siamo signori. Con regolare contratto. Paghiamo una somma annua al padrone, un bel centonovanta lire a biolca, e il frutto del nostro lavoro, tutto quello che il podere produce, resta a noi. Tutto. Se le cose vanno bene (e andranno bene, me lo sento) produrremo di più, potremo fare migliorie, sul fondo. Potremo dare da lavorare anche ad altri e, com’è vero Iddio, li tratteremo bene, quelli che verranno qui ‘sotto padrone’.” Una biolca reggiana: “parliamo di una ventina di ettari circa.” Ne avete “una sessantina abbondanti”, fai il conto. Ma siete anche sette famiglie.
“Le mucche fanno parte della famiglia, delle lavoranti da trattare bene: se stan bene loro stai bene anche a te, perché tirano l’aratro, fanno vitelli e spruzzano latte. Se invece stanno male, se ti si ammazzano o ti muoiono – o hai dei debiti e ti tocca darle vie per poco – sei finito, perché hai perso il ‘capitale’.”
Sicuramente quello che sto per dirti è blasfemo, ma le bestemmie a volte sono necessarie, specie per chi lavora la terra e ha tutto il suo bene all’aria aperta (lo diceva anche Pavese ne Il mestiere di vivere).
Il penultimo romanzo che ho letto, La giudicessa, è storico e l’ha scritto una reggiana, Rita Coruzzi, ed è dedicato alla figura di Eleonora d’Arborea che, seguendo le orme del padre, con la Carta de logu ha cercato di venire incontro alle necessità dei suoi sudditi. Nella mia reazione ho citato la vicenda dell’industriale Olivetti che tentò di conciliare le necessità imprenditoriali di quella che sarebbe diventata una delle maggiori industrie del mondo nel settore dei prodotti per ufficio, con i diritti dei propri lavoratori. E la bestemmia è questa: le vacche, i suini, i conigli e le galline sono gli operai dei piccoli imprenditori agricoli. Se li tratti bene, se dai loro da mangiare il giusto, ne trarrai beneficio. Rispettali, amali, stagli sempre appresso e loro ti daranno sempre nuove risorse.
Se un’azienda non considera i propri operai come facenti parte della propria famiglia, e se tale famiglia non è una facciata ipocrita, la prosperità degli uni si armonizzerà con quella degli altri. Maggiore è la distanza umana e sociale fra il datore di lavoro e i suoi subordinati, minore è la possibilità di creare un dialogo fra le parti. E prima o poi qualcosa andrà storto. Viviamo in un mondo in cui l’1% della popolazione mondiale ha il doppio della ricchezza del restante 99% e questo è il problema principale. L’1% della popolazione mondiale è troppo impegnato a pensare ai cazzi suoi, decidendo le sorti del restante 99%, e mica può perdere del tempo a cercare di stabilire un qualsivoglia rapporto con chi non condivide i suoi interessi.
Qualcuno della tua famiglia vorrebbe creare una proprietà da gestire in maniera autonoma e qualcun altro gli chiede come si concili questo con l’ideale comunista. La domanda è penosa, ma la risposta, se la si ricerca, non lo è e va individuata in quel suddetto rapporto, che quando si spezza è l’inizio della fine della pace sociale.
Pensa che i gluoni (e cus’ìni?, qualcuno si chiederà. Sono le particelle che tengono uniti i quark che compongono il nucleo dell’atomo. Più questi ultimi si allontanano e più i gluoni (dall’inglese glue, che significa colla) diventano energetici e alla fine, come accade a un elastico troppo tirato, il legame si spezza e succede di tutto, quel bordello che si chiama rivoluzione e che tende a ricreare l’ingiustizia che l’ha provocata. L’unica è rimanere vicini e a disposizione del prossimo.
Ti rivolgi a chi ti può rispondere solo dentro di te: “Fammi vedere cosa leggi, papà.” – ah, è il suo libro preferito, Il tallone di ferro di Jack London, una distopia moderna che è ispirato da un’etica antitotalitaria. Mi fa piacere che ne estrapoli una pagina intera, così mi fai sentire meno in colpa quando lo faccio con te. A me capita spesso di nutrirmi dell’altrui scrittura. Sono come quei bovini, se mi si dà da mangiare bene, magari del gran latte non ne produco, ma dell’ottima carne rossa sì, finché se ne vuole. Non trovi in casa quel libro (io non l’ho mai avuto, ma ora lo cerco dove so io).
Poi dici: “Sento zampettare, sorrido. Adesso porto giù i cani, ché è ora.” La mia, che si chiama Phoebe, ha appena rosicchiata e resa inservibile la matita con cui stavo segnando alcune frasi del tuo libro. Per un attimo mi pare di odiarla. Ma poi me ne faccio una ragione. Ne ho altre due o tre in casa, di lapis. Di cani ho solo lei.
“Se parliamo di politica, di lottare per cambiare il mondo, mi dovete dare una botta per farmi tacere.” – confermo, almeno per quello che ti sentii dire in quella scampagnata scolastico-sindacale. Tu sei uno che non trova mai il tempo di sputare per terra, come si dice dalle mie parti (quando sono ad Amalfi, tipo adesso) e che quando sei nato hanno dato alla levatrice molto pane, come si dice dalle mie parti (quando sono a Reggio, tipo una settimana fa), ché, se non gliene davi abbastanza, si temeva che il figlio sarebbe rimasto muto.
“Invece, dover entrare nella camera da letto di mio padre – e di mia madre – mi fa una fatica tremenda. Mi viene un groppo in gola. Però. Ci devo arrivare. Non posso far finta di niente. È da lì che vengo. Dal loro amore fuori dalle regole. Almeno dalle regole dell’epoca.” Ti capisco. Di solito tu ri-crei i dialoghi fra tuo padre e i tuoi zii, così come avvennero, anche se nessuno ne avrà mai la certezza. Ora ti affidi a una lettera che tuo padre inviò a “Verina cara” il 21 novembre 1937. È scritta molto bene, complimenti, Aldo, dici tutto con ruvida grazia e passione, e nulla che la stessa Verina non potrebbe riportare alla sua migliore amica, se mai ce l’aveva. Alla mamma no, che già visse quei momenti e che ben sa a cosa porta tutto quel romanticismo: a farle perdere la figlia, che andrà in dono a uno sconosciuto.
In fondo a questo trentesimo capitolo, tu riporti le parole che non udisti allora, non essendo ancora nato, ma che stai ora pronunciando come se fossero di tuo padre. L’ultima frase è: “Ci scommetto quello che vuoi che risponde.”
Le vacche: “una piccola e tonda era Balejna (Pallina), ma se era grossa e pesante diventava Balena. Mora quella di pelame scuro e Dora se il manto era rossiccio, quasi dorato… Anche l’uso dei nomi prova il rapporto stretto tra contadino e animale. Certo la mucca era una risorsa economica, mica un gattino da accarezzare, ma c’era anche del sentimento e secondo me non si stava nella stalla perché ci faceva caldo d’inverno.” – i miei zii però ci ballavano anche, specie d’inverno, appunto perché lì faceva meno freddo.
A proposito della “monta bovina” che tu definisci un “altro spettacolo ufficialmente ‘vietato ai minori’”, dove però “i bambini imparavano come funzionavano certi fondamentali della vita”, mi chiedo se a casa Cervi fosse concesso a entrambi i generi, maschile e femminile. Un mio zio mi venne a cercare in cucina per portarmi a vedere nascere un vitello. Mia sorella, che era ugualmente presente, non fu invitata. Non sai giudicare se “fosse meglio o peggio dei filmini porno sul computer”: secondo me si tratta di due cose diverse, poiché il fine lo è. Internet, nel bene e nel male, in questo almeno è democratico: non chiede a quale sesso appartenga l’utente.
Intanto il “metodo Cervi” comincia a impensierire i vicini, perché ha fin troppo successo. Siete una famiglia intraprendente che non esita a spendere dei soldi per comprare “il mitico trattore Landini”: ora “le nove mucche che popolavano la stalla nel ‘34 si sono moltiplicate, sono diventate una quarantina, e la casa è diventata più grande… adesso anche il trattore?” – ma dove vogliono arrivare questi matti dei Cervi? Meglio non rispondere! Un motivo c’è: i figli di Alcide “non hanno mai smesso di leggere, discutere, passare con la propria testa, come i contadini non sono mai stati abituati a fare.” Ah, mentre stavi discorrendo su queste cose, la mia pusher preferita di libri da Reggio, la stessa che mi ha fatto avere il tuo libro, mi ha inviato al cellulare l’immagine di quello di Jack London! Quando torno a Reggio mi faccio una dose di romanzo distopico! Grazie mille per l’informazione…
Ogni tanto, spesso, quasi sempre, hai delle visioni: “Vedo mio padre che corre da un posto all’altro pedalando come un matto. Incontra gente, discute di affari. Di latte e di frumento, di mucche e di sementi. E soprattutto di politica…”
Il rapporto fra i tuoi genitori s’infittisce “e l’amore dà i suoi frutti, come la terra coi semi.
Mia madre rimane incinta.” – lui non intende affatto sposarla, né in chiesa né in comune, ma non desidera altro che di vivere insieme a lei e con la prole che nascerà. “Quante cose che succedono, nel ‘39.”
Mi sono alzato in piedi e ho approfittato che alcuni miei familiari sono in un’altra stanza e ho iniziato ad applaudire, cercando però di minimizzare il rumore, ché già pensano che non sono normale. Hai scritto: “Andar per ricordi è come andare a caccia di perle sepolte nelle sabbie mobili. Ogni tanto te ne capita qualcuna veramente bella e delicata, ma intanto i tuoi piedi sprofondano lentamente. Se non stai attento, non ne esci più…” – sempre in ossequio a Borges che dice che la scrittura è una finzione, ma che se non ci fosse non troveremmo più il sentiero che dà un senso al nostro esistere, senza usare un navigatore, ma semplicemente affidandoci a lei, non solo quella che ci appartiene, ma anche quella di chi, fino a quel 16 dicembre appena passato, io sapevo a malapena che esisteva. Ora, grazie a lei, io ti sento parente, qualcosa di simile a un cugino.
“1943. Uno-nove-quattro-tre. Che anno!”
È l’anno in cui sei nato, ed “è l’anno che il mondo si è girato e ha detto al nazismo e al fascismo di andare a dar via il culo perché il vento sta cambiando…” – e quell’altra cosa: “mi ha portato via mio padre.”
E, “detto in parole povere, così lo posso capire anch’io, vorrebbe dire che qualcuno è rimasto lì acquattato, aspettando di capire da quale parte tirava il vento, magari anche sperando che il duce e la sua marmaglia facessero una brutta fine, ma senza alzare un dito, e invece qualcun altro ha scelto da che parte stare.”
Tralascio di riportare e anche di commentare la parte più importante della storia di tuo padre e degli altri eroi, dentro e fuori la tua famiglia, perché questo non è un Bignami del tuo resoconto. Se qualcuno vuole sapere non deve fare altro che cercare il libro e cominciare dalla foto che è nella prima pagina e continuare fino alla Bibliografia finale. Parafrasando il celebre grido di Otello Montanari (Chi sa parli!), io dico Chi vuol sapere legga!
Alla caduta del duce succedono tante cose, fra cui una di tipo floreale-idealistica: “Sventola anche una bandiera rossa, tirata fuori da qualche cassettone dov’era sepolta, ma davvero sembra solo un simbolo di festa, un papavero in un campo di frumento.” – di quelli che danno un lieve stordimento che va via da solo, sempre che venga, e non sempre si ricorda di farlo. Poi c’è il fatto che, anche se ancora non si sa cosa significhi esattamente, deve iniziare (ma da dove?) la Resistenza. Forse da questo tua definizione: “La Resistenza è dire no.”
Dato che siete dei matti e che ormai siete quasi benestanti, e che siete i Cervi: “si sparge la voce e dopo un po’ arriva qualcuno e qualcun altro lo vanno a raccogliere loro. Per qualche tempo, ospitare e rifocillare sbandati, antifascisti, disertori e prigionieri di guerra in fuga diventa un lavoro a tempo pieno. Dove la famiglia mette in campo la stessa efficienza che ha dimostrato nel fare dei Campi Rossi, un’azienda agricola modello: volontà, intelligenza e tutti che sanno far tutto, ma ognuno è ‘specialista’ di un settore, come nelle aziende moderne.” – era questo che rendeva sèinper piò mât i Cervi, cioè fuori dagli schemi altrui, e ben dentro ai propri. Così mi disse uno della Bassa che affermava di conoscere la vostra storia: quello che recava fastidio ai fascisti era il vostro saper essere autonomi dal potere, una piccola enclave dentro all’Italia del Littorio. Indipendenti e liberi.
Fra quei disgraziati, “qualcuno si ferma una notte o poco più, per poi ripartire alla ricerca del suo obiettivo. ‘Coraggio e buona fortuna’, ‘Grazie di tutto, e buona fortuna anche a voi’. Qualcuno resta per un po’, specie se è ferito o troppo debole. Qualcuno aiuta nei lavori.”
Eravate coltivatori e conoscevate il valore del lavoro, senza l’alienazione di cui diceva Carletto (Marx) nel suo librone. Lavoro viene da labor e, andando più indietro, deriva dalla radice sanscrita labh- (che, più anticamente ancora, faceva rabh-), che dava il senso di afferrare, cogliere al volo, orientare se stessi; o assistere a quel che il destino decide per te e tu devi adeguarti oppure opporti. Un mio amico siciliano una volta mi chiese perché noi reggiani mettevano il lavoro dappertutto, anche in espressioni come mo che brót lavòur!, ma che brutto lavoro! Lui preferiva l’espressione camurria! Gli dissi che il lavoro fa parte del destino individuale dell’uomo, che può contenere tutti i colori dell’iride, dall’indaco al rosso. Compito dell’uomo è scegliere il proprio. C’è chi ha scelto il rosso, chi il nero e chi, per ottenere il potere e fare i cazzi suoi, il rossonero. Questa è una battuta che potevo risparmiarmi, per cui la lascio.
L’aiutare gli altri è un lavoro che richiede organizzazione e consapevolezza della finalità a cui si deve giungere: la solidarietà, prima o poi, come la maledizione, torna indietro. In tempo di pace, a Gavassa i miei nonni usavano ospitare nella loro casa di campagna (in cui normalmente vivevano più di trenta anime), ospiti lazzaroni come piuciòun (pidocchioni, cioè mendicanti), zingari e pastori di passaggio col gregge. Dato che le stanze erano tutte piene di anziani, giovani coppie e di bambini, questi dormivano al calduccio (si fa per dire) della stalla. E mangiavano le stesse cose che i miei parenti preparavano per sé. Agli zingari veniva prestata una certa attenzione, ma mia madre, che visse quei momenti, mi ha garantito che non ci fu mai nessun furto da parte di alcuno. Mica erano scemi. Uno ruba più volentieri quando ha un alloggio proprio da qualche altra parte, non quando è ospite fisso insieme ad altri.
“Che strana posizione, quella da dove guardo la tua storia, papà. E che razza di personaggio mi sono ritrovato a interpretare! Quello di un bambino che ancora non sa niente, chiuso nel corpo di un uomo vecchio che sa anche troppo. O forse è il contrario, non so più bene. È difficile capire con precisione dove sto e chi sono.” Tuo padre, a parte l’esperienza del militare, in cui aveva sparacchiato in aria un paio di colpi, non si sa per quale motivo e per cui fu condannato al carcere di Gaeta, era un uomo di coltura (dei campi) e di cultura (per via dei libri) e poi qualcuno che ha studiato mi deve spiegare perché debba cambiare quella vocale, quando tanta differenza non c’è: leggere è coltivare un fiore che diventerà un frutto, e dal letame nascon i fior, canta il poeta. Lo sai che il letame si chiama così perché, senza di esso, i campi anziché lieti sono tristi? E che più la vacca è lieta e più caga? Questa assolutamente non potevo risparmiarmela! Anche la cultura nasce dal bisogno di evacuare, di far uscire il marcio rifiuto che è in noi. Oppure la bellezza, per cui si può assimilare al parto delle donne. La signora Angelina quando vide il mio Michelangelo di pochi mesi disse: da nu poco ‘e schifezza nasce ‘a criatura!
Alla scatologia, se ci si azzecca una e diventa escatologia, dottrina della salvezza. Ma ora basta sparare cazzate, è giusto che lasci a te quest’onore.
Torno a tuo padre, che fece appena in tempo a scorgere la bellezza che era scaturita da quel po’ di schifezza, lui che amava le cose sublimi e che, pur odiando le ingiustizie, non aveva “nessuna voglia di sparare davvero a qualcuno. Anche se è un fascista, anche se è un tedesco.” – tutti, come lui, come te e me, sono nati da quel po’ di schifezza e sono diventate criature.
“Un mondo migliore non arriva solo perché stai lì seduto ad aspettarlo.” – chi vuole le cose deve slungarsi, şlunghères in arşân, tendere le braccia e muovere le gambe, cosa che è facile da farsi in tempi di pace, ma durante la guerra… non è un casino, è un’atrocità.
Ora stai andando in auto lungo la SS 63 a cercare i luoghi dove agiva tuo padre con gli altri partigiani. Questo ti risveglia numerosi ricordi, anche dello zio venuto a mancare prima della tua nascita. “Non ha importanza, se non per me. È che ogni volta che giro la forchetta in questa insalata di ricordi viene su qualcosa e son tutte cose di persone morte.” – il fatto è che la storia la g’à na léngua ch’l’ē pêş d l’insaléda capuşèina, che se la vedi è una lattuga che presenta tanti strati che s’attorcigliano fino a portare in alto la Verità ufficiale che col tempo diventa anche generale a quattro stelle, a forza di dire, di urlare a volte, la sua. Ed è sua, di chi la dice per ultimo, ma non sempre appartiene alla realtà di quel che effettivamente successe.
Scrivere “una storia della Resistenza attraverso le lapidi e i cippi sparsi in tutta Italia” sarebbe un modo per collegare tutte gli uomini morti e chiedere a loro: perché mai tutto ciò?!
“Alcuni erano incoscienti, sbruffoni, ribelli, sguaiati, paurosi, violenti, sciocchi, incapaci e chi più ne ha più ne metta. Ma erano dalla parte giusta. Erano partigiani. Di là c’erano le tenebre. Hanno lottato per scacciarle. E ci sono riusciti.” Sto scrivendo in itinere, dopo aver sottolineato qualcosa e concluso il relativo capitolo.
La considerazione seguente invece l’aggiungo quando sono già arrivato alla Bibliografia. Tu citi numerose opere, fra cui La Madre di Gor’kij, che tanto infiammò Lucia Sarzi, compagna di lotta di tuo padre. Poi accenni a Una questione privata di Fenoglio. E allora ti chiedo: dove lo metteresti quel giovane prigioniero fascista che, mentre viene fatto fuori dai partigiani, grida Viva il Duce?
Torno ora indietro nel tempo, anzi, nei tempi: “La banda arriva a Toano non col ‘buio mattino’ della canzone, ma nel tardo pomeriggio del 26 ottobre 1943. Io poco più tardi, verso le sei e mezzo di sera del 7 novembre 2013.” Ringraziamo Dio o chi per lui di aver vissuto nella nostra epoca e non in quella dei nostri padri.
Torno ora in itinere. “Per loro, al 25 novembre manca un mese e al 28 dicembre ne mancano due. Io a disposizione ho dodici giorni di meno per ripercorrere la loro strada. Mi devo affrettare, se non li voglio perdere. E non ti posso perdere proprio adesso, papà.” Più tardi ammetti: “Ti confesso che ho barato. Io da Topignola ci sono passato prima di andare a Toano, prima di andare a Villa Minozzo, prendendo una stradina prima di Santonio. Complice il fatto che un’automobile moderna e non ho militi, né carabinieri alle calcagna. E poi sono io che racconto la tua storia e chi racconta storie è per forza uno che imbroglia, almeno un po’.” – sono d’accordo, ma è anche la storia di tuo padre che sta raccontando te, non so se te ne sei accorto.
“‘Vè, tra un po’ il putino compie tre mesi, eh’ dice Aldo e gli fa una carezza leggera, ad Adelmo, passando le dita callose tra quei capelli così fini. Antonietta è seduta a terra che sbocconcella una crosta di pane.” – realtà, finzione? Ve’, vedi, che domanda sciocca t’ho fatto!
A voi, Aldo ci pensa anche troppo, ma, dice: “… quello che faccio, lo faccio anche per loro e per te… Starete tutti meglio, dopo…”
Ci sono difficoltà tra i partigiani di Reggio, e tuo padre cerca collaborazione “col comitato di Parma”. I pramşân saranno anche dei bigolòun, ma vent’anni prima avevano impedito ai fascisti di entrare in città. Se vai sul lungo Parma, puoi leggere la scritta che mi ha sempre fatto ridere: Balbo t’è pasè l’Atlantic mo miga la Perma. I fascisti allora non riuscirono a entrare in città.
Ma ora tutto va a monte, per motivi vari, anzi diciamo che resta sperduto nella pianura.
I capi di Reggio “hanno deciso che il modo di agire della banda Cervi è troppo pericoloso, se qualcosa va male l’intera rete clandestina del partito rischia di saltare. E hanno ordinato di stare alla larga, di lasciarli cuocere nel loro brodo.” Cazzi vostri, insomma, non più loro. E siete soli. E siete costretti a rincasare, dove non siete affatto al sicuro come sperate.
“Il fascio a casa Cervi arriva di mattina presto, il 25 novembre. Siamo lì tutti, anch’io che ho appena compiuto tre mesi. Siccome non ricordo niente, posso raccontare tutto.” Ancora e sempre: la memoria è fatta di oblio, ma anche di volontà di ricordare e di capire.
Quanti erano i fascisti? Alcuni dicono cento. “Secondo le carte erano trentadue – è tutta così, versioni e voci che si accavallano e si contraddicono.” Numeri che contano fino a mezzogiorno e ora sono quasi le cinque di pomeriggio.
Gino-Aldo scrive alla mamma e le dice, pacatamente, che stanno tutti bene: “per me però non mi faccio illusioni”. Tu ti chiedi ora, anzi gli chiedi: “E io? Non ci pensi, a me? La mia mamma piange, crede che non la vedo, e anche se la vedo, cosa vuoi mai che capisca un putino?”
Questa è la sintesi che fai della lettera a Verina, che hai riportato integralmente e poi a pezzetti: “‘sii coraggiosa che tutto passa’. E a me, basta che ho le calze e mutande pulite, che mi importa del fascio, della guerra e di esser in prigione? ‘Tutto passa…’ Sembra la pubblicità di un calmante o di una pastiglia per il mal di testa…”. Battuta finale: “Tutto passa, è vero. Sembri un filosofo, qui, più che un contadino.” – come dicono di chi, pur dotto, non sa che dire delle sciocchezze: l’à studiê trȏp.
“Settant’anni, una vita. La mia vita.” – la tua vita è di poco più lunga della sua morte. Settant’anni sono passati da quegli eventi alla data in cui decidi di scriverne.
“Hai paura, papà? Dimmelo per favore, ché ho bisogno di saperlo.” Ti rispondo io: egli ha studiato abbastanza ed era un uomo intelligente; sì, ne aveva, e non poca. Solo gli stolti non sanno cosa sia quell’emozione che ci fa tanto male ma che a volte ci salva la vita. Non sempre ci riesce, purtroppo.
“Ma nessuno qui mi ascolta, forse perché nessuno mi sente, nemmeno tu, papà, che non riesci neanche a dirmi perché devi proprio morire così, perché devi morire proprio oggi.” E io? Non mi calcoli. Sono tre giorni che ti sento dire tutte ‘ste frasi. E che addirittura prendo nota dei passaggi che ritengo più significativi.
“L’ufficiale dà gli ordini, voi li guardate con i vostri occhi di gente buona, loro vi guardano con gli occhi neri dei fucili, lo zio Gelindo grida: ‘Noi non moriremo mai’ Poi partono i colpi.” Gelindo era il più anziano dei fratelli e quello che mi è più simpatico, dato che tu dici che non ha mai voluto far il capetto dei suoi consanguinei e anche per quell’aneddoto che hai narrato nel secondo capitolo: “… quella volta che si era travestito da donna per andare a una festa da ballo e l’ha fatta in barba a tutti, finché non se n’è accorto un ragazzino e a quel punto l’hanno cacciato fuori.” Dico l’ultima piolata: pensa a come avrebbero reagito quei cani ringhiosi se al momento dell’arresto avessero trovati tutti i maschi della tua famiglia vestiti come damine e le donne con pantaloni, giacca e cravatta e magari con un bel paio di baffoni posticci!
“No, non siete fatti di cartone e di legno: dal cartone e dal legno non esce mica il sangue…”
In finir di capitolo (ed è solo il novantacinquesimo) dai torto a tuo zio: “Gelindo ha detto una bugia, perché siete morti, stesi sulla terra fredda, state diventando freddi anche voi, il respiro che si disperde e si arresta, il sangue che scappa dai buchi, così scuro in questo buio che fa paura. Ho talmente freddo che neanche se mi buttassi dentro il camino di casa acceso riuscirei a scaldarmi.”
E ti capisco, e ti voglio bene, perciò ti sconsiglio di ardere come un ciocco, ma ti do anche torto: il nostro comune zio Gelindo ha gridato la verità.
È una tragedia, tipo quelle che scriveva Euripide, ma lo sai, vero, che ognuna di esse cela nel suo cuore una catarsi?
La guerra continua, con stragi di tutti i tipi. Gli inglesi bombardano la città di Reggio: “muoiono sessantotto persone” – tutti civili.
Mio padre abitava in via Gondar 11. La casa che era al numero 7 fu completamente distrutta da una bomba. Il fine di quegli invasori era colpire le Officine Reggiane dove lui lavorava. Obiettivo mancato.
Gli yankee il giorno dopo bombardarono di nuovo la Città del Tricolore: “I morti sono ‘solo’ il triplo, anzi un po’ di meno: centonovantasei.” – beh, meno male che erano i nostri nuovi alleati.
Tua madre dice alla figlia che Nostro Signore non c’entra, “perché il fucile non ce l’aveva mica in mano Dio”; Diomira dice che “è vero, non ce l’aveva Dio, ma ce l’avevano in mano i fascisti!” – e allora segue un’altra saggezza che congela il discorso: “Vè, putela, i fascisti hanno tutti una mamma. La colpa è della guerra, che ha messo un figlio contro un altro figlio.”
Dicono che i contadini hanno le scarpe grosse e il cervello fino. Mia madre era a quei tempi quasi un’intellettuale, avendo fatto fino alla quinta elementare. Una volta così rispose a un diplomato testa di cazzo e razzista: I nighêr a gh àn al sângov ròss cme al nôster: hanno il sangue rosso come il nostro. In reggiano non si dice nero, ma come in latino la g è obbligatoria e non intende mica offendere nessuno.
“La guerra trasforma, schiaccia, uccide, sconvolge esistenze, trova assassini in uomini normali. La guerra non dovrebbe esistere.”
La guerra è una merda che ti viene infilata a forza su per il culo, squarciandolo. È una creatura che viene introdotta con violenza dentro a quel ventre materno da cui anni prima era venuta fuori. Già lo sapevo prima di leggere il tuo resoconto, Adelmo. E non credo che cambierò mai idea. Chi la definì la sola igiene del mondo è Colà, insieme a tuo padre, per l’eternità. Speriamo che non s’incontrino. Se poi capita, confido sia nell’intelligenza del tuo consanguineo, sia nel potere catartico di cui dissi sopra, sperando che valga per tutte le persone morti, anche per chi ha promosse le guerre e tutte le ingiustizie umane. Altrimenti… ciao!
Ah, dimenticavo. Sia tu che tuo nonno ripetete l’imprecazione sacher dio!, che io non ho mai sentito, pur essendo reggiano come voi. Mi fa venire in mente un dolce viennese, la sachertorte e non so se c’entra. In reggiano sacro non si dice granché, ma richiede la g dura, da cui sègra, sacra.
Mi viene ora in mente che mia cugina Catia si chiedeva perché suo padre (che fu partigiano come il tuo) ogni tanto diceva che doveva portare le scarpe dal siuster, un termine che non era affatto reggiano. Poi, per caso scoprì che il calzolaio allora era un crucco, probabilmente un ex soldato della Wehrmacht, e che in tedesco schuster (pronuncia sciuster) significa calzolaio. A noi reggiani tutto potete chiedere ma non di usare la sc di fascista! Per noi quei maledetti disgraziati sono fasisti e basta!
Sto forse divagando, evitando di commentare ulteriormente il tuo terribile libro? No, innanzi tutto non è così terribile: è originale come pochi, aggraziato a modo suo e talvolta scherzoso, anche non so come tu riesca a sorridere per un fatto comico, subito dopo esserti asciugato un paio di lacrime. E poi, come tu sai, noi reggiani non divaghiamo mai, almeno quando dormiamo! Ma anche nel più assurdo dei sogni, con ostinazione, noi inseguiamo le nostre ragioni fin dove esse ci condurranno. Alla fine di questa reazione, per esempio.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Adelmo Cervi, Io che conosco il tuo cuore, Piemme, 2014